Dalva
è uno dei personaggi di Jim Harrison capaci di racchiudere tutto un
immaginario, una realtà, un paesaggio. Bella, volitiva, sfuggente,
figlia di un melting pot sanguinoso, Dalva attraversa il Nebraska e
l’America intera in cerca di un figlio sconosciuto e di se stessa
perché “forse è sempre la stessa storia: cerchiamo di tirare
avanti a vivere, come se prima fossimo vissuti nell’Eden. L’Eden
è l’infanzia che si trova ancora nel paradiso terrestre, o
perlomeno quella parte di infanzia che cerchiamo di farci restare.
Forse per noi l’infanzia è un mito di sopravvivenza”. Nel
seguire le peripezie esistenziali di Dalva, il suo contorto albero genealogico lungo un secolo di storia americana, i ricordi, i cavalli, i
fantasmi e il coraggio, Jim Harrison costruisce un romanzo a
incastri, dove il genocidio dei nativi americani si interseca con
“una misura colma di inevitabile solitudine” che condividiamo
tutti, dove le passioni che servono a mitigare le sofferenze
sortiscono effetti imprevedibili, e comunque, volendo sfuggire alle
menzogne dei governi e delle accademie, è inevitabile il ricorso a
“una curiosità molto vivace ti dà la possibilità di contemplare
delle alternative”. Dalva
si legge a più livelli e l’innato spirito dello storyteller di Jim
Harrison è soltanto l’inizio della galoppata: “Ho ricominciato a
scrivere per sbarazzarmi di pensieri e informazioni e lasciar spazio
a qualcosa di nuovo. Butti giù una mappa topografica, e poi passi ad
altro”. La sua attitudine, qui si trasformerà in una sorta di
modello, a partire da Julip
per arrivare a Ritorno
alla terra e a La
strada verso casa che
sembrano affondare le proprie radici nella parte conclusiva di Dalva,
Ritorno a casa.
Sempre tenendo uniti i due estremi tra cui rimbalza la narrativa di
Jim Harrison. Da una parte la scrupolosa attenzione dello studioso,
della “biblioteca vivente”, convinto che “il nostro mestiere
non è di leccare le ferite della storia ma descriverle. Se da un
lato è una verità fin troppo ovvia che l’uomo non ha imparato
molto di più che l’atto sessuale, e che il fuoco brucia quando ci
metti la mano sopra, dall’altro è compito dello studioso
immergersi nell’analisi del problema, piuttosto che nel problema in
sé. Ci si deve difendere senza sosta dal sentimento, dalle opinioni
pure e semplici, dalla speculazione non fondata sui fatti”.
Dall’altra c’è il poeta appassionato e romantico, ma le due
moltitudini non sono in contraddizione perché “l’uomo parla di
sé con eloquenza come di uno storico, il che significa che studia i
reperti delle abitudini di massa dell’umanità, guerra, carestie,
politica, quel motore che è l’avidità. Quello che siamo, quel che
abbiamo fatto, quel che abbiamo costruito, pesa su di noi come la
forza di gravità: con la stessa forza e di solito senza che ce ne
rendiamo conto”. Dalva
contiene molto di Jim Harrison, che non si lascia ingannare dal
destino delle storie che non vengono raccontate, e sembra incontrare
se stesso quando spiega di non essere capace di vivere o nutrirsi “di
ricordi, trattandoli come fa la maggior parte della gente, il passato
e il futuro come uno spazio incapsulato o un nodulo in cui siamo
entrati e poi usciti, invece che un continuum della vita che abbiamo
già vissuto e continueremo a vivere”. Indimenticabile.
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