Gli Otto uomini di Richard Wright sono altrettante estensioni di un’unica personalità che ci porta in posti dove nessuno vorrebbe andare: filtrano in continuazione scampoli autobiografici, ma tra i racconti c’è una fitta serie di agganci e di associazioni, di connessioni e di collegamenti che costituiscono la suggestione di un solo corpo. La pistola (“Per la miseria, un uomo se la merita tutta una pistola, dopo che si è spaccato la schiena tutto il giorno”) e gli spari in L’uomo che era quasi un uomo si propagano anche con L’uomo che visse sottoterra, dove il protagonista la lotta per la sopravvivenza in un underworld cupo e surreale, dove matura un senso permanente di ingiustizia e ambiguità, tanto che “il mondo in superficie” appare “un bosco selvaggio carico di morte”. Una cassaforte lega L’uomo che visse sottoterra a Un nero grosso e buono, ma è ancora il colpo di un’arma da fuoco a distinguere Un uomo tuttofare, dove i contrasti tra nero e bianco viene sommato a quello tra uomo e donna. I ruoli si ribaltano e Richard Wright scrive senza fare sconti, nemmeno al lettore che viene preso per la gola e trascinato in situazioni drammatiche e imbarazzanti nello stesso tempo. La tensione è altissima, lo stile è la lama di un coltello a serramanico pronta a scattare, e colpisce immancabilmente. Le note di speranza sono rare, per quanto liriche, ma avvengono fuori dall’America, dove la sopravvivenza dei personaggi di Richard Wright è una scommessa. Se Un nero grosso e buono è un intervallo ambientato in un porto danese, (qui la pistola rimane nel cassetto), L’uomo che uccise un’ombra, ci riporta “in un mondo diviso in due, uno bianco e uno nero, il primo separato dal secondo da milioni di chilometri di psicologia”, con una violenza inaudita pronta a esplodere in qualsiasi momento. È dove diventa evidente la protervia delle provocazioni razziste, finché “le persone stesse divennero dei simboli di inquietudine, di una privazione che gli evocava il senso della transitorietà della vita, cosa che pareva suggerirgli che su di lui si sarebbero abbattuti certi invisibili, inspiegabili, eventi”. È una corrente continua nei racconti di Richard Wright e si spiega soltanto con le pressioni incalcolabili e l’estrema solitudine dei personaggi che in L’uomo che andò a Chicago viene centellinata così: “Ogni momento della giornata viene dunque consumato in una guerra contro di sé, una parte sostanziosa delle sue energie spesa per mantenere il controllo delle proprie sregolate emozioni, emozioni che non ha mai desiderato, ma che non può fare a meno di avere. Tenuto a bada dall’odio per gli altri, preoccupato dai suoi stessi sentimenti, è poi continuamente in guerra contro la realtà. Diventa inefficiente, meno capace di vedere il mondo nella sua oggettività”. Il protagonista ammette candidamente che “come ogni altro americano sognavo di mettermi in affari e di fare soldi”, ma la realtà della città è durissima e alla deve ammettere: “Non avevo ancora imparato nulla che mi potesse aiutare a districarmi in quelle indecifrabili relazioni razziali. Accettando l’ambiente che mi circondava, e prendendolo per buono, intrappolato dalle mie stesse emozioni, continuavo a chiedermi che cosa avessero mai fatto i neri per far sì che questo insensato mondo fosse contro di loro”. La successione al ribasso dei lavori che intraprende lo porta ad assistere a momenti triviali e penosi compresa la rissa in un laboratorio, con un finale tragicomico. È l’apoteosi di Otto uomini con cui Richard Wright ci introduce in un tempo sospeso tra il sogno e la realtà, spesso con le tinte della notte e del crepuscolo che si tramandano e si sommano, ma che alla fine giungono alla conclusione che “la nostra America troppo giovane e troppo nuova, vigorosa perché sola, aggressiva perché spaventata, insiste nel vedere il mondo in termini di buono e cattivo, santo e dannato, alto e basso, bianco e nero; la nostra America è spaventata dai fatti, dalla storia, dai processi, dalla necessità. Accoglie la scorciatoia per cui si condanna chi non si riesce a comprendere, si emargina chi ha un aspetto diverso; e ripulisce la propria coscienza ammantandosi di una giustizia che si è cucita addosso da sé”. Un’analisi perfetta, peraltro ancora molto attuale.
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