In questi diari di “paure e deliri” che risalgono al 1979, nella prima parte, una specie di introduzione al folle mondo di Raoul Duke alias Hunter S. Thompson, è dedicata alla caccia allo squalo anche se lui in realtà va alla ricerca di molto altro (comunque, abbastanza pericoloso pure quello) e tra una fuga e una sbronza si riflette in “una scena di decadenza totale nella quale mi sentivo perfettamente a mio agio”. Inviato da Rolling Stone, all’epoca una rivista che aveva ancora un senso, Hunter S. Thompson affronta poi un bel reportage bel reportage su Cassius Clay alias Muhammad Ali dove sfodera tutto il suo talento nel costruire immagini e personalità girovagando per galassie e galassie di parole e mischiando argomenti sportivi e politici. Puntellando spesso le sue acidissime disgressioni con piccole, brevi e fulminanti citazioni tratte dai migliori rock’n’roll songwriting dell’epoca (Allman Brothers, Marshall Tucker Band, Doug Sahm e John Prine) Raoul Duke attraversa (più o meno) indenne i lati oscuri e selvaggi del Super Bowl per inoltrarsi nella vera “grande caccia allo squalo” ovvero il Watergate. La metafora è suggerita dallo stesso Hunter S. Thompson quando ancora si barcamena nelle acque caraibiche cercando di reggere la sua dieta quotidiana di alcol, acidi e follie: “E quel che penso della politica statunitense più o meno rispecchia quel che penso della pesca d’altura, dell’acquisto di terra a Cozumel o di qualsiasi altra cosa in cui i perdenti si dimenano in acqua agganciati a un amo”. Tornato a casa, in modi a dir poco rocamboleschi, Raoul Duke viene mandato dai suoi redattori a seguire gli scontri istituzionali che dal Watergate in poi portarono alle dimissioni di Richard M. Nixon alias Dicky Tricky. La prima impressione è (sempre) quella che conta: “Era uno spettacolo inquietante: l’impero nixoniano, apparentemente invincibile meno di due anni fa, stava crollando davanti ai nostri occhi sotto il proprio orrendo peso. Impossibile negare le enormi implicazioni storiche di quella vicenda, ma seguirla quotidianamente era una esperienza noiosa e degradante che era difficile restare concentrati su quel che stava realmente accadendo. Sostanzialmente era una storia adatta agli avvocati, non ai giornalisti”. Dato che Hunter S. Thompson non è mai stato un reporter molto rispettoso delle regole, piuttosto uno scrittore visionario e lucidissimo nello stesso tempo e in qualche modo persino profetico sviluppa nei confronti del Watergate (e del suo principale protagonista) un’ossessione che lo spinge ad affrontare i protagonisti in modo brutale. La sua indignazione funziona a fasi alterne (inevitabile visto il suo tran tran quotidiano), ma non ha radici nelle passioni politiche o nella coscienza civile, nonostante l’orrenda natura delle congiure, dei mercanteggiamenti, delle falsità che hanno distinto l’occupazione delle istituzioni democratiche da parte dell’amministrazione Nixon. Quello che infastidisce Hunter S. Thompson nei suoi nemici pubblici è come “l’ingenua scelleratezza del loro linguaggio appare tanto inquietante quanto gli scellerati complotti che sono seguiti”. Nonostante i “deliri” e le “paure”, preciso, puntuale e, purtroppo, ancora attuale, e non solo per gli Stati Uniti d’America.
martedì 21 settembre 2010
Hunter S. Thompson
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