Selezionate dallo stesso Gregory Corso le liriche raccolte in questa voluminosa antologia rappresentano, come meglio non si potrebbe, l’essenza della sua poesia che, senza alcun dubbio di sorta, coincide anche con la sua stralunata esistenza. Un risvolto autobiografico arriva nelle battute finali di Mindfield, quando il Poeta che parla a se stesso nello specchio si trova a fare un punto della situazione che recita così: “Salve, sono io. È diventata patentemente assurda questa caccia a me stesso, credendo che quando sarei stato stanato, avrei trovato non solo me ma tutto uno suolo, me passati, me futuri, l’intero armamentario, e tutti gli anni, dov’è che sono arrivato, in questo punto del tempo, questo non è lo stesso stesso specchio in cui mi sono contemplato anni fa. È lo specchio che cambia, non il povero Gregory”. Il percorso per arrivare lì in fondo è fatto di montagne russe che s’impennano e poi precipitano repentinamente, senza precauzioni, dato che l’unico segnale all’ingresso di Mindfield dice che è “inutile imbrattare il mondo con: pericolo, divieto d’accesso, teschio, è pericoloso sporgersi. La mia proprietà è il dolore! Qui non c’è ringhiera, non c’è avviso”. Il suo cut-up “naturale”, fatto di “trasformazione ed evasione” ha spinto Allen Gisnberg a sostenere che “Gregory Corso pensava, diciamo, per dissonanze”. La definizione è estrapolata da un’analisi molto più considerevole di un’estetica che “consisteva nella contraddizione, nel disaccordo delle idee e anche della musicalità, del suono del verso”. Secondo Ginsberg, Corso “era interessato a prendere gli effettivi elementi dei suoi pensieri, come il chiaro di luna, le prugne, le autopompe, il Natale, il padre, la madre, i piselli e poi capovolgerli perché si contraddicessero. E attraverso questi disaccordi, o autocontraddizioni, creare una divertente sorta di armonia o bellezza”. Concetti ribaditi anche nell’accorata prefazione di Mindfield che si conclude così: “Corso è un poeta dei poeti, il suo verso puro velluto, prossimo a John Keats per il nostro tempo, squisitamente addentro ai modi della musa. È stato e sarà sempre un poeta caro a molti, risvegliatore di giovani, indovinello e piacere per i più anziani e sofisticati bibliofili, immortale per quanto si può essere immortali, capitan poesia che incarna la rivoluzione dello spirito, la sua poesia come l’opposto dell’ipocrisia”. Non finisce qui perché gli appunti per un’altra presentazione, quella di William Burroughs, confermano che “Gregory Corso è un poeta. Ha la rara missione di un puro talento lirico. E non ha mai dubitato di questa missione”. Superati i tributi, gli omaggi, i riconoscimenti tutti giusti e dovuti e finalmente arrivati al poeta si capisce fin dalla dedica che il diluvio di Mindfield è destinato ai “conservatori di tutte le cose belle”, anche perché qui c’è il vero Gregory Corso, la sua voce, il suo ritmo, la sua musica, non l’immagine irruente, deviante, caotica che si portava dietro ai quattro angoli del mondo. Ed è una voce forte, senza esitazione, capace di omaggiare Charlie Parker (“Bird era più andato del suono, ruppe la barriera con un trillo del sassofono, Bird era più su della luna”) e Miles Davis e di fiutare nell’aria l’imminente apocalisse, ma anche di sentirsi parte di quei poeti battuti e beati, portatori sani di un’idea di America in lui e i suoi amici si ritrovarono “sradicati”, essendo diventati a loro volta delle “radici”, o meglio ancora, dei Semi in viaggio. Il confronto è continuo, serrato degno dell’esuberanza linguistica di Gregory Corso, un poeta che, evidentemente, conteneva moltitudini, come lui stesso ha ammesso ricordando anche “quelli, quelli senza nome, quelli che mi hanno messo al tappeto, ma io mi sono rialzato, io mi rialzo sempre, e giuro che quando andavo al tappeto, piuttosto spesso me ne sono stato; nulla muove una montagna, tranne se stessa. Quelli, è da molto che li chiamo me”. Se non bastassero le poesie (comprese porzioni di Benzina) e nell’insieme la dimostrazione di Elegiaci sentimenti americani nel “campo mentale” fioriscono anche i disegni, gli schizzi e una cronologia curata dallo stesso Gregory Corso, una serie di dettagli che lo rendono, così, una mappa ancora più fedele alla sua arte e alla sua vita. Nel bel mezzo c’è anche la Bomba, naturalmente, e un ultimo, puntuale ricordo di William Burroughs: “Il rozzo contestatore inglese che buttò una scarpa contro Gregory mentre leggeva Bomba non capirà mai la poesia e i poeti, poiché la realtà poetica non ha niente a che fare con la realtà politica o sociale. Gregory dispone di un altro raro dono. Ha una voce. Quando si pensa a Gregory, si sente la sua voce. Questo non è sempre un fatto positivo ma a Gregory giova, perché la sua è una buona voce. La voce di Gregory echeggia attraverso un precario futuro. La si sentirà finché ci sarà qualcuno in ascolto”. Il messaggio è sempre “on air”: esteso, multiforme, scoppiettante, e necessario.
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