L'essenza
dell'epica di Walt Whitman, il trasporto e l'emozione di Carl
Sandburg, l'eloquenza di Theodore Dreiser, le visioni delle città e
dell'industria dilagante, di un'America che ha deviato, e parecchio,
dalle sue intenzioni originali e fondanti, o forse sarebbe giusto
dire dalle sue speranze o meglio ancora dai sogni dei suoi minuscoli
uomini: i Canti del Mid-America contengono moltitudini e sono
trasportati da un entusiasmo per le parole, per la forza delle
parole, trascendentale. C'è un senso storico straordinario, un'idea
elevata del linguaggio: i versi sono frustate, sinuosi sulle pagine,
come vie dei canti si stendono con la forma di un poema, con il
trasporto di un manuale per i songwriter, un breviario in sé perché
le canzoni, le poesie hanno la forma di rituali visto che lo stesso
Sherwood Anderson introduce i Canti del Mid-America spiegando
come “il canto appartenga a e nasca dalla memoria di cose più
antiche di quelle che conosciamo. Nei sentieri battuti della vita,
quando molte generazioni di uomini hanno percorso le strade di una
città o passeggiato senza meta di notte per le colline di un'antica
terra, sorge il cantore”. Sorprende, a distanza di un secolo (i
Canti del Mid-America risalgono al 1918), l'aderenza alla
realtà, la strenua lotta verso una percezione non banale delle
mutazioni della realtà: Sherwood Anderson è già consapevole che la
“gente si era raggruppata nelle città. Ormai usavano le parole in
modo frenetico. Le parole li avevano soffocati. Non potevano
respirare” e che “non cantiamo ma mormoriamo nell'oscurità”.
L'amarezza non è nascosta, non è mai edulcorata perché i Canti
del Mid-America non hanno niente di consolatorio e Sherwood
Anderson è esplicito e profetico quando dice che “stiamo cercando
di aprirci un varco. Sono un canto io stesso, l'estremità di un
canto spezzato io stesso”. Non bisogna andare molto lontano per
lasciarsi penetrare dalla comprensione: i Canti del Mid-America
sono cristallini, a scanso di equivoci e di interpretazioni nel dire
che “la storia è vecchia, è stata raccontata da molti uomini in
molte terre. Le terre appartengono a coloro che le raccontano. Adesso
di certo questo è chiaro”. Quella terra è l'America, la promised
land tradita, la canzone stonata, la rivoluzione soffocata sul
nascere, nelle sue contraddizioni, nella sua violenza. Tra i tanti,
un verso di Sherwood Anderson sembra quasi un epitaffio: “Stavo
venendo con l'America, sognando con l'America, sperando con
l'America, poi arrivò la guerra”. Rimane l'orgoglio del poeta,
coraggioso e indomito fino alla fine nell'alzare la voce nei
bassifondi, nell'intonare i Canti del Mid-America con la
regalità di un inno, l'autorità di una sentenza e lo spirito di un
blues: “Staremo
giù nelle profondità fangose della nostra corrente, ci staremo. Lì
nessun poeta può venire fuori e sedere sulla traballante rotaia dei
nostri orridi ponti e farci arrivare in paradiso cantando. Stiamo
scoprendo, questo è quello che voglio dire. Arriveremo alla nostra
cosa qui fuori o moriremo per essa. Stiamo andando giù, innumerevoli
migliaia di noi, nell'orrendo oblio. Lo sappiamo. Ma, dico, bardi,
state lontano dai nostri ponti. Non impicciatevi dei nostri sogni,
sognatori. Vogliamo dare una scossa a questa cosa, la democrazia di
cui tanto si riempiono la bocca. Vogliamo vedere se siamo buoni a
qualcosa là fuori, noi americani reduci da ogni luogo dell'inferno.
Questo è ciò che vogliamo”. Una dichiarazione d'indipendenza,
quella più importante.
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