L'insonnia
genera mostri. Un quadro va in frantumi e un altro non si compone:
“vivere vuol dire portare una cicatrice” ed Ethan Allen Hawley
convive con il fantasma del fallimento dei suoi avi. Una baleniera
bruciata nel porto della città proprio mentre il petrolio andava
soppiantando, come combustibile, l'olio animale. Era un secolo prima,
all'alba del 1960 l'idea di “progresso” passa per le
infrastrutture (nel caso specifico, un aeroporto) e per la pubblicità
(compresa la televisione). “Possiamo
sparare razzi nello spazio, ma non possiamo guarire l'ira e lo
scontento”, ma d'altra parte restare
fermi o invisibili significa naufragare ancora una volta ed Ethan
Allen Hawley soffre la sua condizione di nobile decaduto (non c'è
nobiltà, senza soldi) lavorando nel drugstore di Alfio Marullo,
immigrato, arricchito, più sopportato che gradito. I collegamenti di
un'intera cittadina, New Baytown, passano da lì e attraverso quelle
connessioni filtrano sotterfugi, ricatti, omissioni che seguono
l'obliquità di un piano inclinato, pesando di volta in volta su un
piatto o sull'altro di una sghemba bilancia. Se “la
legge della foresta è sempre in vigore”, non di meno Ethan Allen
Hawley si convince che “quelli che più hanno paura dei propri
sogni si convincono di non sognare affatto. A me è abbastanza facile
spiegare il mio sogno, ma non per questo è meno spaventoso”, e la
sua è già una confessione eclatante. John
Steinbeck incastona i personaggi, ogni singola odissea personale, in
un mosaico raffinatissimo e perverso e, uno dopo l'altro, ribalta le
connotazioni, le possibili valutazioni etiche, sue e del lettore,
lasciando aperto il sipario su un dramma infinito. L'inverno
del nostro scontento resta
spiazzante anche a distanza di mezzo secolo perché svelando per
gradi, un pezzo dopo l'altro, i piani di Ethan Allen Hawley svela un
oceano increspato dalle tempeste, dalla natura fallace del trionfo,
dall'ineluttabilità del fallimento perché “negli affari e nella
politica, un uomo deve aprirsi, scavarsi la strada attraverso gli
uomini, per arrivare a essere re della montagna. Una volta là, può
essere grande e buono, ma prima ci deve arrivare”. Chiarissimo.
Diventa invece impossibile distinguere tra giusto e sbagliato, che
rimangono separati da una linea molto sottile e impercettibile, così
come è difficile separare le cause dell'ambizione dai suoi effetti:
“Forza e successo stanno sempre al disopra della moralità, al
disopra della critica. Par dunque che non conti csa fai, ma come lo
fai e come lo chiami. C'è un controllo negli uomini, nel fondo, una
cosa che li fermi o li castighi? Pare che non ci sia. L'unico castigo
è per chi fallisce. In effetti nessun delitto è davvero commesso
finché non si prende il delinquente”. L'inverno
del nostro scontento
svela così la sua dimensione shakespeariana, che diventa palpabile
nelle battute finali dove
John Steinbeck chiarisce che “non è vero che esista una comunità
di luci, un falò del mondo. Ognuno porta la sua, la sua luce
solitaria”. Rimane una significativa riflessione sulla pubblicità
che apre e conclude, tra le righe, L'inverno
del nostro scontento:
tra le numerose diatribe famigliari dell'ultima generazione degli
Hawley c'è una discussione intorno alla necessità di comprare certi
fiocchi d'aveva per il gadget allegato e un
commento
del protagonista rimane impresso a caldo: “Io volevo solo
distinguere i fiocchi d'aveva dalla maschera di Topolino. Confondono
tutto”. L'anno dopo sarebbe arrivato il premio Nobel, quanto mai
appropriato.
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