Per John Ashbery “le parole sono speculazioni (dal latino, speculum, specchio): cercano senza poterlo trovare il senso della musica”. È proprio seguendo questa intuizione che la sua poesia si dipana in Autoritratto entro uno specchio convesso macinando le frasi con la consapevolezza di affrontare i limiti e gli orizzonti, il passato e il futuro del linguaggio, sapendo che “siamo noi a creare questa giungla e a chiamarla spazio, dando nome a ogni radice, ogni serpente, per come suona il nome quando tinnisce ottuso contro il nostro piacere, indifferenza che è piacere”. La costruzione dei versi è un’assidua danza tra metodo e istinto, ricerca e sorpresa: un equilibrio bellissimo e precario che prelude a paesaggi indipendenti che John Ashbery riconosce a prima vista e condivide senza esitazioni nella convinzione che “ci sono anche altre nazioni inventate in cui ci possiamo nascondere per sempre, consunti dal desiderio eterno e dalla tristezza, sorbendo sorbetti, canticchiando canzoncine, nominando i nomi”. I continui riferimenti musicali, dall’Orchestra di liscio lituana alla Nona di Mahler si sommano alle ragioni d’essere di pittura e teatro, cinema e leggende, cronache e viaggi. L’Autoritratto entro uno specchio convesso porta verso una dimensione sublime, dove il miraggio delle parole avvolge di mistero e fascino le “cose troppo reali per porvi troppo pensiero e quindi artificiali, eppure ormai sparse a coprire la pagina”. Quasi un processo chimico e/o fisico che nemmeno l’erudita introduzione di Harold Bloom prova a spiegare e, anzi, lo rende ancora più intricato, arrendendosi al fatto che se “la creazione è fuori dalla nostra portata, la distanza perfino della nostra stessa arte pare divenire maggiore. In questa intensificazione di alienazione, la meditazione di Ashbery rigetta per gradi il paradiso dell’arte, ma con immense nostalgie che tingono l’addio”. Come si può vedere, gli abbagli dell’Autoritratto entro uno specchio convesso sono contagiosi: c’è una spontaneità nella poesia di John Ashbery che pare assecondare alcuni principi disseminati tra i versi. Intanto, “si deve tenere in mente una cosa. Non è necessario sapere cosa sia quella cosa. Ogni cosa è palpabile, nessuna è conosciuta”: questo vale per proiezioni con prospettive panoramiche (“Se ci si potesse impossessare dell’America o almeno di una gradevole smemoratezza”) o precisazioni dai contorni più definiti (“La coscienza è per te ciò che è conosciuto, l’inconoscibile giunge a essere conosciuto. Le cose familiari paiono distantissime”). La distinzione dello spazio dal tempo rende l’Autoritratto entro uno specchio convesso un’equazione straordinaria, dove John Ashbery sa che “l’attesa è insita nelle cose sul punto di conseguire pienezza” e aggiunge incognita dopo incognita “così negli ultimi anni, bighellonando qui e là, un po’ di relax, un sacco di progetti e idee”. La continua meraviglia si nasconde lì perché come scrive Harold Bloom “non esiste lettura degna di essere comunicata ad altri se non devia fino a frantumare la forma, se non deforma i versi fino a creare un rifugio, e così facendo non produca significato sbriciolando quei recipienti che hanno fatto il proprio tempo”. È proprio quello che fa John Ashbery, come se stesse giocando con il suo avatar, ricordando però che “le forme mantengono una misura forte di bellezza ideale poiché in segreto si nutrono della nostra idea di distorsione” e che “a volte una frase musicale esemplifica alla perfezione lo stato d’animo di un certo momento”. Succede spesso in Autoritratto entro uno specchio convesso essendo una suite dall’incedere libero e irregolare, destinata a diventare un classico.
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