La prospettiva iniziale è allettante e l’eleganza della forma già evidente nelle prime pagine è un bel biglietto da visita: due ricercatori, che si sono conosciuti nello sviluppare un progetto sulle voci e sui rumori di New York, si sposano, con un figlio ciascuno dai precedenti matrimoni, per poi partire verso il West. Il viaggio ha due motivazioni dichiarate. Per lui (il marito, il padre) è una ricerca sugli apache. Per lei (la moglie, la madre e la voce della prima metà del romanzo) è un tentativo di realizzare un’indagine sui bambini abbandonati nel corso delle migrazioni verso gli Stati Uniti. Dall’alveo sicuro di New York alla vastità della frontiera, la famiglia è sollecitata dalle fatiche e dalle difficoltà della strada e dal fatto che l’inseguimento una voce diventa qualcosa di più di un esercizio antropologico, perché “le nostre madri ci insegnano a parlare, mentre il mondo ci insegna a star zitte”. L’Archivio dei bambini perduti aveva così tutti i presupposti per diventare una grande storia, ma Valeria Luiselli è stata fin troppo precisa, puntigliosa e didascalica fino allo sfinimento, con quel tono da prima della classe a ripetere più e più volte gli stessi concetti. Tutto, dai personaggi ai paesaggi, dalle interazioni alle suggestioni, è costruito fin troppo bene, ma pur sempre artefatto. È inevitabile accorgersene, perché l’Archivio dei bambini perduti sovrappone alla trama un fitto ordito richiami, rimandi, citazioni, a volte implicite, altrimenti esplicite, tra le quali spiccano, per la frequenza, gli echi di Space Oddity e i frammenti pescati da Il signore delle mosche. Un lavoro con tutte le buone intenzioni del caso, ma che si perde nello stesso labirinto che si è costruita Valeria Luiselli: l’Archivio dei bambini perduti non tiene conto del lettore, se non in modo passivo perché è tutto descritto ed elencato in modo ridondante. Seguendo un mood introspettivo, lo stile è elegante, erudito, raffinato ma anche monotono e senza particolari exploit, se non quegli artifici che lo rendono ancora più ambiguo. Proprio a metà del romanzo il narratore diventa il figlio (maschio, che sembra molto più maturo di quello che è) che si rivolge alla figlia (femmina). Nel corso del viaggio non succede molto, ma nella parte conclusiva c’è un (molto prevedibile) cambio di registro. La storia, a quel punto, risulta forzata e Valeria Luiselli diventa prolissa: fioccano i luoghi comuni, e le capita di inserire due, tre aggettivi quando uno sarebbe già abbastanza. Di conseguenza spiega, più che raccontare. Il tutto sempre in prima persona cercando con insistenza di dare una consistenza a quel continuo evidenziare le mutazioni degli umori, le piccole avventure, le discussioni e la generale fragilità emotiva di una famiglia in cerca di un’identità. Anche l’America sullo sfondo sembra una cartolina sfocata, come se la desolazione delle ghost town, dei motel e delle highway che non portano a nulla, fosse stata ricondotta in una cornice edulcorata e politically correct. L’Archivio dei bambini perduti si gonfia così di un prestigio che non ha, e che non era necessario vista la natura in sé della storia. Per soprammercato, Valeria Luiselli ci aggiunge anche un’appendice di fotografie del viaggio, come se le parole non fossero sufficienti. Un’occasione mancata.
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