Questa selezione di liriche che, dal 1975 al 2001, attraversa un periodo consistente della poesia di Joy Harjo mette in luce una voce singolare, non sottomessa, ricca e coraggiosa. Capace di ricordare che se, all’inizio, “volevamo solo parlare, sentire una qualche voce per rimanere vivi” (Chiamala paura), con il tempo è cresciuta la certezza che “continuiamo a respirare, a camminare, più piano ora, con le nuvole in vortici dell’aria sopra di noi. Cosa possiamo dire per comprendere meglio di quanto già abbiamo capito?” (Anchorage). Il persistente uso della prima persona plurale, che diventa predominante ed esplicito in Promessa di cavalli blu (“Noi siamo una piccola terra. Non è una cosa semplice. Alla fine noi saremo polvere insieme, da usare per una casa, fermare un’inondazione o coltivare cibo per quelli che non ricorderanno mai chi fummo, o mai sapranno della furia del nostro amore”) è un tratto che rimanda sia alle caratteristiche native, sia alle peculiarità femminili, rese chiarissime in Per Alva Benson e per coloro che hanno imparato a camminare: “E noi proseguiamo, continuando a partorire e a guardare noi stesse morire, sempre e di nuovo. E la terra che ruota sotto di noi continua a parlare”. Le immagini danzanti di spiriti, alberi e animali, di tribù e famiglie, dello Scheletro dell’inverno o di un’Orsa bianca, di Bird alias Charlie Parker (“A volte sopravvivere è un salto nella pazzia”), dei sogni e delle preghiere e delle cerimonie nell’oscurità e nella luce e dei “ruderi indiani” sono “poesie viventi” che si nutrono di simboli per evocare “la storia fantastica e terribile” di una sopravvivenza. Una lingua tortuosa, sensibile, speziata che ha una sua precisa identità perché, secondo Patricia Clark Smith e Paula Gunn Allen, “ciò che vive nell’opera della Harjo è che tutto il paesaggio che incontra di volta in volta ha un’identità, una vitalità e un’intelligenza particolari. Vitalità e intelligenza nella natura che sono del tutto diverse dalle emozioni che un poeta angloamericano proietta su di esso: la vita nei paesaggi della Harjo fa sì che le poesie siano scritte al di fuori di un mero tentativo di compenetrazione”. I richiami fortissimi vanno oltre le radici native: consapevole che “c’è qualcosa più vasto della memoria di un popolo espropriato” (Grazia) e , nello stesso tempo, che “ci sono altre parole in altre lingue, sempre in movimento” (Qualcuno sta parlando), Joy Harjo tesse una ragnatela di “impulsi” e “frammenti” che hanno la sequenza ritmica di un assolo di sassofono, uno strumento che “può complicare le cose” e il tono e l’atmosfera che sfiorano L’ultimo canto: “L’unico modo che conosco per respirare, un canto antico, mia madre sapeva che era nato da una storia intessuta di alta erba umida nel suo grembo, e non conosco altro modo se non avvolgere la mia voce con canti estivi di grilli in quest’aria umida e notturna del sud”. Spesso sono racconti distillati in versi, appunti di viaggio (compreso l’omaggio a New Orleans) e corrispondenze da crinali e frontiere, compresi quei “cavalli che piangevano nella birra”. Anche immersa nell’incanto dell’elemento naturale, tra il deserto e l’oceano, la scrittura di Joy Harjo si distingue con fermezza, come declama in Fuoco: “Guardami, io non sono una donna divisa, io sono la continuità del cielo azzurro, sono la gola delle montagne, un vento notturno che brucia a ogni suo respiro”. Ed è con la stessa forza che torna ancora a richiamare un antico senso comune, ribadendo come “non ci siamo mai illusi di essere altro che umani”. Almeno questo, sarebbe da studiare a memoria.
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