Blade
Runner “è un film troppo grande per stare in una sola frase”,
e questo si era capito, visto che è stato un titolo ambivalente:
sgusciato dalle mani dell’autore originale, Alan Nourse, passato
attraverso le forche caudine di William Burroughs, ha finito per
incorniciare il film di Ridley Scott ispirato, come è noto, da
Philip Dick. La minuziosa ricostruzione dei passaggi, a cura di
Riccardo Gramantieri, chiarisce ed esaurisce le coincidenze e le
assonanze tra The Bladerunner di Alan Nourse, Ma gli
androidi sognano le pecore elettriche? di Philip Dick, la sua
riduzione cinematografica e l’inedita rilettura di Blade Runner
di Burroughs che inghiotte la storia e la rigurgita a modo suo,
tagliata e cucita, sparpagliata per le pagine, immersa
nell’espressione caustica del suo linguaggio. Il film immaginato da
William Burroughs non è una pellicola standard, non ha proprio nulla
di convenzionale, piuttosto è inteso come un organismo a se stante,
o almeno così si snoda nella breve sceneggiatura. L’ambientazione,
salvo NYC invece di San Francisco, è sempre un’esplosione
metropolitana, l’incubo di una città che “sembra aver subito un
attacco nucleare. Intere aree in rovina, campi di rifugiati,
tendopoli. A milioni hanno lasciato la città e non ritorneranno. New
York è una città fantasma. Altre città sono in condizioni simili”.
Una distopia in cui sono crollati uno sopra l’altro tutti i livelli
di convivenza, dove gli animali sono tornati protagonisti e dove
l’involuzione ha spinto una larga parte della specie umana ha
portato alla clandestinità. Burroughs descrive così lo scenario in
Vista di Manhattan dall’elicottero: “La sovrapposizione ha
portato ad un aumento mai visto del controllo sul privato cittadino.
Niente a che vedere con lo stato di polizia vecchio stile che usava
oppressione e terrore, ma controllo in termini di lavoro, credito,
abitazioni, benefici per la pensione e assistenza medica: tutti
servizi che possono essere soppressi. Questi servizi sono
informatizzati. Niente numero, niente servizio. Comunque, tutto ciò
non ha prodotto quelle unità umane uniformate dal lavaggio del
cervello previste da ingenui profeti come George Orwell. Al
contrario, una larga percentuale della popolazione si è spinta
nell’underground. Quanto larga, non lo sappiamo. Questa gente è
senza numero”. Le visioni, a tratti profetiche, di William
Burroughs, ritornano con maniacale dedizione a alla malattia e alla
cura ricordando, prima di tutto, che “ogni terapia, ogni droga,
ogni vizio qui ha il suo prezzo”. La trama del suo Blade Runner
si condensa e si concentra proprio attorno all’idea che “tutto
quello che ti serve è l’accesso ai farmaci” e, per naturale,
estensione alle informazioni. Complotti o paranoie a parte, le
sollecitazioni sono pesanti perché Burroughs individua alcuni gangli
notevoli nel rapporto tra potere corrotto e costituito e
farmaceutica, e li evidenzia con geniale irriverenza. Giusto per
mettere in ordine e per riconoscere il dovuto a Philip Dick (così
come ad Alan Nourse) va detto, per esempio, che già nel 1972, nel
saggio L’androide e l’umano, ipotizzava uno sviluppo di
sostanze stupefacenti (legali e/o meno) per limitare le escursioni
emotive: “L’intera gamma di sentimenti quali il dolore, la
rabbia, la paura e ogni sorta di sensazione intensa verranno
ricondotte al di sotto di una certa soglia dalla presenza di
carbonato di litio nel tessuto cerebrale. Il comportamento del
soggetto diventerà stabile, prevedibile e non sarà più una
minaccia per gli altri. Praticamente, questi avrà sentimenti e
pensieri costanti per tutto il tempo, da mattina a sera, giorno dopo
giorno. Di certo, le autorità non avranno più brutte sorprese da
parte sua”. Si vedono, in filigrana, i temi di Blade Runner
(in ogni versione) e, a sua volta, William Burroughs non fa che
distillare e ampliare l’ossessione del controllo (delle
comunicazioni e delle somministrazioni), non del tutto fuori luogo
(anzi).
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