Il ritorno di Abele, un veterano della seconda guerra mondiale, apre uno scenario inedito tra i pueblo del New Mexico: “Di tutto, di tutto quanto aveva preceduto la partenza, si ricordava perfettamente, nei minimi particolari. Era il passato recente, quel susseguirsi di giorni e di anni senza significato, di terribile calma e di conflitto, tempo sempre istantaneo e confuso, che non riusciva a ordinare nella sua mente. C’era un frammento di ricordo preciso, ricorrente e distinto”. Spiegherà in seguito lo stesso Momaday: “Uno degli aspetti più tragici di Abele, così come lo intendo, è la sua incapacità di esprimersi. È in qualche modo un uomo senza voce. E nella sua situazione, nel contesto del mondo indiano, è una tragedia ben definita. È stato rimosso fisicamente. Ha perduto il suo posto nel mondo ed è perciò disperato e cerca di reinserirsi nel mondo naturale di appartenenza. Ma non vi riesce perché ha perduto la sua voce. Penso a lui come ad uno sradicato dalla tradizione orale. Questo caratterizza il suo dilemma”. Lo si vede nel passaggio forzato a Los Angeles, che è una frattura significativa. Disorientato dalla città, dai suoi rumori e dal movimento senza fine del traffico e dell’oceano, Abele non riesce a ritrovarsi, mentre si riaffaccia un antico terrore: “Aveva sempre avuto paura. Ai confini della sua mente c’era sempre qualcosa che faceva paura, qualcosa da temere. Non sapeva cosa fosse, ma era sempre lì, vera, imminente, inimmaginabile”. Alla mancanza di un luogo in cui riconoscersi, si associano parole (“Hanno tante parole, e tu sai che significano qualcosa, ma non sai cosa, e le tue parole non vanno bene, non sono le stesse, sono diverse, e sono le uniche che hai”) e immaginazione che hanno un valore diverso: “Devi stare attento dove cammini. C’è sempre un sacco di gente qua, soprattutto dopo la pioggia, e molto rumore. Senti le macchine sulle strade bagnate, che partono e si fermano. Senti un sacco di fischi e di clacson, e c’è un sacco di musica chiassosa tutto intorno”. L’identità indiana e americana collidono, si scontrano nella realtà ed emerge, alla radice, la disintegrazione delle culture native: “Se sei della riserva non ne parli molto: non so perché. Mi sa che pensi che non ti aiuterà molto, così cerchi di dimenticarla. Qualche volta però ci pensi; non puoi farne a meno, ma poi ti sforzi di dimenticarla. Devi pensare a un sacco di altre cose, e se non lo fai ti confondi. Se tutti venissimo dallo stesso posto, mi sa che sarebbe diverso: si potrebbe parlare, sai, e ci capiremmo”. Tosamah, che con le sue prediche, pare essere un contraltare di Abele, svela tutto il background indiano ricordando un aspetto importante che risale alla nonna: “Aveva compreso che nelle parole e nel linguaggio, e solo lì, poteva esistere in modo completo e perfetto”. Le parole sono soprattutto canti, da cui proviene lo stesso titolo di Casa fatta di alba, e di conseguenza “il semplice ascolto è fondamentale per il concetto di linguaggio, e ancora più fondamentale del leggere e dello scrivere”. I contrasti sono fortissimi dato che “una simile vastità favorisce l’illusione, una forma di illusione che comprende la realtà, e dove esiste nascono sempre stupore ed allegria”. Condensati nella fitta scrittura di N. Scott Momaday i serpenti a sonagli, i falchi, i lupi e i coyote, la vita dentro e sopra i canyon (memorabile la scena della caccia all’aquila), la wilderness in generale e gli esseri umani, servono a “vedere il nulla, il nulla assoluto. Vedere oltre il paesaggio, oltre ogni forma e ombra e colore, quello era vedere il nulla. Significava essere liberi e compiuti, completi, spirituali”. Da questa visione nascono le pagine più liriche di Casa fatta d’alba che prevede un secondo approdo alle mesas e al deserto: “Di primo mattino la terra giaceva enorme e pigra, riconoscibile soltanto come un tutto, senza alcun rilievo ad esclusione del proprio margine, puro e lucente, fin dove giungeva lo sguardo, e più oltre il nulla del cielo”. A quel punto di Casa fatta di alba, le invocazioni e le promesse si susseguono in cerca degli elementi primordiali, il silenzio e la memoria: “Tutto sarebbe andato bene di nuovo, sai. Ci saremmo ubriacati per l’ultima volta e avremmo cantato i vecchi canti. Avremmo cantato di com’era, di come non c’era nulla intorno, tranne le colline e il sorgere del sole e le nuvole. Saremmo stati ubriachi e, sai, in pace, belli. Dovevamo farlo in un certo modo, in quello giusto, perché sarebbe stato per l’ultima volta”. Quello che rimane è solo una speranza e, ancora una volta, è evocata cantando perché nella Casa fatta di alba più che le parole, conta il loro suono.
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