sabato 30 dicembre 2017

Lawrence Ferlinghetti

Affrontando con coraggio “il flusso della storia interrotto da catastrofi” (va ricordato che Americus risale al 2004), Lawrence Ferlinghetti celebra, una volta di più, la capacità della poesia di promuovere “una mediazione fra noi e la realtà di ogni giorno”. Ferlinghetti non sono percepisce quanto ne abbiamo bisogno (parecchio), ma individua anche un ideale collocazione, dove la poesia può funzionare da salutare raccordo perché “la nostra memoria saccheggia il passato per fare il presente, sogna attraverso i secoli, baratta il tempo con il tempo dei verbi, mentre la cinepresa-occhio-segreto-della-mente rallegra e preoccupa il genere umano (poiché la pallida agenda del pensiero ci rende tutti codardi)”. La lucidità di questa premessa è più che sufficiente a capire la volontà di Americus nel rendere omaggio a Charles Olson (Maximus è una delle principali fonti d’ispirazione per il titolo), William Carlos Williams (Paterson, in particolare), Ezra Pound, Mark Twain, Gertrude Stein, Thomas Wolfe. Sapendo che ciascuno è “un palinsesto del passato di tutti”, le citazioni sanno essere implicite ed esplicite, persino allegre quando Ferlinghetti dice che Omero è un rapper e Walt Whitman un soulman. I continui richiami all’espressione artistica, in generale, e a quella poetica nello specifico, riconducono comunque alle origini, alla storia e alla colonizzazione di un continente, l’America, vista come “il più grande esperimento terrestre con la più grande chance di creare un essere umano più alto, un’anima o animo incondizionati, gambe storte e sesso incerto, un tipo strambo sulla punta avanzata della civiltà, viso pallido o mestizo a suo agio sui due continenti d’America prodotto da molte culture e calamità”. Dato che la poesia “serve molti padroni, non tutti santi”, la riflessione tende a spostarsi, con un piglio maturo e lirico, dal piano pubblico, verso un tono più personale e crepuscolare visto che “la vita continua a rotolare” e la memoria è “una spola fra passato e presente un treno dai finestrini sbarrati con gli specchi spaccati”. Il refrain del tempo e della storia ritorna come il tema in una suite jazzistica, eppure, anche nel formato ridotto ed essenziale, Americus contiene molto dell’idea di poesia di Lawrence Ferlinghetti, e nella sua parte centrale elenca i tratti, le virtù, le necessità e la natura di una scrittura la cui “funzione è smascherare con luce radiosa” e che “appaga un bisogno e ricompone la vita”. L’incrollabile esuberanza, nutrita da fame e passione, lo porta a decantare quella poesia che “in quanto lingua originaria venne prima della scrittura e ancora risuona in noi, musica muta, musica incompiuta” e con ciò ammirando di nuovo & per sempre la primordiale unità tra musica e poesia, Ferlinghetti si erge tra i “propagatori di epopee velleitarie” e si fa accompagnare da Dante e Platone, Virgilio e Socrate, Cervantes e Thoreau, Dario Fo e Jack Kerouac. Una compagnia di ineguagliabili ciceroni che in Americus trova la sua strada, dove la creatività è sempre in agguato, mentre la poesia si snocciola in un flusso esotico, brillante e contagioso.

giovedì 28 dicembre 2017

Patti Smith

Un ritratto dell’artista giovane con più cose da dire che strumenti per dirle: Babel condensa il periodo più importante di Patti Smith, quello che va dal 1974 al 1978, quando il suo grido di battaglia era, come scriveva in Neo Boy: “Tutto è merda. La parola arte deve essere ridefinita. Questa è l’età nella quale ognuno crea”. Babel risolve l’incognita fecale con una gamma impropria di soluzioni: gran parte delle canzoni confluite in Radio Ethiopia ed Easter, frammenti di prosa, appunti, poesie, stralci di un diario e di un epistolario che sono ancora un work in progress. Sono tempi vorticosi e travolgenti e Babel ne è l’immagine fedele, un riflesso naturale e spontaneo con tutto il disordine e il caos di un’alluvione di parole in cerca di un casa, ancora indisciplinate, non assoggettate, nemmeno uniformi. Un canovaccio che raccoglie l’energia e l’entusiasmo da cui poi Patti Smith ha attinto proiettando la sua scrittura su forme più organiche, limate e adeguate alle riflessioni della maturità ma che in Babel erompe nella certezza che “il potere della bellezza viene sottovalutato”. Nell’irruenza dei vent’anni, Patti Smith mette in mostra con forza sogni e visioni ricorrenti, lo slang delle strade di New York e quell’anelito disperato per l’espressione artistica in ogni sua variante che l’ha sempre distinta. “Il montaggio di esperienze” richiama gli eroi e i punti di riferimento che resteranno inamovibili: Rimbaud, Genet, Brancusi, Bresson, Caruso (“L’opera è verità e Caruso la regina”), Pasolini (“Vittima dei fascisti e di marchettari e della purezza della sua arte”), per affermare con convinzione che “siamo tutti figli di Jackson Pollock”. Sono colonne portanti dell’ambizioso impianto di Babel che si ritroveranno spesso più in là negli omaggi di Patti Smith perché “noi viviamo per un periodo di tempo lunghissimo nella nostra immaginazione”, e quella è la materia di cui ci nutriamo. Lo stile, la forma in sé, risente da una parte di un convitato di pietra che aleggia su ogni pagina, dove tagli e cuciture riportano a William Burroughs, e dall’altra dalla sanguigna urgenza di Patti Smith che lancia segnali inequivocabili: “Ho voglia di muovermi subito, di innamorarmi”. L’anima e l’adrenalina di Babel sono quell’irruenza che poi è sfumata con il suo ritiro dalle scene, la grande bandiera americana che adornava il palco ripiegata un’ultima volta, le chitarre riposte, una famiglia a cui dedicare il futuro. Nell’immediato di Babel c’è il rock’n’roll che “come la scultura, è il corpo solido di un sogno. E’ un’equazione di volontà e visione”. All’appello rispondono l’onnipresente Dylan (e i suoi animali), il Patti Smith Group, Tom Verlaine, i Blue Öyster Cult che riprenderanno Fire Of Unknown Origin, Little Richard e Mick Jagger, o meglio tutto l’universo irraggiungibile dei Rolling Stones con la rilettura di Sister Morphine e la dedica a Marianne Faithfull, figura eminente tra le donne di cui Patti Smith ha celebrato drammi e tributi. I ritratti delle sue eroine, Georgia O’Keeffe, Edie Sedgwick, Giovanna D’Arco, e poi Jenny e Judith, sono parti di un processo di identificazione perché se è vero che “l’arte ha bisogno di luce”, è altrettanto necessaria una voce femminile che, per logica estensione, rimanda a lei. Aveva già capito che “l’artista preserva se stesso. Mantiene la sua spavalderia. E’ intossicato dal rituale così come dal risultato”. Intuizione giusta, applicazione famelica.

martedì 26 dicembre 2017

Joni Mitchell

Una sorta di autobiografia si snoda in tre fitte conversazioni con Malka Marom, a sua volta cantante trasformata in giornalista, e amica di Joni Mitchell. L’occasione è propizia per attraversare mezzo secolo e, da un punto di vista ideale, sono due le canzoni che delimitano Both Sides, Now perché “se il passato e il presente sono intrecciati, le tue azioni recenti mettono in moto ciò che sta accadendo ora. E’ una concatenazione di eventi lunga e misteriosa”. La prima è la celebre Woodstock il cui ritornello (“Siamo polvere di stelle, siamo d’oro, e dobbiamo fare in modo di tornare nel giardino”) è la dimostrazione concreta che “si può sempre riavere la propria innocenza se si provano sessanta secondi di stupore e incanto”. Curiose, paradossali e rivelatrici le circostanze in cui è nato il simbolo di un’epoca così, come le ricorda la stessa Joni Mitchell: “Non so perché Woodstock mi commuovesse tanto. Le prime due o tre volte che l’ho eseguita in pubblico mi sono dovuta fermare, tanto ero presa dall’emozione. Credo fosse perché a Woodstock non c’ero andata ma l’avevo vista in televisione, e mi era sembrata una cosa incredibile, il fatto che in quelle circostanze la gente si fosse aiutata a vicenda”. Un punto di non ritorno si intravede in un verso di Come In From The Cold (l’album è Night Ride Home e siamo già nel 1991) che dice: “Volevo soltanto entrare a ripararmi dal freddo”. Tra questi due estremi, in Both Sides, Now c’è tutto il senso per l’arte di una donna che ha rubato alla vita, lottando con una sensibilità che “è guardata quasi con disgusto dalla società, mentre è una ricchezza, dà tante gratificazioni. Ti permette di sentire cose che gli altri non sentono, come i cani che sentono certi suoni acuti”. Una sfida costante, continua, laboriosa, spesso dolorosa, sempre faticosa, contro “la nostra modernità ignorante” in una delle sue accezioni più banali, ovvero l’industria dell’intrattenimento. La lotta per l’originalità è uno dei temi su cui Joni Mitchell si sofferma spesso e volentieri, sapendo che “le cose grandi arrivano quasi sempre sul ciglio di un errore. Quello che arriva dopo l’errore è spettacolare. Perciò se ti fissi sugli errori ti perdi la magia”. Il confronto con una carrellata di musicisti geniali e molto poco politically correct, che va da Jaco Pastorius a Charles Mingus, da Bob Dylan a Leonard Cohen, le rivela che “in questa società di specialisti, il mio destino è quello di essere considerata una dilettante”, ma forte delle letture di Kipling e Nietzsche, delle visioni di Picasso e Van Gogh, o degli ascolti di Duke Ellington, Charlie Parker e Lester Young, Joni Mitchell è riuscita a capire che “se non possiamo fare a meno di guardare l’illusione, questa si spezza. Sai sempre di star creando un’illusione, non importa quanto ti sforzi di essere sincero”. Saperlo le è servito per costruire un intero vocabolario emotivo che, proprio nelle canzoni, ha trovato la sua espressione: “Uno dei miei interessi principali nella vita è quello dei rapporti umani, delle interazioni e dello scambio di emozioni, da persona a persona, fra individui, oppure su scala più ampia, con un pubblico”. In questo caso specifico, che poi ha occupato gran parte dei risultati del suo songwriting, la voce in diretta di Joni Mitchell (“L’amore è un sentimento molto difficile da tener vivo. E’ una pianta molto fragile, ecco. E’ un sentimento particolare, perché soggetto a tanti cambiamenti. Il modo in cui lo si prova all’inizio di una storia e tutti i cambiamenti che subisce”) e quella nelle canzoni si alimentano a vicenda (“L’amore richiede tanto coraggio, l’amore si prende tanti di quegli accidenti” canta Face Lift) in un flusso inarrestabile che trova nelle parole di Both Sides, Now la sua definizione: “Ormai ho visto la vita da entrambi i lati, vincere o perdere, eppure, chissà come quel che ricordo sono illusioni, cos’è davvero la vita non lo so”. Fin troppo sincera.

domenica 24 dicembre 2017

Terry Southern

Inseguendo il gusto della sorpresa, dello scherno, dello sberleffo, Il grande Guy incarna uno spirito dispettoso e tormentato, che si diverte a irretire, provocare, stuzzicare e spargere zizzania, tutto in nome del denaro, che deve sborsare per rimediare ai danni dei suoi scherzi. Mecenate facoltoso e visionario, con interessi diversificati e risorse economiche a quanto pare illimitate, Guy Grand è annoiato e turbato da quello che è diventato e guardando i suoi colleghi di tante scorrerie finanziarie, si vede come “un riflesso della loro stessa pochezza: membro di club, personaggio da invitare a pranzo, una minaccia, un uomo la cui società rappresentava una promessa e insieme un pericolo”. A quel punto cominciano tutti gli scherzi che costituiscono la trama e la spina dorsale del breve romanzo di Terry Southern e che mettono alla prova molti luoghi comuni: proietta film rallentati e al contrario, paga dei pugili per interpretare la boxe in una chiave davvero inedita e se ne a caccia con un obice da settantacinque millimetri, un’arma impropria perché il rinculo lo sbalza a dieci metri “dove arrivava come uno straccio, ovviamente privo di sensi”. Un colpo è sufficiente a mettere in fuga tutta la selvaggina, e così finiscono anche i safari del grande Guy. Ogni volta le rappresentazioni di quello che, in effetti, è un mondo al contrario, generano stupore, imbarazzo, disorientamento, soprattutto perché non sono chiari i motivi che spingono Il grande Guy a dilapidare una fortuna in quel modo. Finché, di fronte all’ennesima provocazione, qualcuno si chiede: “E se si trattasse di una sana satira dei mass-media?”, domanda si adatta alla perfezione anche per il romanzo in sé. Comunque sia, Il grande Guy continua imperterrito e ogni volta alza il tiro, fino alla creazione di una crociera su una nave di follie, una specie di sontuosa parodia del Titanic, e alla generazione, nel capitolo conclusivo, di una caricatura degli sconti commerciali che scatena orde di famelici consumatori in cerca del negozio più conveniente, che nel frattempo è sparito o si è trasferito dall’altra parte della città. E’ quello che lascia credere il perfido meccanismo studiato da Guy Grand, almeno le folle ipnotizzate dai pressi impensabili “così potevano concludere che non si era trattato di un sogno, non solo, ma che il miracolo era ancora in corso”. La feroce ricostruzione di una società votata ai consumi e all’avidità è sempre mitigata dall’ironia e dalla una leggerezza, anche naïf, volendo, di Terry Southern, sempre disposto a un tono accondiscendente, colloquiale, poco spigoloso, umoristico, come è nella tradizione di Mark Twain o del contemporaneo Richard Brautigan. Terry Southern, in realtà, ha però una percezione critica e caustica che filtra nelle battute e negli aneddoti di Guy Grand che induce a una seria riflessione sulla concezione stessa del libero mercato, che, proprio nella sua natura, è “capriccioso”. Un modo di dire la verità, ovvero che è molto pericoloso, con una congrua dose di senso dell’umorismo, non a caso, la cifra finale che definisce Il grande Guy