Nelle cupe ossessioni di Dennis Cooper, Ziggy rappresenta una piccola crepa, per quanto instabile e sfuocata nel contesto di “un luogo da qualche parte, bizzarro in modo realistico”. I confini sono sempre quelli di un’indefinita terra di nessuno tra i sogni, gli incubi, le deviazioni oppiacee e la desolazione della realtà. En passant, anche se tra le righe è molto chiaro, viene riproposto il concetto burroughsiano per cui “gli essere umani sono un virus”, e il corpo è visto come un territorio da conquistare, da violare, da razziare, una fortezza da espugnare e da spolpare, una forma da ridisegnare dall’inizio. Pare che non ci sia nulla in grado di fermare questa primitiva bramosia, che il più delle volte si traduce in privazioni, limitazioni e assurdità di una ferocia indicibile. Dentro questa coltre di angoscia, le parole paiono l’unica possibilità di uscirne, magari non indenni, ma almeno con una vaga prospettiva di poter affrontare ancora il “mondo convenzionale”. In questo senso, Ziggy è un protagonista assoluto: è stato vittima di molestie ed è diventato a sua volta carnefice, come se fosse solo un piccolo ingranaggio di una macchina molto più grande che non si ferma mai. Qualcosa, dentro di lui, lo avverte e infatti si dedica a una fanzine, I Apologize, dedicata agli abusi sessuali, che prende il titolo da una canzone degli Hüsker Dü, “una simpatica dichiarazione, rauca, feroce, un po’ confusa, contro il modo in cui va il mondo”. In più, sente che, a sprazzi, a fatica e scontrandosi con i limiti della dipendenza, il legame dell’amicizia con Calhoun rappresenta una svolta e una possibilità imprevista. Ma intanto è coinvolto in un viavai di approcci sessuali, consumi, depravazioni, visioni distorte e dialoghi schizofrenici. Il racconto di Ziggy procede a ondate eterogenee e vede apparire in pose crudeli adolescenti che si chiamano di volta in volta Robin, Nicole, Osamu, Annie, Cricket, Josie e si confondono una nebbia senza appigli, tribale, cruda e acida. I particolari anatomici ed erotici non devono trarre in inganno, nemmeno quando sono portati alle estreme conseguenze: la disperazione che racconta Dennis Cooper è palpabile e si riflette in una scrittura scarna, a partire dall’idea che “la vita è sempre fuori garanzia” per arrivare a decifrare un sottobosco incastrato in un vicolo cieco e giunto al termine della notte. La sensazione è malsana e claustrofobica. Anche la relazione tra Ziggy e Calhoun che potrebbe rappresentare uno sprazzo edificante in tanta miseria resta indefinita e traballante. È ostacolata dalla ferite del primo e dall’abuso di stupefacenti del secondo, dato che “uno dei doni che l’eroina fa a chi la usa è come rende astratto e quasi sparpaglia tutto quello che non è completamente a fuoco, e rapidamente lo allontana. Allo stesso tempo, purtroppo o per fortuna, più le cose seducono più fanno paura”. Per questo, Calhoun “ritiene che l’amore umano sia un concetto antiquato” ed “è quasi imperscrutabile, anche per quei pochi eletti che scoprono, dietro un’iniziale freddezza, quanto sia gentile e dotato. Comunque, gente, vuole soltanto essere felice con l’eroina. E se i suoi amici si sentono trascurati, pazienza”. Quando Ziggy gli scrive una canzone dedicata al suo amico, Calhoun’s Song, con “l’idea di piazzarci dentro una marea di chitarre” (chissà, forse come gli Hüsker Dü o gli Slayer, che sono l’altro estremo della colonna sonora) lasciando filtrare un dubbio, nella coda finale, dicendo che “questa storia non è vera, è un messaggio per qualcuno che conoscono che non vuol ascoltare i suoi amici, la verità, e neppure se stesso”. E se Ziggy è brutale, scomodo, maleodorante e urticante, è perché Dennis Cooper tocca con mano il dolore e ci affonda dentro.
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