L’ombra di Angola, il più terribile tra i penitenziari americani, è lo sfondo cupo su cui prende forma La tragedia di Brady Sims. Lo storico Adam Jay Hirsch citato da Angela Davis in Aboliamo le prigioni? diceva che “si avvertono nel penitenziario molti riflessi della schiavitù così com’era praticata al Sud”. Sorto sul terreno di una piantagione ad Angola c’era qualcosa di peggio, un microcosmo spietato, violento e atroce, che andava ben oltre l’esecuzione della pena. Lavoratore instancabile e rispettato, Brady Sims conosce a fondo quella presenza spettrale e non esista a usare la frusta o metodi educativi anche più drastici, con l’idea che qualsiasi dolore è meglio che finire ad Angola. La tragedia di Brady Sims, che si colloca in un momento indefinito del ventesimo secolo a Bayonne, in Louisiana, è che il suo senso della giustizia lo porta alle estreme conseguenze, a sparare al figlio in un’aula del tribunale, decidendo la condanna per lui e, in fondo, per sé stesso. Ma è solo l’inizio: la travagliata esistenza di Brady Sims è ricomposta dallo storytelling popolano e popolare degli ospiti del barbiere. Sul muro ci sono le fotografie di Martin Luter King, Mahalia Jackson, Malcolm X e Duke Ellington e soltanto i nomi dei personaggi (Sweet Sidney, Lucas Felix, Joe Celestin, Jean Lebouef, Sam Herbert, Oscar Gray alias Tato, Frank Jamison, Louis Guerin, Lloyd Zeno e Will Ferdinand) formano una litania ipnotica, ma è proprio attraverso le loro chiacchiere che prende forma La tragedia di Brady Sims. In effetti potrebbe essere una pièce teatrale, tutta concentrata nella cornice del negozio, solo che Ernest J. Gaines è uno di quegli scrittori che, parafrasando gli oratori lì parcheggiati, “ti buttano l’esca, cominciano a raccontarti una storia e sanno che non te ne andrai finché non sentirai la fine”. Nel ruolo di testimone e narratore, Jack Burnet, un giovane reporter incaricato di scrivere un pezzo di “vita vissuta”, come si dice in gergo, non deve far altro che ascoltare, in questo riflettendo uno spunto autobiografico dello stesso Ernest J. Gaines che diceva: “Credo di essere più un ascoltatore che un narratore, in realtà. Ascolto. Mi piace ascoltare il modo di parlare della gente e le loro storie. Poi appena posso, vado alla mia scrivania e cerco di buttare giù qualcosa. Ma non sono uno storyteller, sono uno che ascolta”. La tragedia di Brady Sims viene ricostruita proprio come una somma di racconti orali: è un uomo che si è guadagnato il suo posto sulla terra, e un angolo tutto suo dove vivere ed “era un uomo che alcune persone avrebbero definito troppo difficile. Ha vissuto in tempi difficili.... E il fardello che gli abbiamo messo addosso non era leggero. Sì, noi. Tutti, incluso me. Se avessimo fatto di più, il suo carico non sarebbe stato così pesante”. Sono parole dello sceriffo Mapes che è il contraltare di Brady Simes e a cui tocca definirne l’epilogo: “Il cielo è blu, il fiume è calmo. Guarda come si salutano l’un l’altro, mentre fanno sci d’acqua. Liberi, liberi, senza preoccupazioni al mondo. È un bella giornata, soleggiata e luminosa, tranne nel mio cuore. Nel mio cuore c’è buio. La sua pelle è nera, la mia è bianca e lui è mio amico. Non ho mai conosciuto un uomo, bianco o nero che fosse, migliore di lui. Perché? Perché l’hai fatto? Al diavolo, so perché. Lo so maledettamente bene perché”. Diceva ancora Ernest J. Gaines che “la buona arte non deve essere arrabbiata o militante per essere politica, ma semplicemente creativa, accurata e precisa” e la riprova è La tragedia di Brady Sims dove la densità della sua scrittura, risponde alla concreta idea che “l’artista è il solo uomo libero rimasto. Non deve nulla a nessuno, nemmeno a se stesso. Dovrebbe scrivere quello che vuole, quando vuole e come vuole. E se è sincero, le persone rivedranno loro stesse nei suoi libri”. Ben detto, ed è molto probabile che succeda anche con La tragedia di Brady Sims.
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