Frutto dell’incontro con l’accademica I. B. Siegumfeldt, Una vita in parole ripercorre tutto il lavoro di Paul Auster e, come è successo spesso nella sua carriera, alterna e confonde l’autobiografia con il racconto, con la sua interlocutrice rincara la dose passando al setaccio entrambe le fasi. Il confronto è cordiale, serrato e continuo, ma tende anche a una certa meccanicità. Il dialogo tra Paul Auster e I. B. Siegumfeldt può diventare lezioso e infilarsi in vicoli ciechi dove l’interpretazione si sovrappone alla rilettura e l’esegesi del testo si infila in spirali di valutazioni e ricostruzioni, sapendo che in fondo “mettiamo delle parole sulla pagina per creare delle immagini nella mente del lettore”. La conversazione segue la cronologia delle pubblicazioni di Paul Auster che si rivela sempre molto attento quando deve spiegare il mestiere di scrivere, che nel suo caso “incomincia nel corpo, è la musica del corpo, e anche se le parole hanno significato, possono a volte avere significato, è nella musica delle parole che i significati hanno inizio”. È prodigo di spiegazioni che toccano i lati più intimi della narrativa (“Tutti abbiamo dentro un racconto continuo, ininterrotto, su chi siamo, e andiamo a raccontarcelo ogni giorno della nostra vita”), i limiti naturali (“Credo sia impossibile cogliere appieno una persona. Ci si prova, ma, come dicevamo prima, non si riesce mai a penetrare il mistero di un essere umano. In un certo senso, tutta la scrittura è un fallimento”), le necessità strutturali (“Scrivere in sostanza è riscrivere”), il peso di particolari fattori (“L’inconscio ha un ruolo molto ampio nella creazione di una storia”) e persino un suo senso ultimo quando Paul Auster si espone ad affermare che scrivere è “trovare la propria umanità e il proprio legame con altri esseri umani”. Nella discussione trovano posto anche il rapporto con il cinema, i ricordi d’infanzia e gli aneddoti famigliari, gli incontri e i personaggi veri o fittizi che siano (“Io credo che ogni essere umano sia uno spettro. Gran parte della nostra vita la viviamo al centro, ma ci sono momenti in cui fluttuiamo verso gli estremi, e passiamo da una sfumatura di colore all’altra in momenti diversi, a seconda dell’umore, dell’età e della situazione”). Ai margini dei commenti a Follie di Brooklyn, c’è un’immagine di New York prima dell’11 settembre, dove Paul Auster ricorda “com’eravamo fortunati con i nostri piccoli problemi, i nostri piccoli dolori, le piccole sofferenze, le cose che ci rendono umani”, che s’incastra alla perfezione all’idea per cui “tendiamo, solo per istinto di sopravvivenza, a omettere il peggio” e che, comunque, nonostante tutti gli sforzi possibili legati alla scrittura “gli esseri umani sono imponderabili, raramente si possono catturare a parole. Se ci si apre a tutti i diversi aspetti di una persona, di solito si resta storditi”. Guidato con insistenza da I. B. Siegumfeldt (che, per inciso, gli ha dedicato gran parte dei suoi studi), Paul Auster procede per tentativi sapendo che “stiamo parlando della materia dei sogni” ed è sincero quando dice di essere “affascinato dalla porosità fra ciò che è inventato e ciò che è reale; l’intersezione delle diverse sfere immaginarie” e, ancora di più, quando, infine, si lascia andare ammettendo che “siamo tutti sparpagliati, tutti frammentari”. Preso così, a sprazzi e a frammenti, Una vita in parole ha una sua utilità, per il resto pare dedicato proprio ai fans di stretta osservanza, che non mancheranno.
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