Insofferente ai luoghi comuni dell’industria dello spettacolo, votata a una metamorfosi ininterrotta, la personalità di Neil Young appare, almeno in superficie, inafferrabile e sfuggente. Da più di mezzo secolo imperversa con le sue chitarre, e riuscire a collocarlo all’interno di una cornice è un’impresa improbabile più che difficile. Questa raccolta di interviste trova il modo di accostarsi a un’identità complessa ed eccentrica senza provare a descriverla o a rinchiuderla in uno schema. Nel corso di un arco temporale che va dal 1967 dei Buffalo Springfield al 2015 di The Monsanto Years è una bella traversata negli oceani di Neil Young che si premura spesso di avvisare i naviganti che gli sbalzi e le intemperie sono innati, ripetendo più volte: “Nella vita ho patito ogni genere di emozione e mi sono accadute cose a cui ho reagito in maniera estrema. In tutto quello che faccio è presente la rabbia, anche se a volte è così sfumata da diventare quasi leggiadra. La rabbia è del tutto fuori controllo, ma la mia sregolatezza emerge quasi soltanto nella musica”. Alcune caratteristiche fluttuano da una chiacchierata all’altra, altre restano costanti pur seguendo un’onda sinusoidale che rispecchia gli stati d’umore e d’alterazione di Neil Young. L’attenzione maniacale ai dettagli è uno dei dogmi che viene reiterato in ogni occasione, partendo proprio dall’attività principale (“A mantenere viva la musica sono le piccole cose che su larga scala non si notano neppure. Le novità devono sempre iniziare in sordina”) fino ai particolari più intimi e dolorosi della vita privata o a quelli delle sue passioni, dalle auto d’epoca al fermodellismo. Le divagazioni sono spezie sparse con gusto sul menù che è disposto su alcuni punti cardinali inamovibili. Alla musica, che viene raccontata da tutte le angolazioni possibili (gli estremi comprendono Woodstock con Jimi Hendrix, l’epopea di CSN&Y, il legame con e per i Crazy Horse) si affianca la ben nota sensibilità per l’ambiente (“Siamo tutti parte della natura e tutti animali. Siamo altamente evoluti e dovremmo prenderci la responsabilità di quello che abbiamo imparato”) e, più in generale, l’attenzione a quello che succede nella realtà, sia che si trasformi in canzoni, sia che resti a livello di semplice opinione. A dispetto delle leggende e delle sue idiosincrasie, Neil Young è un interlocutore che si concede con generosità: sì, ha una spontanea propensione a dissimulare e a svincolarsi, ma seguendo le sue risposte, intervista dopo intervista, è impossibile non provare un moto di simpatia e accorgersi della sua unicità. Se ne è accorto, tra gli altri Richard Cook che incontrandolo nel 1982 lo descrive così: “È quasi un miracolo che non abbia smarrito l’equilibrio, tanto curiosa è l’ambivalenza della sua posizione. Da una parte, nell’atteggiamento e nelle esibizioni, ha mostrato un disinteresse verso pubblico, stampa e industria che avrebbe potuto alienargli tutti e tre; dall’altra ha scritto un profluvio di musica irresistibile, sfornato una quantità di dischi e selezionato iniziative e progetti con tale astuzia e monelleria da fare sospettare che ogni rischio, ogni eccentricità sia stata ben soppesata e studiata. Per ogni Rust Never Sleeps c’è un placido Comes A Time. Ogni volta che Young sfida l’abisso torna poi a ritrarsi dall’orlo del baratro. È un uomo intelligente”. Su questo non c’è alcun dubbio, e il modo migliore di scoprirlo si nasconde proprio tra queste pagine.
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