Il dramma di Willy Loan condensa tutta la visione di Arthur Miller dell’opera teatrale che “non può essere equiparata a una filosofia politica, o almeno non al modo che un piccolo numero, per semplice moltiplicazione, può essere assimilato in uno più grande. Io non credo che nessuna opera d’arte possa non essere diminuita dalla sua aderenza a un programma politico, compreso quello del suo autore, se non altro perché non c’è programma politico, come non v’è teoria nella tragedia, che possa abbracciare tutte le complessità della vita reale. Senza dubbio, l’atteggiamento politico di un autore dev’essere un elemento, e anche importante, nella germinazione della sua arte, ma se quella ch’egli ha creato è arte, per definizione essa deve piegarsi alla sua osservazione anziché alle sue opinioni, o perfino alle sue speranze”. Morte di un commesso viaggiatore contiene tutti componenti elencati e ribaditi da Arthur Miller, comprese le variazioni stilistiche, nel complesso equilibrio tra una rappresentazione comica e il suo sprofondare in tragedia. Le difficoltà di Willy Loman non sono solo le forche caudine imposte dal lavoro e dal mercato, che lo spremono fino all’osso, nutrendolo di ambizioni e consumandolo, e dalla famiglia che lo assedia con le richieste e le frustrazioni. La moglie Linda, che cerca di proteggerlo, e i figli, inconcludenti e immersi in progetti senza via d’uscita, sono un’ulteriore gabbia e i dialoghi, sferzanti, li ritraggono alla perfezione. Il vero problema di Willy Loman è appartenere a una stagione che ormai è svanita e ritrovarsi nel suo autunno senza nemmeno accorgersene, incapace persino di rendersene conto, tanto da rifiutare un’esigua, ma concreta proposta d’aiuto e, per non farsi mancare nulla, continuando a mantenere il legame con un’amante che lo aspetta in qualche camera d’albergo. Willy Loman resta sospeso tra i ricordi di giorni fertili e laboriosi, una quantità di sogni che “fanno parte del mestiere” e le contingenze quotidiane: il frigorifero che non funziona, la macchina che perde i colpi, i conti da pagare e i segnali d’allarme (inascoltati) di un’infinita stanchezza. Arthur Miller inquadra le scene facendole scorrere una sopra l’altra, un movimento che si rende indipendente dalla cronologia e insieme la definisce perché “Willy Loman ha distrutto i confini tra passato e presente, come qualcuno che, alzando il ricevitore del telefono, scoprisse che questo gesto perfettamente inoffensivo ha provocato chissà come un’esplosione in cantina. I risultati previsti delle azioni ordinarie e accettate, e i loro improvvisi e imprevisti, ma apparentemente logici, effetti formano il conflitto fondamentale di questo lavoro e, a me pare, la sua essenziale portata”. La cupa atmosfera che avvolge la Morte di un commesso viaggiatore, fino all’estremo sacrificio e all’epitaffio firmato dalla moglie (“Abbiamo pagato tutti i debiti”) lascia inciso sul proscenio, dove “le torri dei grattacieli si stagliano nella luce”, un monito fatto di domande “le cui risposte definiscono l’umanità e il giusto modo di vivere affinché il mondo sia una casa e non un campo di battaglia, o una nebbia in cui spiriti incorporei s’aggirino in un eterno crepuscolo”. Cala il sipario e rimane un’amarezza profonda, che va oltre la sconfitta di un uomo, un marito, un padre, riguarda proprio l’inesorabile senso unico di quel “way of life”, e fa di Morte di un commesso viaggiatore un classico moderno. Obbligatorio.
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