Fin dagli albori delle prime formazioni
organizzate sul campo di battaglia, la disciplina militare si distingue per
quello che è, “paranoia istituzionalizzata”, e la definizione, nella sua
crudità, è l’anima dura e spietata di Io sono un’arma. Scritte con lo
pseudonimo di David Tell, le “memorie di un marine” sono una lunga apnea di
seicento pagine in un universo parallelo dove un castello di regole kafkiane,
un’incessante sequela di attività fisiche, privazioni, umiliazioni, insulti e
ordini urlati a squarciagola sono destinati a forgiare la “punta della lancia”
dei guerrieri americani. Dall’addestramento al dispiegamento in un qualche
teatro di guerra, David Tell annota con una precisione maniacale tutte le
marce, i poligoni, gli infortuni, le risse, le fatiche, le ferite, le attese.
Il processo per diventare un marine, come in ogni esercito, più di ogni altro
corpo, presuppone una fedeltà assoluta. L’obbedienza viene data per scontata e
l’addestramento è una profonda ristrutturazione psicologica: il corpo dei
marines decide, provvede e non concede (nulla). E’ tutto un modulo, una regola,
una marcia, uno schema. La logica (paradossale) è concentrata nel motto non
scritto dei marines, “sbrigati e aspetta” e, se ne accorge anche David Tell,
“quando non c’è un sistema concreto per misurarlo il tempo diventa un flusso
indistinto”. Tutto è distinto da un conto alla rovescia: si tratti di montare e
smontare un fucile, rifare il letto (un’ossessione) o consumare un pasto, c’è
sempre qualcuno a contare da dieci a zero ed è comprensibile l’ammissione di
David Tell quando dice che “in certe occasioni era stato difficile capire quale
fosse il mondo reale”. Più che Full Metal Jacket, la condizione è sempre
quella di Comma 22
e da lì si può dire quello che si vuole, ma non si scappa: condizionata dal
gusto insistente della burocrazia militare per gli acronimi, la truppa ne ha
coniato uno che riassume il famoso paradosso di Joseph Heller in SNAFU, che sta
per “situation normal, all fucked up” (situazione normale, tutto fottuto). A
questa sigla si accompagna un’altra frase ricorrente in Io sono un’arma con cui David Tell
sottolinea uomini, comportamenti, materiali che oltre ad essere SNAFU, non sono per niente adatti,
“neanche per i nostri standard” e gli standard sono molto, molto bassi. Essendo
convinti i marines di essere una forza d’élite e, ancora di più, di essere nati
prima degli Stati Uniti (in effetti, il dato storico è quello), il loro è un
microcosmo impenetrabile e David Tell lo spiega con una certa efficacia quando
dice che “gli unici argomenti di discussione in caserma erano la guerra e la
morte”. Meccanico, macchinoso e ripetitivo, come se fosse a sua volta un
manuale, e come con tutta probabilità non si poteva scrivere altrimenti, Io
sono un’arma
rispecchia in modo realistico, quasi documentaristico, la vita dei soldati, e
di quei particolarissimi soldati che sono i marines ed è minuzioso e accurato
in tutti i dettagli, compresa l’amarezza con cui David Tell prende infine
commiato dicendo: “Può darsi che l’America ami i suoi eroi, ma ama ancora di
più crocifiggerli”. Non è facile da mandare giù.
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