C’è una traccia nascosta che si insinua tra le pieghe di Canta, spirito, canta ed è Parchman Farm Blues di Bukka White. La canzone, con uno stile crudo ed essenziale, racconta in prima persona la vita e la morte all’interno del famigerato penitenziario statale del Mississippi. La voce e le parole di Bukka White (che ne è stato ospite, insieme a un altro grande bluesman, Son House) sono inequivocabili e, d’altra parte, molte ricostruzioni storiche, a partire dal libro di David M. Oshinsky, Worse Than Slavery, concordano nel ricordare come la struttura di Parchman Farm abbia, di fatto, continuato ad applicare il regime della schiavitù anche dopo fine della guerra di secessione. Il luogo è uno dei tanti buchi neri dell’America e, stipati in una macchina che funziona a singhiozzo, i giovanissimi protagonisti di Canta, spirito, canta stanno andando proprio lì. Hanno nomi scorticati (Leonie, YoYo, Misty, Kayla) e, pur essendo ancora bambini (o poco più che adolescenti), si devono confrontare con la responsabilità di essere madre o padre e con il peso della mancanza di una famiglia alle spalle, a partire da Michael che sta uscendo da Parchman Farm, uno dei 475.900 afroamericani che, ancora alla fine del 2017, costituiva la maggioranza della popolazione carceraria. Potranno contare soltanto sugli anziani Mama e Pop, ma Mama è ormai al crepuscolo di una lunga vita di dolori e affanni, e Pop ha vissuto sulla propria pelle la schiavitù, la segregazione e i linciaggi nel Mississippi, ed è convinto che “un uomo ha dentro delle cose che lo muovono. Come le correnti d’acqua. Cose che non puoi farci niente”. Ciò che si agita attorno alla sua storia sono quei fantasmi che imperversano lungo le pagine, sottolineando una sofferenza costante, opprimente, una strada senza via d’uscita tale da portare alla considerazione che “il mondo non è un posto giusto”. Le presenze di Richie e Given, gli spiriti che sta aspettando Mama, il gris-gris preparato da Pop per il viaggio verso Parchman Farm sono parte di un vocabolaio voodoo, ma, a differenza del pastiche postmoderno di Ishmael Reed, Mumbo Jumbo, con Jesmyn Ward formano e rappresentano un territorio linguistico, e non solo. In Canta, spirito, canta le voci sono rimaste imprigionate nei blues perché, come scriveva John Berger, “le canzoni parlano di postumi e ritorni, di benvenuti e di addii. O, per dirla altrimenti, le canzoni sono cantate a un’assenza. L’assenza è ciò che le ha ispirate ed è ciò di cui parliamo”. Secondo capitolo della trilogia di Bois Sauvage (dopo Salvare le ossa), Canta, spirito, canta è costruito da Jesmyn Ward seguendo le diverse prospettive dei suoi personaggi, adeguandosi alla singolarità di ogni pronuncia e intrecciando il viaggio lungo le cicatrici sudiste con le scomode apparizioni dei fantasmi. Ogni pagina è una sferzata, aspra, sanguinante perché, per quanto tesa a nasconderli e a minimizzarli, l’America di oggi è chiamata ciclicamente a fare i conti con gli spettri di ieri e, sì, la realtà è anche peggio della schiavitù. Se in Salvare le ossa era stato l’uragano Katrina (2005) a sollevare il sipario su vite relegate nella povertà e nell’abbandono, in Canta, spirito, canta è l’esplosione della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon (2010) lo sfondo che incombe minaccioso all’orizzonte. L’associazione tra le devastazioni ambientali e le impervie condizioni esistenziali è spontanea, realistica e tutt’altro che banale. La fragile complessità del bayou, l’ambiente paludoso tipico del sud degli Stati Uniti e riferimento geografico di Bois Sauvage, è la cornice spiritata (“Questo è un posto per i morti”), dove frammenti di famiglie cercano di tenere insieme i pezzi aggrappandosi alla fede, o agli spiriti del blues, che spesso sono “canzoni senza parole”, che “arrivano dalla stessa aria che porta con sé il suono delle acque”. La sopravvivenza è legata alla condivisione del proprio destino attraverso le parole di un’invocazione, di una preghiera, di un sogno perché, come dice uno dei protagonisti di Canta, spirito, canta “così andiamo avanti, e l’aria che entra dai finestrini aperti fa tremare i vetri, viva come un letto di molluschi che vanno su e giù nel flusso della marea: un luccichio di schiuma e sabbia. Sotto le ruote la ghiaia crepita e schizza tutt’intorno. Noi ci teniamo per mano e fingiamo di dimenticare”. L’ultima speranza è tutta lì, raccontata da un romanzo intenso, ipnotico e toccante.
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