Dissacrante, irriverente, innovativo, il Saturday Night Live ha vissuto con l’intensità dei suoi protagonisti, che bruciavano le tappe. Strappare una risata ha avuto un costo molto pesante, un sacrificio che nel corso degli anni ha alimentato i fantasmi del sabato sera. Una storia americana che condensava competitività, entusiasmo, egocentrismo, talento e follia smisurati. Era anche una zona franca all’interno del network dove tutto (o quasi) era concesso in virtù del successo della trasmissione. Secondo Anthony Michael Hall, il Saturday Night Live era “teatro e rock’n’roll e un sacco di altre cose”. Il nucleo di quel turbinio restava la ricerca di una comicità nuova e originale che comportava uno sforzo non indifferente come spiegava Elliot Wald: “È estremamente interessante cercare di essere divertente, ed è ancora più stressante dover essere divertente a scadenza fissa. Devi essere divertente lunedì e martedì. Se sei divertente di giovedì non serve più. Hai a disposizione un tempo prefissato: dal mezzogiorno di lunedì alla lettura dei copioni del mercoledì”. Le testimonianze raccolte da Tom Shales e James Andrew Miller ricreano molto bene il clima del SNL, senza filtri e senza correzioni. È una specie di racconto orale che tiene conto dell’ambizione, della convinzione di spingersi oltre i limiti, delle notti svegli a scrivere e di quelle passate a festeggiare. Le settimane erano infernali, spingere la creatività e andare verso il limite era l’ordinaria amministrazione per personaggi come John Belushi, Chevy Chase, Bill Murray, Eddie Murphy, Dan Aykroyd. Autori, interpret e produttori, tutti insieme con l’obiettivo di stravolgere gli schemi nel nome di un humour spietato. Ricorda Alan Zweibel: “Noi avevamo una regola, sempre che fosse una regola anche quella: quello che ci faceva ridere lo mettevano in televisione, e ci auguravamo che facesse ridere anche la gente a casa, e che lo avrebbero detto ai loro amici. Era un ideale, perseguito con una certa purezza di intenti”. Ben presto il cast del Saturday Night Live si è rivelato una sorta di gang che viveva la promiscuità e la frenesia della creazione dello show, tutti condannati a gioire in pubblico, e a soffrire in silenzio, come spiegava Chevy Chase: “Gli artisti vivono perennemente in questo dualismo: nel divario tra la magia straordinaria di essere amati da così tante persone e così in fretta, e il tarlo segreto di non meritarlo affatto, e che prima o poi lo scopriranno tutti”. Una raffica di scontri, battaglie, improvvisazioni, risate, amicizie, tradimenti e bizzarrie resero leggendario il Saturday Night Live e come dice una delle autrici, Rosie Shuster: “Fu allora che i comici diventarono qualcosa di simile a quello che un tempo erano state le rock star. Le rock star avevano un’energia vibrante, un’immediatezza, e questo show, con le sue vibrazioni di vita pericolosa newyorkese, ti dava lo stesso tipo di immediatezza allo stato puro. È solo che spesso era una vita da veri barboni”. In questo, John Belushi è stato capace di riassumere tutta l’epopea del Saturday Night Live, azzerando la distanza tra la fiction e la realtà. È vero quello che aveva intuito Tom Schiller (“Non sarebbe mai diventato vecchio”), ma non era il solo, e la ricostruzione di Tom Shales e James Andrew Miller non nasconde nulla, partendo dall’osservazione di Robert Klein: “C’era la droga di mezzo. Sulle scrivanie si vedevano piste lunghe metro, non so se mi spiego. Gran parte delle persone riuscivano a gestirla, ma qualcuno ci è cascato dentro fino al collo”. Nel corso del tempo, il clima si è fatto più morigerato, anche se il SNL è rimasto lo show di sempre, compresi i giorni seguiti all’11 settembre 2001, ma rimangono sempre le ombre e i le contraddizioni dell’improvviso e travolgente successo che Chevy Chase spiegava così: “Tutti pensano che diventare famosi sia una cosa magnifica, meravigliosa, bellissima, magica. Ed entro certi limiti è senz’altro vero. Ma è una cosa che fa anche molto paura: una delle esperienze più stressanti del mondo. Qualcosa di simile alla sindrome da stress post-traumatico. Prima sei uno come tanti, e il giorno dopo sei una celebrità”. Da tenere in considerazione.
domenica 25 giugno 2023
giovedì 22 giugno 2023
Henry David Thoreau
Se, in concreto, si tratta di una particolare selezione dei Diari di Thoreau, nello specifico la collezione botanica dei Fiori selvatici diventa un filtro e un’occasione per scoprire un modo diverso di vedere il mondo e per mettere alla prova l’osservazione intesa come strumento per la comprensione del paesaggio e della vita che ospita. Gli appunti sono compilati nel corso di lunghe passeggiate che si snodano tra stagni, rilievi e sentieri, tenendo nota con scrupolo e attenzione delle fragranze in fioritura perché “la natura non ha mai perso un giorno, né un momento” e le mutazioni delle stagioni e del tempo, viste attraverso i Fiori selvatici, rivelano che “nel paesaggio c’è tanta bellezza visibile quanta ne siamo disposti ad apprezzare, non un granello in più”. L’osservazione è una costante inderogabile e le descrizioni del territorio determinano uno speciale scorrere cronologico che Thoreau identifica momento per momento ma che, in realtà, è qualcosa di più complesso: “Il mistero della vita delle piante è affine al nostro, e il fisiologo non deve presumere di poterne spiegare lo sviluppo sulla base di leggi fisiche o meccanismi da egli stesso creati. Non possiamo aspettarci di poter indagare con mano il tempio della vita, sia essa animale o vegetale. E se tentiamo di farlo non scopriremo che la superficie delle cose”. Se nei Fiori selvatici si manifesta quella che qualcuno ha definito “la poesia del mondo vegetale”, Thoreau si spinge oltre e più volte, con convinzione, ribadisce che il risultato dell’osservazione non è dovuto al caso fortuito dell’incontro, quanto piuttosto a una lunga preparazione a quello specifico istante. C’è una bella differenza e, secondo Emerson, la “fiduciosa” attesa della della fioritura è a tutti gli effetti la dimostrazione della sua capacità di precognizione. In effetti Thoreau diceva: “Benché non creda che una pianta possa germogliare in sua assenza, nutro una profonda fiducia nei confronti del seme. Convincetemi che la sotto ce n’è uno e sono certo che germoglieranno meraviglie”. Se questo vale per ogni singolo vegetale, o per l’apparizione di un casuale scoiattolo, a maggior ragione vale per l’osservatore stesso, che diventa a sua volta protagonista: “La lingua del poeta non è forse influenzata dagli oggetti in natura? Egli vede un fiore, è bello ai suoi occhi, lo influenza poiché simbolo dei suoi pensieri, laddove quel che percepisce indistintamente viene maturato in qualche altra fortuna. Gli oggetti che osservo sono in rapporto di simmetria con il mio umore”. Questa è una misura che Thoreau riesce ad applicare persino alle “piante morte e appassite”, visto che “lo spazio che occupano innanzi ai nostri occhi è pari a quello occupato dalla vegetazione verde. Non vivono solo nella memoria, ma anche nella fantasia e nell’immaginazione”. Sambuco o cardo, edera o quercia, frassino o rovo, c’è l’imbarazzo della scelta e così, Thoreau sostiene che “è infinitamente ricco colui che trova nella natura la materia prima dei simboli e delle metafore con cui descrive la propria vita” (e aggiunge: “Se questi portali di salici dorati mi emozionano è perché ritrovo in essi la bellezza e la promessa di un’esperienza di cui desidero varcare le soglie”), ma anche che “nessun uomo compie mai veramente una scoperta, o persino un’osservazione di scarsa rilevanza, ma quando questo succede, egli sarà nondimeno avvertito da una sensazione di gioia. Le capacità celebrano pertanto ogni forma di scoperta”. Thoreau ricorda pure “che possiamo constatare come una sorta di preparazione e di vaga aspettativa abbia preceduto ogni nostra scoperta. Non ci siamo imbattuti per caso in essa, ma sembra che abbiamo pregato e ci siamo esercitati per ottenerla”. C’è una certa biunivocità nelle sue esplorazioni perché “il paesaggio, quando è osservato per davvero, influenza la vita dell’osservatore”. Le conseguenze sono spontanee e Thoreau le annota senza esitazioni: sottolinea la necessità che gli occhi “vaghino liberi”, una condizione indispensabile perché “non riusciamo a vedere nulla finché non ne siamo posseduti dall’idea, e allora difficilmente riusciamo a notare qualcos’altro”. E così tutti i Fiori selvatici sono la dimostrazione reale che “per il poeta è un giardino fiorito ovunque egli vada, o pensi”, un’opportunità che Thoreau estende a chiunque perché “tutto questo, e molto di più, lo vedrete se sarete pronti a vederlo, se lo cercherete”. Alla fine, più che un trattato di botanica, Fiori selvatici è un vademecum per ritrovare la meraviglia e lo stupore.
mercoledì 7 giugno 2023
Ian Zack
Per anni, la sua unica opportunità è stata la strada, e cantava: “A nessuno importa di me, perché sto nel buio e non posso vedere”. Eppure attorno al reverendo Gary Davis si è sviluppato tutto un popolo, come se fosse il catalizzatore di un tempo e di una dimensione storica e culturale. La ricostruzione di Ian Zack vede il reverendo Gary Davis proprio nel cuore di una galassia in cui ruotano gli allievi che pagavano cinque dollari per guardarlo suonare (Roy Book Binder, Rory Block, Woody Mann, Ry Cooder) e il movimento folk del Village tra gli anni cinquanta e sessanta con musicisti (Izzy Young, Eric Von Schmidt, Harry Chapin e, naturalmente, Bob Dylan) e musiciste (Maria Muldaur, Barbara Dane, Janis Ian, Elizabeth Cotten). Tanta attenzione perché, suonando la chitarra alla stregua di un pianoforte, ha espanso le possibilità dello strumento, come riportava Alex Shoumatoff: “Certe volte suonava solo con la mano sinistra, su e giù per il manico mentre schioccava le dita della destra o le sbatteva sulla cassa. Mugolando, urlando, guaendo”. Sempre in bilico tra sacro (spiritual, gospel) e profano (folk, blues) il reverendo Gary Davis ha segnato a fondo la storia della musica del ventesimo secolo ed è anche insolito, da un punto di vista, perché come puntualizza Ian Zack, non ha mai fatto nulla per apparire o per emergere. Diceva a Stefan Grossman, il più assiduo tra i suoi discepoli: “Non serve a nulla offrirsi a qualcuno. Se ti vogliono, ti cercheranno. Puoi trovare un sacco di cuccioli, sai. Appartengono tutti allo stesso cane, ma quando ne guardi uno puoi capire quello che sarà dominante. Puoi scegliere quello. Puoi vedere in lui qualcosa che non vedi nel resto. Non vai tu a offrirti alla gente. Sono loro che faranno l’offerta”. Il suo modus operandi era tanto semplice quanto costante: “Canto canzoni cristiane, cerco di portare un po’ di luce nella mente delle persone su quel che dovremmo fare, come dovremmo vivere. Prima una canzone, poi un’altra”. La conferma viene da una testimonianza lirica di Harry Chapin che lo ritraeva così: “Il vecchio era lì davanti alla vetrina, con il bastone bianco appeso alla cintura. E piegava l’acciaio delle corde della sua chitarra, che sembrava dovesse fondersi. Era l’ultimo dei cantanti all’angolo della strada, facendo il suo dovere negli ultimi anni, la sua voce di gola era come il gracidio di un rospo, ma è lui che ha inventato il blues”. Dopo una vita di una vita di sussidi e di precarietà, violenze e privazioni, dal quartiere di Hayti, Durham, North Carolina approda a New York finché, nel gennaio 1950, l’apparizione al memorial per Leadbelly, si rivela quasi un passaggio del testimone nel quale vengono coinvolti Sonny Terry & Brownie McGhee, Mississippi John Hurt, Son House, Bukka White, Skip James riscoperti e celebrati perché come diceva Dylan: “un po’ della loro vita ti restava attaccata”. Ian Zack ripercorre con scrupolo passaggio passaggio e se la sua storia si può condensare in una frase, (“Sono armato e canterò le mie canzoni”), ogni pagina è fitta di notizie, aneddoti e riferimenti, compresa l’evoluzione dell’industria discografica in quel periodo cruciale. Grazie al primo album di Peter, Paul & Mary, che porterà al successo If I Had My Way, il reverendo Gary Davis si ritrova in condizioni migliori e riesce ad abbandonare la strada. È quando “la canzone funziona”, ed è curioso che la svolta psichedelica, intorno al 1967, sia stata un colpo durissimo per tutti, mentre i Grateful Dead, attraverso Bob Weir, un altro allievo del reverendo, riprendevano le sue canzoni trasformandole, come è noto, in lunghe jam. Buon ultimo sarebbe arrivato Jackson Browne che credeva di avere imparato Cocaine da Dave Van Ronk. La canzone ha una storia lunghissima, ma l’elenco delle versioni seguite alla seminale rivisitazione del reverendo Gary Davis comprende Townes Van Zandt, Davey Graham, Ramblin’ Jack Elliott, Nick Drake, John Martyn, Richard Fariña, Hoyt Axton. C’è solo l’imbarazzo della scelta e la sua non è soltanto una biografia, è tutto un milieu che prende forma, unico e irripetibile, dove la musica e la chitarra sono il centro dell’universo.
venerdì 26 maggio 2023
John Hopkins
Nel cercare di definire una cultura utopica, ma quanto mai necessaria, Henry Miller diceva che “la nostra meta non è mai stata un luogo, piuttosto un nuovo modo di vedere le cose”. È stato un viaggio coraggioso, imprevedibile e per molti versi bizzarro, ma Le voci degli hippies, nella sequenza di articoli tratta dalla stampa underground offrono un interessante spaccato del periodo storico, con una serie di reportage e di testimonianze di prima mano, non filtrate, immediate. Le preoccupanti attività dei pericolosi ribelli che si inalberano per “strani discorsi sulla letteratura” e l’ineluttabile presenza di strutture sempre più oppressive tra “l’espandersi di una burocrazia sempre più incombente e di un tipo di amministrazione sempre più impersonale” sono le due masse critiche che si sono scontrate, dalla fine della seconda guerra mondiale fino all’avvento di Reagan. Da una parte happening, raduni, manifestazioni ed espressioni colorite e fantasiose; dall’altra complotti più o meno oscuri che prevedevano persino campi di concentramento americani per i giovani facinorosi, anno di grazia 1950. È un dato storico e i risvolti giuridici e istituzionali legati a quelle installazioni mettono in evidenza gli abusi di potere in nome dell’ordine costituito, insieme alle perquisizioni delle comuni e alla negazione delle diversità. Il motivo del contendere è la guerra del Vietnam, che è sempre in primo piano, e “milioni di individui che dovrebbero essere liberi sono esposti all’insidia della tirannia da parte di uomini senza onore che si servono dell’apparato più criticabile che si possa immaginare, che comprende il lavoro di corridoio, l’isterismo giornalistico e l’interesse della burocrazia ad autoconservarsi al di là delle funzioni”. È la negazione del futuro che l’apparato politico, poliziesco e militaresco ha perseguito e “ha soltanto prodotto questo presente”, fatto di violenza e di prevaricazione. David Crosby, forse il più affascinante anfitrione dell’epoca, scriveva: “Vedo il presidente Johnson e quegli altri energumeni con i loro mostruosi ego girare in tondo con sordi brontolii minacciosi, come gladiatori in un’arena, gente! Non si rendono conto che il mondo ha la grandezza di una pallina da golf; che non c’è più posto per i loro giochi. Sono come sei persone in uno sgabuzzino. Ognuno ha in mano una bomba e tutti si odiano; poi uno sfila la sicura e tutti saltano in aria. Non è la guerra, è solo una scena disgustosa”. L’immagine rende l’idea e Le voci degli hippies nella forma irrisolta di quella “anarcodemocrazia” in cui si riconoscono cercano invece forme di pensiero che riflettono sulle funzioni della scuola, sui diritti delle minoranze, sul ruolo della musica, dai Beatles al festival di Monterey, e dell’arte in generale. Il dettato è quello sintetizzato da Richard Pine: “Crediamo nell’amore, nella tolleranza, nella comprensione dei giovani, dei vecchi e degli indifesi e di coloro che hanno opinioni diverse”, e questo vale per il sesso e per l’amore, così come per le sostanze stupefacenti: le considerazioni sono lungimiranti e validissime, purtroppo rimaste inascoltate. Le voci degli hippies sono molte e diverse: l’articolo di Alan Katzmann sui Kennedy (Almanacco del povero paranoide) sembra un estratto di American Tabloid, l’apologia di Phil Spector per Lenny Bruce è da incorniciare, l’analisi di Tuli Kupferberg (l’altra metà dei Fugs) è lucidissima quando dice: “Il paese è spaccato in due”, tra un’idea di America e cosa è diventata. Per John Hopkins, “la parola è una capsula vuota in attesa di essere riempita” e allora rileggendole a distanza nel tempo, Le voci degli hippies non appaiono poi così fuori luogo, e andrebbero rilette e ascoltate in un mondo e in un tempo costretti dalla miseria e dalla paura. È ancora David Crosby a cogliere lo spirito che riunisce, grazie a John Hopkins, tutte Le voci degli hippies: “Ogni etichetta ti impiccolisce, ti chiude in un recinto. L’intero universo è la tua casa se tu riesci a crescere abbastanza per viverci”. La destinazione è ancora là, che ci aspetta.
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