mercoledì 14 luglio 2021

Jennifer Pashley

Siamo a Spring Falls, nello stato di New York, dove tutti sanno tutto di tutti ed è impossibile fuggire agli sguardi. Il clima è impervio, l’inverno dura per tre quarti dell’anno, i boschi si estendono inestricabili, la speculazione edilizia è in agguato, gli outsider vagano immersi in un’atmosfera densa di antidolorifici e alcol, o si nascondo ai margini, nelle ombre. Questo è il milieu dell’America suburbana e Kateri Fisher ci arriva da Syracuse, dopo un brutto incidente, che le ha lasciato cicatrici profonde, e non solo sulla pelle. È un’agente di polizia, una donna sola, come sono sole tutte le donne che popolano Gli osservati. È sola Pearl Jenkins, che è sopravvissuta all’incendio della sua casa con il figlio Shannon. Il marito, Park, è in carcere per averlo appiccato, e così ha voluto la giustizia dello stato. Pearl ha avuto un’altra figlia, Sparrow Annie Jenkins alias Birdie, ma la tiene nascosta, e ha i suoi motivi per farlo. Ci sono traumi che è meglio evitare e, per tenere insieme la famiglia, dice Shannon “ci accettavamo a vicenda per quello che eravamo e non facevamo domande”. Il caso che deve affrontare Kateri matura proprio dentro quei silenzi: Pearl scompare, la casa è imbrattata di sangue, Birdie viene scoperta in uno ripostiglio. È solo l’inizio di una storia labirintica, dove tutto ruota attorno a un pugno di personaggi che, nelle singole solitudini, si riflettono uno nell’altro, una nell’altra. Così l’ambiguo Bear Miller, che gestisce le attività immobiliari della madre e ha intravisto un’obiettivo nei terreni di Spring Falls, trova un corrispettivo in Shannon. In altri modi, Kateri deve confrontarsi con il collega, Hurt (e anche i nomi nascondono e/o rivelano un ulteriore percorso che si snoda attraverso Gli osservati) per districarsi in una coltre di desolante freddezza condita da rabbia, rifiuti, abbandoni, violenze. Jennifer Pashley non molla la presa nemmeno per sbaglio, il ritmo è serrato e i dialoghi sono frustate, ma sullo sfondo c’è il contrasto, ed è sempre più nitido nell’inoltrarsi del romanzo, tra l’America dei Miller e dei loro avvocati, una versione più edulcorata e appariscente dei predatori nelle foreste e quella dei Jenkins, che cerca di tirare avanti ai limiti della sussistenza. L’attrito è inevitabile perché i desideri e le speranze, le ambizioni e i sogni sono destinati a incrociarsi, ma non hanno una terre comune da condividere. È proprio lì che Kateri e Hurt devono intervenire, cercando di dipanare una matassa di dubbi, provando a cogliere l’innocenza nascosta nell’oscurità, provando a non farsi sorprendere dai segreti occultati negli angoli di famiglie traballanti di “poveri bianchi del cazzo”. La trama del thriller è seguita da Jennifer Pashley con una discrezionalità particolare: gli elementi classici sono tutti al loro posto, ma interpreti e ruoli, nello specifico (e semplificando) vittime e carnefici, sono intercambiabili ed è questo che genera l’incalzante sequenza di sorprese che Gli osservati riserva fino al finale. Nel complesso, Kateri Fisher ha il ruolo dell’anfitrione ed essendo un personaggio che, nelle sue sofferenze, riesce a condensare un po’ tutti gli altri, è facile intuire che potrebbe essere soltanto un primo episodio di una (si spera) lunga serie. Ma è anche il simbolo di un’America disorientata, di fronte a divisioni sempre più radicali e brutali, che Jennifer Pashley sa intravedere e poi manifestare, senza un accenno di moralismo, solo mostrando attraverso un linguaggio aspro, martellante eppure congruente, i limiti estremi di una civiltà ossessionata dal successo non meno che dal fallimento.

venerdì 4 giugno 2021

Richard Ford

“Di cosa parliamo quando parliamo d’amore?” avrebbe detto l’amico Raymond Carver, perché Scusate il disturbo affronta e rispecchia proprio gli inafferrabili linguaggi del cuore ed è una panoramica definitiva che va un po’ oltre la raccolta di racconti, inanellando tutta l’espansione stilistica di Richard Ford. I riferimenti, impliciti o espliciti, alla sua bibliografia funzionano da raccordi e collegamenti, ma in effetti nelle storie vengono collocati “scenari, vite, affronti, amori, cattive azioni”, sapendo che “le buone scelte non sono mai alla base di buone storie”, come annuncia subito in Niente da dichiarare. Il racconto è una passeggiata di un’ora nel caldo tropicale di New Orleans: Sandy e Barbara, un tempo amanti, si ritrovano consapevoli di non avere “niente di cui gloriarci” e, aggrappandosi ai ricordi, vagano in cerca di reciproca compagnia, per quanto fugace. È tutto quello che resta, e alla fine sui racconti di Scusate il disturbo aleggia, imponente, la figura di Fitzgerald. Ci è arrivato, inevitabilmente, anche Richard Ford, a inseguire la famosa seconda chance: è un bel dilemma e così nella veglia di Happy, che ricorda da vicino quella del Grande freddo, prende consistenza “la vaga sensazione di essere un semplice spettatore della vita. Ma era l’America. Erano tutti spettatori. Nessuno, gli sembrava, era dentro fino al collo in qualche cosa”. Ecco, la concatenazione dei racconti è serrata dalla semplice constatazione dei personaggi di Fuori posto che mentre guardano Bob Hope e Anita Ekberg sullo schermo del drive-in pensano che “anche se la vita sembra seguire placidamente il suo corso quando la passi da un giorno all’altro, tutto potrebbe essere stato sempre molto diverso”. L’incidente è dietro l’angolo: i protagonisti hanno tutti una certa età, sono più che solvibili, ma nella loro agiatezza manca qualcosa. Quell’invisibile precarietà permea anche Traversata e Andando su, che però, insieme agli altri episodi di Scusate il disturbo sono associati da una complessa disposizione geografica. L’intreccio tra le città e le località di villeggiatura della costa atlantica, e poi Canada, Louisiana e Irlanda segue un’ideale pellegrinaggio attorno a una percezione dell’Acadie che diventa evidente in Mantenere il controllo, dove il protagonista Peter Boyle proprio dividendosi nelle estensioni oceaniche si convince “che i piccoli aggiustamenti sono a portata di mano”. È un fatto che distingue Partendo per Kenosha, con il viaggio da New Orleans, dopo l’uragano Katrina e verso nord, dove “hanno tutte le stagioni” che sottolinea il rapporto tra padre e figlio, nonché la deviazione parigina di Jimmy Green - 1992, ed è lì, infine, che si scopre come le persone capiscono che “la loro sorte e le loro circostanze non corrispondevano pienamente a quello che erano”. Se il mare è una cornice caratteristica comune a tutti i racconti, il cuore delle storie è il tempo trascorso o non trascorso insieme, con una spiccata propensione nell’indagare le cause e gli effetti della solitudine. In Seconda lingua, qualcosa in più di un racconto, nell’indecisione di Charlotte e Jonathan c’è un costante inseguirsi nel tentativo di trovarsi, nell’evitare le collisioni delle parole con le emozioni. È Richard Ford al suo meglio, che sa tradurre i pensieri dei suoi personaggi, li sa collocare, anche davanti allo spazio vuoto lasciato dall’11 settembre, seguendo legami che si formano e si sfaldano, tra il tempo e l’oceano, in ciò che appare e come lo interpretiamo. Mentre lo leggi Richard Ford dimostra di conoscere a fondo i suoi personaggi e non perché li ha creati: è come se avesse  letto di nascosto i loro diari e la loro corrispondenza (e per certi versi anche l’estratto conto). E così sembra sapere tutto anche di te e dei segreti della vita che Scusate il disturbo celebra con stile e garbo, ma non risparmiando nessuna ambiguità, nemmeno la più innocua, perché se deve funzionare, funziona così.

giovedì 27 maggio 2021

Stephen King

Il rituale si rinnova a ogni massacro in forme di reiterata ipocrisia, e su quello Stephen King non si sbaglia perché il culto delle armi in America pare inspiegabile e irrisolvibile, nonostante i danni che continua a perpetrare. È un buco nero su cui prospera un’industria che ha un peso rilevante nell’economia nazionale, ma sviscerarlo in tutta la sua complessità resta un po’ più impegnativo di quello che può un piccolo libro come Guns, e comporta necessariamente un supplemento di indagine. Poi, certo, Stephen King ha tutte le ragioni quando chiede: “Quante pistole servono per farci sentire al sicuro?”. Dopo una strage in una scuola, una delle tante, qualcuno propose come soluzione quella di dotare di un’arma tutti gli insegnanti, seguendo la logica ancestrale di combattere il fuoco con il fuoco, e questa è già una risposta alla domanda di Stephen King. Non finirà mai, ed è ancora nel giusto, a chiedere un minimo sindacale di regolamentazione, almeno limitando l’accesso alle armi a chi a precedenti penali specifici e circoscrivendo l’acquisto delle armi automatiche, il cui volume di fuoco è l’immediato responsabile dello spropositato numero di vittime. Basterebbe procedere come è stato fatto in Australia o nel Regno Unito dove la limitazione ha prodotto un’oggettiva inversione di tendenza. Ma nemmeno l’elenco dei caduti, nella sua cruda brutalità non può smuovere quella certezza granitica, premoderna, prefigurata nel secondo emendamento della costituzione americana che recita: “Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben organizzata milizia, il diritto dei cittadini di possedere e portare armi non potrà essere violato”. Rileggendolo si capisce una volta di più che è ancorato a una condizione di qualche secolo fa, eppure resta inviolabile. È il nucleo di un complesso problema culturale perché le armi da fuoco, con quel fascino infantile, appaiono sempre come una soluzione piuttosto che come un problema. È un riflesso innato e condizionato, qualcosa di meccanico e istintivo a cui è difficile, se non impossibile, rinunciare. Stephen King lo capisce bene spiegando come “quelli che si oppongono con fermezza, perfino istericamente, a qualsiasi tipo di controllo delle armi amano i loro vicini e le loro comunità, ma nutrono una sfiducia nei confronti del governo federale così profonda da rasentare la paranoia (e in alcuni casi da oltrepassarla a piè pari e senza nemmeno passare dal via). Considerano ogni minima forma di controllo imposto sulla vendita e sul possesso delle armi da fuoco come la prima mossa di una sinistra cospirazione volta a disarmare il popolo americano, così da renderlo indifeso davanti a una presa di potere, gli omicidi accidentali, obiettano, sono solo parte del prezzo che paghiamo per la libertà”. Oltre a essere verissima, questa condizione è stata confermata dalla famosa sentenza della corte suprema americana del 2008 che ribadì l’intangibilità del secondo emendamento. Uno dei giudici, Antonin Scalia, scrisse, all’epoca: “Siamo consapevoli del problema della violenza legata all’uso di armi da fuoco in questo Paese e prendiamo in seria considerazione le preoccupazioni dei molti amici che ritengono il divieto di possedere armi da fuoco una soluzione. Tuttavia la tutela dei diritti costituzionali inevitabilmente esclude alcune misure dal novero delle opzioni disponibili”. Ciò genera l’ulteriore  riflessione di Guns rispetto a “quanto è semplice per i più instabili tra noi mettere le mani su efficienti e portatili armi di distruzione di massa”. Il pamphlet di Stephen King è più di tutto un grido di dolore: non supera le buone intenzioni, pur ribadendo un body count ormai spaventoso e lugubre. Se proprio va cercato un elemento discutibile è nella limitata rappresentazione della “violenza americana”. Dalla guerra d’indipendenza allo sterminio dei nativi, dalla secessione alla frontiera, la convivenza con le armi è inscindibile e dura da più di due secoli, e il sangue continua a scorrere. Le statistiche sono impietose, del resto le armi hanno una funzione invalidante, non sono cucchiai o strumenti, come qualcuno vuol far credere: “le armi da fuoco sono armi” dice Stephen King. La precisazione, per quanto possa apparire ovvia, resta dovuta e necessaria.

martedì 25 maggio 2021

Willy Vlautin

“Dicono che l’unica possibilità che hai di trovare un brav’uomo è di essere cresciuta da un brav’uomo” si scopre in un dialogo di La notte arriva sempre e la citazione tra le righe di Flannery O’Connor svela molto, se non tutto, del romanzo di Willy Vlautin, dove gli uomini bravi, o soltanto gentili, latitano. Sono le donne a tirare avanti, spesso in condizioni proibitive, come succede a Lynette e a sua madre, che devono curarsi anche di Kenny, che è limitato, e ha bisogno di costanti attenzioni. Vivono in una casa in affitto, hanno occupazioni oneste, e sbarcare il lunario, giorno per giorno, è l’unica aspirazione concreta. Almeno fino a quando Lynette non riesce a racimolare un gruzzolo per mettere insieme l’anticipo necessario ad acquistare la casa. “È una cosa stupida voler comprare qualcosa?”, si chiede, giustamente, ed è sottinteso che diventare proprietari diventa una sorta di ultima spiaggia, una rivendicazione, una forma di redenzione, dopo un’esistenza di fatiche e sofferenze. Solo che si tratta di confrontarsi con le variabili insondabili (e il più delle volte incomprensibili) che regolano il mercato immobiliare e, di pari passo, quello finanziario. Seguendo le parole d’ordine, smart, slow e green, Portland, Oregon è diventata cool e ha raggiunto costi proibitivi, ma a Lynette basterebbe riscattare la modesta abitazione dove hanno vissuto fin lì. L’idea scardina l’equilibrio tra madre e figlia già reso precario dall’alcol e dai rispettivi fallimenti sentimentali, perché un uomo, comunque sia,  non è facile da trovare. Per Lynette diventa una questione di vita o di morte e nel lasciarsi trascinare dall’ossessione, spalanca uno spiraglio sui suoi lati oscuri. La mossa di Willy Vlautin, spingere la protagonista a scavalcare la linea di demarcazione tra lecito e arbitrario, contiene un quesito morale, e insieme un interrogativo, che abbraccia tutto il romanzo e lo condiziona. L’empatia per Lynette è immediata, per gli sforzi che fa, per l’idea di riscriversi il futuro, per il confronto con la madre (che è durissimo e alimenta le pagine più toccanti del romanzo), ma si trova ad agire da fuorilegge però senza poter essere giudicata perché si muove in un territorio che è tutto fuorilegge o almeno in una twilight zone dove la distinzione tra  non è chiara, anzi. In quel momento, lo scomodo passato di Lynette emerge piano piano mentre insegue il sogno di avere una casa. L’argomento è spinoso, soprattutto dopo la crisi dei mutui subprime, che ha travolto ogni cognizione di causa (e, a proposito di legalità, ce ne sarebbe da dire), e ancora di più, per la natura stessa dell’evoluzione del tessuto urbano di Portland, Oregon, così come di ogni altra metropoli americana. Le deviazioni urbanistiche sono ben sottolineate dai pellegrinaggi diurni e notturni di Lynette che toccano i quartieri come se fossero enclavi separate dal resto della città. Il contrasto ambientale è fortissimo e mette in risalto l’ambiguità di fondo raccontata da Willy Vlautin. La notte arriva sempre e continua il giorno dopo perché Lynette nello sforzo di racimolare i soldi è andata prostituendosi e ha annodato il suo destino a una serie di personaggi che prosperano in un mondo periferico e sotterraneo, palesemente senza alcuna speranza, perché “certe persone sono semplicemente nate per affondare”. Lì, in un ambiente di predatori, c’è una condizione più diffusa di quello che sembri, dove è facile trovarsi nella situazione sbagliata, e senza rimedio, perché “a tanta gente non interessa fare qualcosa di buono. Tanta gente vuole solo spingerti da parte e prendersi quello che vuole”. Nessuno si avventura più nella jungleland e Willy Vlautin la descrive con metodo, onestà e coraggio e con molta precisione. La ribellione di Lynette è influenzata da quell’habitat e, tentativo dopo tentativo, il suo viaggio nei bassifondi assume tinte fosche e violente, ed è come se ritrovasse una parte di se stessa: non giusta, non bella, ma vera, che piaccia o no.