mercoledì 4 settembre 2013

Susan Sontag

Anche in tempi in cui le immagini corrono più veloci delle parole, la fotografia ha mantenuto una dimensione in cui cercare la profondità in due semplici coordinate, alla fine. Ridurre uno spazio a tre dimensioni (più quella, non relativa, del tempo) a un ordine verticale e orizzontale, dove si concentra lo sguardo, la luce, l’impressione e insieme cercare di saldare “realtà e immagine nella nostra società”, come dice il sottotitolo di Sulla fotografia, è ancora qualcosa che merita di essere considerato niente altro che arte anche quando lo scopo, l’obiettivo è diverso perché comunque “la fotografia è diventata uno dei principali meccanismi per provare qualcosa, per dare una sembianza di partecipazione”. Va ricordato che Sulla fotografia è del 1977 e se Susan Sontag non poteva immaginare cosa sarebbe successo con la rete in tutte le sue derivazioni, aveva già compreso, e molto bene, cosa stava facendo l’altro strumento che ha fagocitato le immagini e la nostra stessa percezione, perché “la televisione è un susseguirsi ininterrotto di immagini, ognuna delle quali cancella quella che la precede” e non è una constatazione relativa. Nella sua prospettiva “la realtà è sempre letta attraverso i rapporti che ne forniscono le immagini” e le analisi allineate da Sulla fotografia sono impietose: “le immagini paralizzano. Le immagini anestetizzano” ed è dunque una sorta di filosofia dell’ottica, un’etica della visione quella che viene sottolineata perché “collezionare fotografie è collezionare il mondo”. Se è vero, non è così lineare dato che, come scrive Susan Sontag, la fotografia consiste comunque “in uno spiegamento di frammenti casuali, in un modo di misurarsi con il mondo che è insieme infinitamente allettante e intensamente riduttivo”. Si capisce allora il senso della definizione, citata a proposito, che Berenice Abbott offre del fotografo come “l’essere contemporaneo per eccellenza; attraverso i suoi occhi l’oggi diventa passato” e in effetti Sulla fotografia condensa la pittura, il cinema, le arti in generale e l’informazione nello specifico perché poi, come scrive Susan Sontag “il desiderio non ha storia, o almeno è sempre vissuto come qualcosa che è tutto in primo piano, tutto immediato. E’ suscitato da archetipi ed è, in tal senso, astratto. I sentimenti morali invece sono radicati nella storia, dove le persone sono sempre concrete e le situazioni sempre specifiche”. La conclusione di Susan Sontag è che “noi abbiamo un’idea moderna del bello, la bellezza non è insita in nulla; bisogna trovarla, con un altro modo di vedere” e Sulla fotografia finisce con una “breve antologia di citazioni” che in realtà costituiscono una solida e coerente appendice di suggerimenti, una vera e propria mappa per interpretare l’immagine e la realtà. A maggior ragione se ci si confronta, tra gli altri, con il brevissimo, concreto aforisma di Frederick Sommer che dice: “La vita non è la realtà. Siamo noi che infondiamo vita nelle pietre e nei ciottoli”. E’ la sintesi estrema di una testimonianza che è molto più di un saggio Sulla fotografia.

lunedì 2 settembre 2013

Dara Horn

E’ il 1862 e la guerra di secessione è ormai penetrata a fondo nel tessuto umano e geografico dell’America, rivelando “una vasta landa selvaggia e vuota”. A Jacob Rappaport, che per evitare l’imposizione di un matrimonio si era arruolato nell’esercito dell’Unione, viene conferito un incarico segreto. La devozione alla causa e al massimo la riconoscenza di un “onore privato” lo portano ad assecondare le sue missioni in modo stoico, anche se ciò non gli impedisce di innamorarsi di Jeannie alias Eugenia Levy. Lei è bella, geniale, volitiva e irraggiungibile perché sta dall’altra parte della barricata. Tutte le altre sere è sospeso in un limbo di gesti che durano all’infinito e il suo mosaico è incorniciato in modo indelebile dalla figura controversa di Jacob Rappaport, “un soldato buono solo per le ritirate e le sconfitte”. Il suo struggimento, la sua lotta per una personalità sfuggente mantiene viva la brace, mentre nella cenere sparsa dalla guerra, si aggirano le multiple identità di uomini e donne in cui serpeggiano “piccole speranze, piccole paure, piccoli trionfi e fallimenti, tutti”. La scrittura di Dara Horn è decorativa, accattivante, seducente, coinvolgente, molto equilibrata e attenta, incisiva nei dettagli e inventiva nel linguaggio e negli artifici per tenere il lettore incollato alle pagine (che non sono poche), compresi i palindromi, gli anagrammi e i calembour di Rose, la sorella di Jeannie. Se il corpo principale di Tutte le altre sere è quello di un romanzo storico, va notata una parte consistente di melodramma alimentato da una love story impossibile, eppure la voce di Dara Horn è attenta alla dimensione psicologica dei personaggi, a partire dal protagonista Jacob Rappoport e non è un compito semplice visto che “buona parte dell’inganno è costituita dalla condiscendenza”. Se l’impianto, non privo di ambizioni, regge, è facendo forza su una trama ricca di nodi. Fin troppo, perché molti restano irrisolti e sommersi nel fitto tessuto di episodi e scene voluto da Dara Horn, a partire dalla guerra che è sempre in primo piano anche se, come dice un saggio interlocutore di Jacob Rappaport, “le guerre vanno e vengono, giovanotto. Vanno e vengono, e noi andiamo e veniamo con loro. Sono come il tempo, come una tempesta o una siccità. E noi non possiamo fare altro che cercare riparo e aspettare che passino”. Per dirla con la voce di un grande (grandissimo) poeta, Wallace Stevens, “la guerra è solo una parte di una totalità in tumulto” e Tutte le altre sere sembra la naturale estensione, ben calibrata, di quel lucido (e purtroppo sempre attuale) verso. Memorabile l’incipit, che rasenta la perfezione: “Dentro un barile sul fondo di un battello, con una borraccia d’acqua incastrata fra le gambe e un pacchetto di veleno nascosto in tasca, Jacob Rappaport avvertiva una stretta allo stomaco, non perché fosse sul punto di fare qualcosa di pericoloso, ma perché era sul punto di fare qualcosa di sbagliato”. Quattro righe e dentro si trovano già i motivi e i tempi di Tutte le altre sere.

domenica 25 agosto 2013

Stephen King

Devin Jones è stato lasciato dal suo primo amore (insopportabile) e per ovviare all’ossessivo pensiero dell’abbandono decide di trascorrere un’estate a lavorare in un parco di attrazioni nella Carolina del Sud. Una volta entrato a Joyland verrà chiamato Jonesy e la sua specialità sarà impersonare Howie, il cane che è la mascotte del luna-park, indossando un costume che è una tortura. Oltre a una nutrita schiera di pittoreschi personaggi, Joyland è abitato dal fantasma di Linda Gray, uccisa e abbandonata della galleria degli orrori, ed è l’unico elemento fantastico della storia. Stephen King ha una leggerezza tutta sua quando si avvicenda dal danse macabre e si possono perdonare le ripetizioni, qualche caduta di tono, una cerca meccanicità perché Joyland si sviluppa “proprio come una canzone” o meglio attingendo a un immaginario speciale, che meriterebbe un saggio a parte. Big Joe Turner e Johnny Otis suonano o hanno suonato nell’auditorium di Joyland, Madame Fortuna o Rozz o Rozzie (i nomi variano con l’umore e le interpretazioni) cita Good Vibrations dei Beach Boys, poi vengono richiamati all’appello in un modo o nell’altro Jimi Hendrix, John Lennon, gli Hollies, i Beatles e gli Stones. In una ghost story non potevano mancare (e si rivelano fondamentali) i fantasmi più rilevanti della storia del rock’n’roll, la voce di Jim Morrison nei Doors ed Elvis che all’epoca di Joyland (siamo nel 1973) non ancora lo spettro più famoso d’America. A proposito di canzoni: la prima che viene citata è Stay With Me dei Faces ed è la chiave per entrare nella storia: per inciso, i Faces avevano un catalogo inarrivabile di pop song suonato con tutta l’energia e la forza di una rock’n’roll band e i riferimenti musicali rendono Joyland una specie di “series of dreams” dylaniana o una circus song springsteeniana. Il tema è chiaro fin dall’inizio e il tono è ben presto dettato dall’avvertenza che Jonesy riceve dal suo factotum, Fred Dean: “Qui improvvisiamo di più. Siamo ancora legati allo spirito delle fiere di un tempo. Forza, cerca di capire che cosa ne pensi. Anzi, meglio, che cosa provi”. E’ quello che chiede Stephen King mentre si entra in Joyland: di sentire qualcosa, più che di leggerlo. Per questo anche se comincia come una rock’n’roll fantasy e poi si sviluppa con la luce di un b-movie, con un gran finale che è a sua volta un cliché, va aggiunto che l’intenzione arriva intatta fino in fondo all’epilogo. A saldo di tutte le ironie possibili, è come bere una birra fresca nel giorno più caldo dell’estate ed è anche legittimo non chiedere di più. Ciò non toglie che piccoli valori come amicizia, lealtà, sincerità, generosità che a Joyland hanno un senso e nel resto del mondo sono stati dimenticati, per far spazio a una non inedita brutalità, riempiano di nostalgia la storia di Stephen King rendendola una favola moderna capace persino, en passant, di non dimenticare il sassofono di Clarence Clemons nelle battute conclusive. Tempo di lettura: una notte con temporale (obbligatorio), tuoni e fulmini compresi nel prezzo.

giovedì 22 agosto 2013

Chris Fuhrman

E’ l’estate del 1973 a Savannah, Georgia e Chris Fuhrman scrive di “un gruppo di adolescenti anarchici che combattevano l’ipocrisia, l’ingiustizia e le eterne stronzate” con un tatto particolare, persino una gentilezza, usando tutte le premure possibili per trattare la materia delicata e friabile di ricordi destinati a dissolversi. E’ il motivo principale per cui tutta la parte principale, e ben oltre la metà di Vite pericolose di bravi ragazzi scorre innocua, pratica ed essenziale. Anche un po’ sciatta, a dire la verità: Chris Fuhrman avvicenda piccoli episodi in miniature senza scossoni rilevanti, lasciandoli apparire in una modalità tiepida e lineare. Tra le tante deviazioni dalla rigida istruzione cattolica, la banda dei bravi ragazzi coltiva con grande passione l’arte dei fumetti e ne realizza uno colorito e blasfemo che viene intercettato dall’autorità scolastica, poco incline all’interpretazione creativa dei sacri profili. Il giudizio e l’eventuale punizione gravano come una spada di Damocle su di loro e, mentre si dedicano ad altrettanti guai perché “il problema della vita è che quando non sei nei casini è noiosa”, hanno un’illuminazione eversiva. Durante una gita scolastica, notano le vistose caratteristiche di un puma in cattività e progettano un piano per sequestrarlo e liberarlo nella scuola in modo da creare un caso più grande da far dimenticare quello del fumetto. Il rammendo è peggio dello strappo sia perché l’impresa è ad alto rischio, sia perché l’effetto è tutt’altro che prevedibile, eppure nessuno tra Francis, Rusty, Tim, Joey e Wade se ne cura dato che “le cose che vivono nella mente sono vere come tutte le altre”. Il principale promotore di questa attitudine è proprio Tim, lo spirito più fervido e genialoide del gruppo, a sua volta alter ego del protagonista, Francis, che lo dipinge così: “Ogni giorno Tim Sullivan incendiava il mondo, e dopo vivevi nei luoghi che avevano resistito all’incendio, quelli abbastanza forti da costituire dei punti di partenza. Era bellissimo. Scoprivi che potevi anche pensare”. A maggior ragione visto che le Vite pericolose di bravi ragazzi sono immerse e circoscritte dagli elementi fantastici della religione cattolica e dalla concreta realtà delle tensioni razziali che serpeggiano sullo sfondo. I chierichetti saltano la scuola, provano l’ebbrezza del primo bacio e bevono ascoltando Elton John oppure spaccano tutto (come capita a Tim: “Oh. Niente. Mi annoiavo. Ho preso l’ascia e ho abbattuto un palo della luce. Ci è voluto un attimo”) e si azzuffano e la vita nella scuola così come in città trascorre in modo più o meno ordinato e il tono di Chris Fuhrman sembra rispecchiarlo senza troppe ambizioni. Il finale è una frustata che riporta in modo brusco alla realtà: un risveglio durissimo che proietta alla velocità della luce le Vite pericolose di bravi ragazzi nell’età adulta, dove oltre alla noia, dovranno rendere conto al dolore. Lo si legge nella firma di Chris Fuhrman: è il suo primo e unico romanzo, visto che se ne è andato a poco più di trent’anni, finendo le ultime, fragilissime pagine.