L’abilità di Elliott Chaze è più quella di nascondere che di mostrare, lasciando in sospeso, molti elementi, disseminandone altri, lasciando al lettore l’opportunità di scegliere come districarsi tra un diversivo e l’altro. Come se le storie fossero mimetizzate dentro una scrittura che, d’altra parte, non ha una lacuna. Elliott Chaze è metodico, sistematico, accorto nello svolgere l’esistenza dei suoi personaggi. Se La fine di Wettermark appare ineluttabile fin dall’inizio (e comunque il colpo di scena finale è un capolavoro) è perché la costruzione del suo sprofondare in un abisso senza ritorno parte da molto lontano ed Elliott Chaze la compone come se stesse ricreando un identikit al microscopio. Il quadro psicologico di Wettermark è complesso, ma nello stesso tempo univoco e votato alla disintegrazione. Un fattore determinante è l’ambiente provinciale di una piccola città del sud degli Stati Uniti dove tutti “cercano di trovare un barlume di conforto prima di marcire in preda alla disperazione e alla bruttezza”. Sembra fatto apposta per farlo detonare, mentre invece si sta spegnendo lentamente e progressivamente, circondato da un’architettura che si riflette persino nelle sue ambizioni: “Il suo sogno personale era una casa di mattoni a due piani con colonne bianche, pilastri sottili, nessuno attorno, e tutto nuovo e tirato a lucido, nemmeno una trave o una tavola marcia, e niente termiti che spuntano fuori da dietro l’essicatoio rivestito di lamiera, e volano per andare a morire nella vaschetta del sapone”. Con gli occhi aperti, i dettagli della realtà sono ben più miseri. Il suo vero lavoro è quello dello scrittore fallito: fa il giornalista nel quotidiano locale soltanto per sbarcare il lunario e ogni giornata “è una giornata senza fine né inizio, senza passato né futuro”. Deluso, malato, sconfitto, Wettermark è l’apoteosi del loser, incapace persino di perseguire un disastro che avviene (come è prevedibile) in modo rocambolesco, e in perfetta solitudine perché quello è il carico più pesante: “Starsene da soli è una faccenda delicata, l’intimità va calibrata in modo così fragile che, anche se uno l’ha desiderata, quando ne hai appena appena un poco di più di quello che ti serve, non è affatto intimità. Non è più un lusso. Diventa solitudine, e la solitudine non è in alcun modo simile all’intimità, sebbene l’una e l’altra siano fatte della stessa sostanza”. Per far fronte a un lungo elenco di debiti, all’ombra incombente della moglie Margaret, Wettermark elabora l’idea di una rapina. È l’ultima spiaggia e, anche in questo caso, Elliott Chaze si concede con grande nonchalance all’arte della dissimulazione: frutto di una serie di precauzioni maniacali originate più dalla sua paranoia e dalle sue ossessioni che da una qualche concreta funzionalità, il colpo di Wettermark è soltanto lo zenith di una parabola disperata. Tutta la scena della rapina è un crescendo mozzafiato, con Elliott Chaze che affida a ogni singolo dettaglio (e sono tanti) un valore simbolico, un messaggio recondito, forse persino qualcosa che affiora dal subconscio del protagonista, e chissà, anche dell’autore. È giusto e legittimo non altro aggiungere perché La fine di Wettermark va scoperta in diretta, incollandosi a un personaggio che riassume in sé tutta l’efficacia di un piccolo, grande dramma in bianco e nero.
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