Il rituale si rinnova a ogni massacro in forme di reiterata ipocrisia, e su quello Stephen King non si sbaglia perché il culto delle armi in America pare inspiegabile e irrisolvibile, nonostante i danni che continua a perpetrare. È un buco nero su cui prospera un’industria che ha un peso rilevante nell’economia nazionale, ma sviscerarlo in tutta la sua complessità resta un po’ più impegnativo di quello che può un piccolo libro come Guns, e comporta necessariamente un supplemento di indagine. Poi, certo, Stephen King ha tutte le ragioni quando chiede: “Quante pistole servono per farci sentire al sicuro?”. Dopo una strage in una scuola, una delle tante, qualcuno propose come soluzione quella di dotare di un’arma tutti gli insegnanti, seguendo la logica ancestrale di combattere il fuoco con il fuoco, e questa è già una risposta alla domanda di Stephen King. Non finirà mai, ed è ancora nel giusto, a chiedere un minimo sindacale di regolamentazione, almeno limitando l’accesso alle armi a chi a precedenti penali specifici e circoscrivendo l’acquisto delle armi automatiche, il cui volume di fuoco è l’immediato responsabile dello spropositato numero di vittime. Basterebbe procedere come è stato fatto in Australia o nel Regno Unito dove la limitazione ha prodotto un’oggettiva inversione di tendenza. Ma nemmeno l’elenco dei caduti, nella sua cruda brutalità non può smuovere quella certezza granitica, premoderna, prefigurata nel secondo emendamento della costituzione americana che recita: “Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben organizzata milizia, il diritto dei cittadini di possedere e portare armi non potrà essere violato”. Rileggendolo si capisce una volta di più che è ancorato a una condizione di qualche secolo fa, eppure resta inviolabile. È il nucleo di un complesso problema culturale perché le armi da fuoco, con quel fascino infantile, appaiono sempre come una soluzione piuttosto che come un problema. È un riflesso innato e condizionato, qualcosa di meccanico e istintivo a cui è difficile, se non impossibile, rinunciare. Stephen King lo capisce bene spiegando come “quelli che si oppongono con fermezza, perfino istericamente, a qualsiasi tipo di controllo delle armi amano i loro vicini e le loro comunità, ma nutrono una sfiducia nei confronti del governo federale così profonda da rasentare la paranoia (e in alcuni casi da oltrepassarla a piè pari e senza nemmeno passare dal via). Considerano ogni minima forma di controllo imposto sulla vendita e sul possesso delle armi da fuoco come la prima mossa di una sinistra cospirazione volta a disarmare il popolo americano, così da renderlo indifeso davanti a una presa di potere, gli omicidi accidentali, obiettano, sono solo parte del prezzo che paghiamo per la libertà”. Oltre a essere verissima, questa condizione è stata confermata dalla famosa sentenza della corte suprema americana del 2008 che ribadì l’intangibilità del secondo emendamento. Uno dei giudici, Antonin Scalia, scrisse, all’epoca: “Siamo consapevoli del problema della violenza legata all’uso di armi da fuoco in questo Paese e prendiamo in seria considerazione le preoccupazioni dei molti amici che ritengono il divieto di possedere armi da fuoco una soluzione. Tuttavia la tutela dei diritti costituzionali inevitabilmente esclude alcune misure dal novero delle opzioni disponibili”. Ciò genera l’ulteriore riflessione di Guns rispetto a “quanto è semplice per i più instabili tra noi mettere le mani su efficienti e portatili armi di distruzione di massa”. Il pamphlet di Stephen King è più di tutto un grido di dolore: non supera le buone intenzioni, pur ribadendo un body count ormai spaventoso e lugubre. Se proprio va cercato un elemento discutibile è nella limitata rappresentazione della “violenza americana”. Dalla guerra d’indipendenza allo sterminio dei nativi, dalla secessione alla frontiera, la convivenza con le armi è inscindibile e dura da più di due secoli, e il sangue continua a scorrere. Le statistiche sono impietose, del resto le armi hanno una funzione invalidante, non sono cucchiai o strumenti, come qualcuno vuol far credere: “le armi da fuoco sono armi” dice Stephen King. La precisazione, per quanto possa apparire ovvia, resta dovuta e necessaria.
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