Una poesia può porre interrogativi decisivi, tracciare un confine, riscoprire il senso della verità anche quando non c’è più. La poesia è Qualcuno ha fatto esplodere l’America ed è una sorta di invocazione che si snoda come un blues con un ritornello che chiede “Chi? Chi? Chi?”, senza retorica, ma anche senza nascondere nulla. Qualcuno ha fatto esplodere l’America e l’autodifesa di Amiri Baraka seguita alle accuse (del tutto infondate) di diffamazione e antisemitismo introducono un’idea di poesia come militanza che è il tratto dominante di uno spettro più ampio di sollecitazioni, dal teatro al jazz, dal cinema alla narrativa, da Miles Davis ai Public Enemy dove “l’arte rivoluzionaria esige come palcoscenico il mondo intero e l’uguaglianza dell’essere, pretende e instilla nella coscienza umana il profilo del mondo intero, collega gli A con i B e ne prova la materialità. La rivoluzione è l’eternità del mondo, il respiro incessante, il battito inesauribile, negarlo è mentire e la verità è la realtà ultima”. La natura composita di Poetate., che raccoglie scritti, lezioni e interviste nell’arco di quarant’anni, non toglie nulla all’essenza della forma, definita dalla coerenza di Amiri Baraka che vede l’arte come “un’espressione politica” e la poesia come strumento di confronto perché “il linguaggio sarà di chiunque, ma compattato dalla spina dorsale del poeta. E dovrà dimostrare i fatti di questa epica della consapevolezza, quel che succede. Parleremo del mondo, e la nostra arte sarà l’esattezza con cui saremo in grado di adunare il mondo. Arte è metodo”. Allora leggendo e rileggendo Qualcuno ha fatto esplodere l’America, i fantasmi dell’11 settembre 2001 lasciano posto a un’analisi puntuale che porta Amiri Baraka a rivolgersi direttamente ai lettori, segnalando il vero pericolo dietro l’angolo: “scordatevi la guerra del mese scorso e preparatevi a quella di questo mese”. Le sue posizioni non sono radicali, sono precise: “Ogni nazione ha due culture, la cultura degli oppressi e la cultura degli oppressori” e, diretta conseguenza, “la rabbia contro l’imperialismo e il razzismo non mi ha mai abbandonato”. Detto questo “la potenza nucleare della poesia” è al sicuro da ogni equivoco: quale che sia l’occasione, Amiri Baraka è esplicito nel ricordare che parte “dal principio che la maggioranza delle persone debba essere ricettiva alle idee più nobili della società, di qualsiasi società” ed è una necessità impellente “perché sentiamo che questo stato e in realtà questa nazione e questo mondo hanno un bisogno disperato dei valori umani più profondi che la poesia può insegnare”. L’afflato è convinto, costante, ribadito ogni volta: “Sto dicendo che abbiamo una responsabilità, una responsabilità sociale, ma di questo non si parla mai. Abbiamo questa responsabilità in quanto parte della società non come persone al di sopra della società o lontane dalla società o più famose, ma come persone inserite nel sociale, il cui compito è quello di articolare, esprimere al meglio la vita e cercare di trasformarla. E quale che sia il nome dei burocrati, delle forze burocratiche che tentano di fermare questo processo, abbiamo l’obbligo di combattere”. La sua battaglia non si regge però sulle posizioni ideologiche, ma sulla convinzione che “la forma così come il contenuto, sostanza, scienza e visione, l’arte dev’essere la nostra arma magica per creare e ricreare il mondo e noi stessi come parte di esso”. Nella sua essenza Poetate. celebra “il potere trasformativo dell’arte” ed è una specie di testamento e nello stesso tempo un vademecum, un manuale di istruzioni per comprendere il senso vitale dell’azione insita nella poesia. Amiri Baraka è prodigo di consigli: “Devi sentire il ritmo ancora prima di sapere esattamente di che cosa stai parlando” dato che “le idee sono nel sound”, e lo dice uno che andava a sentire John Coltrane e Thelonious Monk al Five Spot per capire il senso dello swing, dell’improvvisazione, dell’interplay. La rivoluzione è un’altra cosa (“Continuano a definire rivoluzionaria qualsiasi cosa, dalla lacca per capelli alle alle patatine, è un modo per aggirare la questione, svuotano il termine rivoluzione di ogni connotazione”) e Amiri Baraka lo sa fin troppo bene, ma aprirsi alle novità, sviluppare quelli che Diane di Prima chiama “ogni sogno umano”, è una scelta netta, inequivocabile: “L’immaginazione (immagine) è ogni possibilità perché dall’immagine, l’iniziale energia circoscritta, è possibile qualsiasi uso (idea). E così inizia l’uso di quell’immagine nel mondo. La possibilità è ciò che ci muove”. È l’atto della poesia in sé che è rivoluzionario e Amiri Baraka è entusiasta nel proclamare che “dobbiamo creare un’arte che funzioni come invocazione della furia dello spirito mondiale. Siamo stregoni e assassini, ma apriremo un posto affinché i veri scienziati allarghino la nostra coscienza”. Ma, ancora una volta, la percezione parte dall’inizio, dove la poesia fa rima con libertà, così come lo ribadisce Amiri Baraka: “Io mi concedo sempre di essere più libero che posso nel contesto di quel che ritengo di voler dire. Sento che qualunque sia la cosa che hai dentro di te probabilmente ti conosce meglio di quanto ti conosca tu stesso”. Da lì, a ricerca è infinita, piena di incognite, ma con almeno una certezza che “C’è un sorriso in fondo al mondo. E mi ha sempre intrigato”. È ancora lì, intatto.
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