Diceva
Miguel Algarín: “Il poeta vede la propria funzione come quella di
un trovatore. Narra alle strade il racconto delle strade”. Era
proprio quello il ruolo principale di Pedro Pietri, solo che lo
interpretava a modo suo, seguendo l’istinto più di tutto, e
restando incollato a quel proposito che ripeteva sempre: “Non
voglio parlare di quello che succede nella vita reale perché allora
finirei per mentire”. Ne parlava, eccome, e l’umanità degli
scarafaggi e delle cause perse di Pedro Pietri si rivela, poesia dopo
poesia, una visione eccentrica, eppure stimolante, non addomesticata,
incorreggibile. La sua lingua è inafferrabile, tambureggiante, un
modello di carta vetrata che la poesia e l’America non hanno più
in catalogo. Basta una piccola selezione delle sue Cabine
telefoniche, schizzi di vita
quotidiana nelle strade di New York e impressioni di un artista fuori
servizio, come si descriveva nella Cabina
telefonica 972: “Quando non sono
in giro e qualcuno giura d’avermi visto nel periodo in cui non mi
sono visto io (quel che faccio allora è andare di filato a casa per
sognare a occhi aperti d’essere in qualche altro posto) finché
diventa una noia e accendo le luci spegnendole”. A volte sono
frammenti di dialoghi a cui manca l’esatta metà, avvisi ai
naviganti di relazioni claudicanti come il messaggio della Cabina
telefonica 580: “Non ci sarò per
colazione come ti avevo promesso ma tu non starci troppo male prendi
le ciambelle incollale al soffitto e quando ti vien fame fatti un
paio di salti”. Ancora di più, quello della Cabina
telefonica 801, un calembour che ben
rappresenta i coloriti toni di Pedro Pietri: “No certo che no non
guardo un uomo come guarderei una donna c’è una bella differenza
in un caso mi tira da matti nell’altro no, ma non ti dico qual è
l’uno e qual è l’altro, se vuoi proprio saperlo comincia a
toglierti qualcosa”. Se il primo strato appare luccicante, per via
dei riflessi di quell’ironia brillante e tagliente, sbucciando i
versi emerge davvero lo spirito del troubadour, la lucidità dei
sognatori indefessi, dei fuggitivi, dei bardi imprigionati nelle mura
delle metropoli, New York nel caso specifico. Il luogo, la terra di
nessuno è proprio quella, come scriveva in Intermezzo
da lunedì: “Devo lasciare la
città, quando quel che vedi è quel che vedi e quel che non vedi non
vedi e l’immaginazione è classificata come bagaglio eccedente
all’aeroporto dove cornici per quadri sono cornici per quadri e le
code si allungano sempre di più per biglietti di prima classe su uno
scaffale dove un poeta è diventato poeta agli occhi di tutti tranne
che ai suoi”. Quel retrogusto amaro e malinconico, complementare
all’irrequieta voce di Pedro Pietri si rivela in Una
poesia senza titolo (che, a ben
guardare, c’è un motivo anche in quest’assenza) quando dice:
“Non ho progetti per oggi o domani, i muri son già stati scrutati
per bene. Ogni cosa è compresa incompresa, riesco solo a pianificare
il passato di questi giorni”. Se ne è andato dieci anni fa, e il
suo epitaffio potrebbe coincidere benissimo con la conclusione di
Biglietto d’addio d’uno
scarafaggio suicida in un complesso popolare:
“Addio, mondo crudele, ne ho abbastanza di prenderlo in quel posto
a causa delle tue parole incrociate. Non ci sarò quando cadrà la
bomba, inoltra la mia corrispondenza alla tua coscienza, quando ne
rimedi una”.
domenica 29 novembre 2015
domenica 22 novembre 2015
Kurt Vonnegut
Le
Galápagos di Kurt Vonnegut sono proprio quelle stesse di
Charles Darwin e allora toccano al rinomato ospite gli onori di casa:
“L’arcipelago è in se stesso un piccolo mondo o meglio un
satellite attaccato all’America”. I presupposti scientifici si
fermano lì eppure sono più che sufficienti a fornire il principio
irrinunciabile e comune per entrambe le interpretazioni delle Galápagos. Una coincidenza rivelata anche dall’uso dei pronomi,
quando Kurt Vonnegut raccontava la genesi del romanzo: “Ho
scritto Galápagos per il libro in sé, così come si dipinge
un quadro per il quadro in sé. Il libro era un problema tecnico e ho
passato un periodo d’inferno per farlo funzionare. Sono menzogne
creative, come se mentissi sul banco dei testimoni; tutto deve
reggere”. Tesi: un milione di anni dopo la sua estinzione,
garantita da un’apocalisse nucleare, il genere umano si è evoluto
ripartendo dall’arcipelago delle Galápagos con un manipolo
cosmopolita e caotico di naufraghi. Ipotesi: il vero habitat è fatto
di parole, e non c’è maldestro cervello (“Sia detto in lode
all’umanità quale allora si configurava: un numero crescente di
persone andava ripetendo che i loro cervelli erano irresponsabili,
inaffidabili, odiosamente perniciosi, affatto privi di senso della
realtà: in poche parole, un disastro”) o macchina, come il
Mandarax o il Gokubi (tutti da scoprire), in grado di elevarsi da
quello stato primordiale e assoluto. Vonnegut segue l’istinto,
lasciando che sia la sua progenie di personaggi (a partire da Leon
Trotsky, figlio di Kilgore Trout, disertore in Vietnam ed enigmatica
voce fuori campo) a generare da sola la trama, con un ritmo elettrico
e sconcertante, attraversato da micidiali digressioni che, in un modo
o nell’altro, prima o poi, riprendono la giusta rotta. Anzi,
proprio la tracciano, come se Galápagos fosse una sorta di
suite di jazz (molto, molto free) che, con la forza
dell’improvvisazione, aumenta e accentra la tensione. Il crescendo
è sincopato: uno scenario dopo l’altro, la visione di Vonnegut si
fa via via sempre più sorprendente. Prima è la crociera della Bahía
de Darvin, una nave che a sua volta ha tutta una storia nascosta
tra le lamiere, ad attirare un singolare campionario di “esseri
estranei alle congiunture evolutive”. Ne basterebbe già la metà,
poi arriva la guerra tra Perù ed Ecuador che, pare di capire, è
l’inizio della fine. Invece è il cardine centrale di Galápagos,
quello che spinge la nave dei folli alla deriva, e il bello deve
ancora venire perché la soluzione finale è l’apoteosi
dell’inimitabile verve di Kurt Vonnegut. L’approdo è solo
l’epicentro da dove il romanzo si moltiplica. A quel punto, Galápagos ha già attraversato fasi concitate e complesse,
magari ci si è ambientati, si è compreso il senso della crudele
ingenuità della danza delle sule o il pericolo vampiresco dei
fringillidi e Kurt Vonnegut cambia ancora registro. Irriverente,
sarcastico, spettacolare quando all’apogeo delle esplosioni
umoristiche (e non) conclude che “le persone sono quello che
sono, detto questo è detto tutto. Sotto questo aspetto, la legge
della selezione naturale ha voluto che gli esseri umani fossero
affatto trasparenti. Tutti, maschi e femmine, sono esattamente quel
che sembrano”. Un vortice di impressionante potenza, con una risata
sempre in agguato, e attenzione agli asterischi, possono nuocere
gravemente alla salute.
giovedì 19 novembre 2015
Kent Haruf
Diceva
tempo fa Jim Harrison, l’unico scrittore che, con Cormac McCarthy,
si può accostare a Kent Haruf: “A me piace il coraggio, mi
piacciono l’amore e la morte, sono stanco dell’ironia”. Ecco,
nel Canto
della pianura c’è
la vita che va e che viene e si dipana nel racconti di Kent Haruf
come una ballata country & western, diciamo Alone
And Forsaken di
Hank Williams, per non sbagliare. L’essenza è quella, anche se c’è
una forza nei protagonisti che riesce a superare la tristezza di
momenti imprevisti, duri e infelici. L’aiuto inaspettato arriva
proprio da Kent Haruf che rimane vicino ai suoi personaggi e concede
a tutti una seconda chance. Chi resta escluso è perché ha bisogno
di un avvocato o si lascia l’ipotetica Holt alle spalle. La fuga
apre altri scenari, non previsti, mentre il Canto
della pianura è
fatto di piccoli incastri, che si rivelano di volta in volta, senza
particolari colpi di scena. Comincia con un germoglio vitale più,
nella gravidanza di Victoria Roubideaux, poi si snoda all’interno
di un perimetro ben delineato, una mappa che potrebbe stare su una
pagina del libro, con una mezza dozzina di punti strategici, compreso
il domicilio del protagonisti. Si incontrano per traiettorie
divergenti e inafferrabili: i legami sono molto fragili e vengono
definiti dallo stesso ambiente, dalle stagioni, dalle condizioni
atmosferiche. Sembrerà paradossale, ma la vita nelle smalltown è
limitata dagli spazi, e dai difetti congeniti delle parole e del
linguaggio. L’espressione del paesaggio attraverso il senso di Kent
Haruf per la frase, asciutta, eppure densa, forte e ruvida, ma
elegante nella sua essenzialità, è la forma lineare, orizzontale
(perché così è il territorio) di una narrazione limpida, senza
esitazioni, “plain spoken”, come direbbe John Mellencamp, e per
non andare troppo lontani dal titolo. La bellezza del Canto
della pianura sta
proprio in quel parlare piano, chiaro, che la scrittura di Kent
Haruf, appuntita e artigianale nella composizione, e così accurata
della definizione, riesce a rendere come se fossimo lì, sulla terra,
nella polvere e nella neve. Non leggi, non immagini: sei dentro, gli
sei accanto. Lo senti, il Canto
della pianura.
Li senti, uomini (e bambini) e donne che si inseguono, si
abbracciano, si abbandonano, si perdono e si trovano.I profili
psicologici dei personaggi di Ike e Bobby, della madre chiusa in
camera, di Tom Guthrie e Maggie Jones emergono senza bisogno di
spiegazioni. Incontri che si compongono e si consumano seguendo le
bizze di un destino che è impalpabile come il vento sulla pianura. I
profili si stagliano nitidi, alcuni convessi, altri concavi, si vanno
a incastrare e si specchiano uno nell’altro. Divergenti,
complementari, perché Holt, che è difficile chiamare città, non è
poi così grande. C’è una tenerezza, all’improvviso, dove meno
te l’aspetti, un po’ di compassione sulla pianura dura e fredda.
Una nota di speranza battuta dalle raffiche di gelo e dall’odore
degli animali che spunta dai burberi fratelli McPheron. Parlano
pochissimo, anche meno degli altri, ma si rivelano generosi quel
tanto che basta da rendere meno arido il tempo che passa,
inesorabile. Forse sono anche naïf, perché c’è una bizzarra nota
di brio nei loro passaggi in Canto
della pianura, ma l’effetto
benefico dei McPheron sull’intera storia è la conseguenza di gesti
spontanei (o quasi) che si propagano incontrollati, dentro e fuori,
mitigando piccoli e grandi contrasti da una casa all’altra, un
giorno più, un giorno meno. Holt è solo il punto in fondo alla
domanda, non c’è via d’uscita. L’astio, la solitudine, e poi
la tristezza. Avere una possibilità, non restare soli. Fine delle
alternative. L’ironia della vita può aspettare, ancora un po’.
lunedì 16 novembre 2015
Wallace Stevens
Le
ultime poesie di Wallace Stevens raccolte in Il
mondo come meditazione suonano
come una sorta di eredità spirituale, un estremo lascito che di
volta in volta assume le sembianze di augurio, profezia, testamento,
saluto e arrivederci. E’ vero che “una
poesia non è necessario che abbia un significato, e come la maggior
parte delle cose in natura spesso non ne ha”, d’altra parte
considerare Il
mondo come meditazione
implica il riconoscimento, tra i versi, di una riflessione
filosofica che comincia, come scrive in Conversazione con tre donne
del New England, quando
“il modo della
persona diviene il modo del mondo, per quella persona e, a volte, per
il mondo stesso”. Quello di Wallace Stevens è “un modo di
pronunciare il mondo entro la propria lingua”, spiega in Sulla via
dell’autobus, perché “siamo
esseri fisici in un mondo fisico, il tempo è una delle cose di cui
godiamo, una delle realtà non filosofiche. Lo stato del tempo
diventa presto uno stato di mente. Vi sono molte cose immediate nel
mondo che noi godiamo: una poesia perfettamente realizzata dovrebbe
essere una di queste cose”. Nella pratica, può essere tutto,
essendo fatta di parole che “sono
insieme icona e uomo” ed è nella sua applicazione che Wallace
Stevens si rivela, nel tempo, un poeta essenziale, indispensabile nel
sapere interpretare Il
senso ordinario delle cose o
Il corso di un particolare,
ovvero la primitiva realtà, sempre cosciente che “per quanto si
dica che siamo parte di tutto, la cosa implica un conflitto, una
resistenza; e l’esserne parte è uno sforzo che diminuisce: si
sente la vita che dà la vita così com’è”. Questa attitudine
lo vede più struggente che mai nel cogliere la “bella
rappresentazione” kantiana della bellezza naturale seguendo Il
fiume dei fiumi in Connecticut
(“Colmo di spazio, specchio delle stagioni, del folclore dei sensi
tutti; chiamatelo, ancora e sempre, il fiume che non scorre in alcun
dove, come un mare”) e celebrando gli alberi, che “sono mondi”,
iniziando con La
regione novembre
(“Più e più profondi, più e più sonori, gli alberi ondeggiano,
ondeggiano, ondeggiano”) per giungere a una sostanziale definizione
in Il mondo come
meditazione quando
scrive: “Gli alberi hanno l’aria di portare nomi tristi e star lì
a ripetere sempre la medesima cosa, come in tumulto, perché un
opposto, una contraddizione, li ha provocati e ora vogliono
replicare”. Se questa non l’arte di un pittore, di uno scultore o
di un fotografo, è, senza alcuna esitazione, il frutto
dell’insistenza con cui Wallace Stevens intende
sostituire all’idea di ispirazione, “l’idea di uno sforzo della
mente non dipendente dalle vicissitudini della sensibilità”. Nel
concedersi, il poeta dissimula anche l’ora del crepuscolo, prima
rievocando l’odissea di tutti gli uomini con La
vela di Ulisse (“Non
è questa la serenità di spirito del poeta. E’ la sorte che dimora
nella verità. Obbediamo le sollecitazioni del nostro fine”) poi,
quasi con un tono colloquiale, in L’uomo
malato, firmando un
toccante commiato: “Scegliendo da dentro di sé, da tutto ciò che
ha in sé, una lingua per un calmo addio a se stesso, addio, addio,
le pacate, beate parole, ben intonate, ben cantate, ben dette”.
Talmente poetico da confondere anche un rigoroso Frank Kermode che lo
definiva “un dottore incomparabilmente sottile, per non dire
angelico”, se non fosse che anche l’invenzione del paradiso,
secondo Wallace Stevens, coincide con l’imperfezione, per cui non
resta altro, come
diceva qualche
anno prima, nel 1941, che “seguire l’idea della nobiltà in ciò
che si potrebbe chiamare il disastro della realtà, in particolare la
realtà delle parole”. Normale, straordinario, assoluto.
Iscriviti a:
Post (Atom)