lunedì 16 ottobre 2017

John Williams

Con Augustus, John Williams riparte dove finiva il Giulio Cesare di Shakespeare. Ottaviano, che in quel dramma aveva il compito di celebrarne la conclusione, è il cardine attorno al quale ruota tutto “un mondo concreto, fatto di cause e conseguenze, parole e fatti, vantaggi e privazioni”, come scrive Strabone di Amasia. Il terreno fertile e infido, nello stesso tempo, dove è potuta fiorire la congiura che ha portato all’assassinio di Giulio Cesare. Fin dalle prime avvisaglie, quell’ombra, e quello spettro, determinano il tenore generale di Augustus: anche la verità è ambigua nel gran teatro romano, perché come sentenzia il Giulio Cesare di Shakespeare “l’abuso della grandezza si ha quando scinde il rimorso dal potere”. Per Ottaviano accade ben presto, una volta tornato nel “mondo di Roma, dove nessuno può distinguere gli amici dai nemici, la dissolutezza è venerata più della virtù e i principi sono ormai asserviti all’egoismo”. La definizione è della saggia madre, Azia, che è convinta che sia “ancora possibile condurre una vita onesta nell’intimità dei nostri animi e dei nostri cuori”. Un’asserzione che suona più come un accorato desiderio, che una flebile speranza: il groviglio di cospirazioni, manipolazioni, scontri e guerre civili che ha generato il passaggio dalla repubblica al principato mostra un giovane e fragile Ottaviano diventare un Augusto malato e cinico, a dispetto delle conquiste e delle riforme. Solo che John Williams delinea la sua figura attraverso le numerose prospettive e i punti di vista di quell’eterogeneo epistolario che è, nei fatti, Augustus. L’effetto ottenuto è sorprendente perché le parole viaggiano veloci, la forma immaginata e costruita da John Williams scorre come una lezione di storia orale, e si fa trascinante perché il linguaggio, limato e levigato, viene reso adeguato all’epoca, ma asseconda anche un ritmo moderno, e senza voli pindarici o concessioni alle leggende. Augustus è un romanzo monumentale, eppure fluttuante: non ha un centro di gravità preciso, un protagonista assoluto (sì, è Augusto, ma celebrato da un’orchestra di voci) e il senso della storia è soverchiato dalle trame romane, continue, assidue, spietate. Quando il matrimonio, il divorzio, l’adulterio, il pettegolezzo diventano forme di dialettica per e contro le tante fazioni che si contendono i resti della repubblica, vale quello che dice Giulia, la figlia di Augusto spedita in esilio: “Tutto è divenuto oggetto di una curiosità indifferente, e nulla ha più valore”. John Williams si prende ogni libertà necessaria per sostenere la singolare struttura di Augustus, poi si porta a ridosso degli eventi storici con circospezione, e sempre attentissimo allo spirito del romanzo, lascia che siano i personaggi a dominarlo. “Il potere sarà ciò che vorremmo che sia” dice Quinto Salvidieno Rufo, ma non è mai così, anche se ogni gesto è celebrato alla spasmodica ricerca del consenso, “in nome della prosperità e del benessere dei cittadini e della gloria della città”. Come scriveva Don DeLillo in Rumore bianco, “tutti gli intrighi tendono alla morte. E’ la loro natura”, e quando gli onori diventano soltanto la cornice di un’infinita malinconia restano le sibilline parole di Atenodoro, filosofo e maestro di Ottaviano: “C’è il rischio che certi barbari diventino perfino più romani di noi, che occupiamo ancora il cuore della patria”. Non è soltanto quello: nel Giulio Cesare, Cassio si chiede “in quante età future questa nostra scena sublime verrà recitata, in stati ancora non nati e con accenti ancora sconosciuti”, e, alla luce di Augustus, forse non si riferiva soltanto al rappresentazione in sé, ma soprattutto al dramma intrinseco all’ascesa e alla caduta di ogni impero, di ogni potere.

martedì 10 ottobre 2017

Val Brelinski

Succede tutto in una famiglia di donne, quattro (tre figlie e la madre) a uno, il padre, Oren, insegnante di astronomia, che corre di notte attorno alla casa (con rifugio antiatomico annesso). La bizzarra consuetudine è l’unico, innocente strappo a un insieme di regole dettato dalla religione, una specie di costituzione locale e un recinto insormontabile, ad Arco, Idaho. La vita è dettata più che altro dai concetti di “insieme” e “solito” e la stessa famiglia Quanbeck è costretta all’interno di queste definizioni, solo che i due cardini vengono presto divelti dagli eventi e le crepe che si generano saranno insanabili. Tra le figlie, Jory è insofferente, “sta imparando cos’è la vita come facciamo tutti, nel modo più duro”, e Grace, la primogenita, è una ragazza determinata, ossessionata dalla fede e dall’idea della fede come “testimonianza”. Segue alla lettera le indicazioni bibliche e, sentendo un’estrema vocazione, parte per una missione in Messico. Il suo distacco è la prima frattura, nemmeno la più grave. Quando torna è incinta, certo non per bontà divina, e anche se Grace considera la maternità un dono, la tragedia a quel punto incombe già. Un figlio in arrivo da un padre sconosciuto è visto come un pericolo per la famiglia Quanbeck e in particolare per la famiglia all’interno di una comunità ristretta (anche di vedute) di un minuscolo paese negli sterminati territori americani. Il padre non mette in discussione nulla, né la fede, né la natura provinciale di Arco, né il fragile equilibrio di una famiglia complicata e decide di far sparire l’inconveniente. Trasferisce Grace e Jory non troppo lontano, ma abbastanza da essere nascoste, ospiti della saggia Hilda Kleinfert, dove “era come se certe cose importanti fossero state cancellate, o non fossero mai esistite”, L’isolamento delle ragazze comporta un’intricata svolta nella storia. Nella nuova scuola, non confessionale, Jory, “era una strana, e il suo destino consisteva nel restare relegata ai margini di tutto per sempre”. A lei, rimane l’amicizia con l’enigmatico Grip, l’estemporanea scoperta dell’alcol e degli acidi e di modelli molto distanti dai dogmi della dottrina. Con la scomparsa di Grace, nella stessa notte in cui Jory celebra la sua emancipazione, partecipando alla festa di Halloween con un “vestito da paura”, il delicatissimo status quo, già compromesso dalla gravidanza, si sfalda del tutto, ma da quel punto in poi rivelare di più non avrebbe senso. La manovra a tenaglia di Val Brelinski comincia a stringersi attorno a tutti i protagonisti, a partire dalle due sorelle: la costruzione è molto accurata, la delicatezza con cui descrive il recinto concentrico della fede, della small town e della famiglia merita senza dubbio un applauso perché riesce a trasmettere un senso di claustrofobia anche negli immensi spazi aperti dell’Idaho. Un piccolo indizio (non casuale, come si scoprirà) è il rifugio antiatomico tenuto funzionante nel giardino di casa che, come un presentimento, resta lì fino alla fine, simbolo plastico e incombente dell’inguaribile malinconia del padre. In effetti, le figure maschili non sono molto fortunate: se Oren è tanto presente quanto distante nel comunicare le sue ossessioni, all’opposto, Grip, segue l’istinto (l’ha sempre fatto) certo che “la gente fa quello che vuole e poi le cose succedono di conseguenza”. La famiglia non funziona, la fede resta un mistero e se la scrittura di Val Brelinski è precisa e accomodante e la progressione del racconto lineare ed esponenziale, lo sviluppo degli argomenti che lascia scivolare ha tutta una sua particolarissima dinamica, a partire dallo scorrere del tempo e dalla sua percezione, dalla dimensione dell’infinito nel cielo, nella fede e in piccoli momenti di magia perché “forse era il tempo a essere così: un lungo momento che si espandeva oltre l’orizzonte, come il cielo di vetro verde che si estendeva davanti, sopra, tutto intorno. O invece era tutto molto piccolo, il tempo, piccolo nel senso di molto concentrato, come un minuscolo, denso buco nero e anche le cose diventavano troppo, troppo pesanti dentro il buco nero”. Un libro avvolgente come una preghiera, che nella sua atmosfera lascia molto da indagare: tante domande, poche certezze, una lunga scia di dubbi.

giovedì 5 ottobre 2017

Lewis Mumford

A ben guardare, la forma delle utopie è ricorrente nel richiamare l’attenzione alle necessità collettive. Istruzione, lavoro, bisogni primari di sussistenza e di convivenza civile, sono le urgenze che ne delimitano la prospettiva ed è proprio quella l’identificazione preliminare di Lewis Mumford: “Quasi tutte le utopie criticano implicitamente la civiltà in cui nascono, e sono allo stesso tempo un tentativo di scoprire le possibilità che le istituzioni esistenti o ignorano o seppelliscono sotto la crosta delle vecchie usanze e abitudini”. Nel ricostruire la Storia dell’utopia, Lewis Mumford premette di tenere conto “in ogni schema, delle ribellioni, delle opposizioni, dei conflitti, del male e della corruzione, poiché sono presenti nella storia di tutte le società”. E’ nell’etimologia stessa della parola, che va cercata tra i vocaboli greci “eutopia “(il buon posto) e “outopia” (nessun posto), dove l’utopia si colloca in una terra di nessuno di trasformazioni e di cambiamenti. Nell’introdurre uno studio altrettanto approfondito, Il desiderio chiamato utopia, Fredric Jameson scriveva: “La forma utopica è di per sé una significativa riflessione sulla differenza, sull’alterità radicale e sulla natura sistemica della totalità sociale. Nonè possibile immaginare un qualsiasi cambiamento fondamentale della nostra società che non sia dapprima annunciato liberando visioni utopiche come tante scintille dalla coda di una cometa”. La percezione resta infinita e indefinita e il paragone astronomico non è una coincidenza, visto che ricorre anche con Lewis Mumford quando dice: “Noi dormiamo sotto la luce di stelle che da molto tempo hanno smesso di esistere, e prendiamo come modelli di comportamento delle idee che non sono più reali nel momento stesso in cui smettiamo di credervi”. All’elenco dei bagliori collezionati dalla Storia dell’utopia non sfuggono le tesi di Tommaso Moro, La città di Dio di Sant’Agostino e La città del sole di Tommaso Campanella, Campi, fabbriche e officine di Pëtr Kropotkin, e la Nuova Atlantide di Francesco Bacone, e tutte le ipotesi, dal villaggio alla nazione, dall’economira rurale nelle vallate alla rivoluzione industriale nelle città, da “erewhon” a “nowhere”, da Freeland a Coketown, “il mondo delle idee”, diventa “un organico insieme di parti suscettibile di migliore organizzazione, di cui è importante mantenere l’equilibrio, come in ogni organismo vivente, al fine di favorire la crescita e il progresso”. L’utopia non è un paradiso minore, neanche quando riguarda la “fuga”o la “ricostruzione” e l’inventario (e la cernita) di Lewis Mumford non è un elenco di luoghi impossibili e fantastici, ma la constatazione che “quando vi è una frattura tra il mondo reale e il mondo superiore dell’utopia, noi ci rendiamo conto della parte che la tendenza all’utopia ha giocato nella nostra vita, e vediamo la nostra utopia come una realtà diversa”. La panoramica compresa nella Storia dell’utopia si conclude con un proposito molto intonato perché se “appare chiaro che in un mondo così pieno di frustrazioni come quello reale, siamo costretti a svolgere una gran parte della nostra vita intellettuale nella sfera dell’utopia”, il cui destino ultimo è comunque rendere più “tollerabile” quel mondo, è altrettanto evidente che “il compito più importante che ci aspetta in questo momento è di costruire castelli in aria”. Sposta il baricentro dall’utopia come necessità, come “mito sociale”, a momento ineluttabile del pensiero, a riprova e a conferma che l’unica utopia possibile è l’utopia delle idee.

lunedì 2 ottobre 2017

Sarah Manguso

Andanza è un formidabile peccato di omissione. E’ la fine di un diario, ma il diario non c’è, almeno non qui dentro. E’ il diario di un’idea del diario, come se fosse il futuro del diario stesso. E’ uno specchio che rimanda un’immagine al contrario, come la pipa nel famoso dipinto di René Magritte, (questo non è un diario) o un rebus come la rosa nel poema di Gertrude Stein (un diario, è un diario, è un diario). Solo in apparenza, però, la forma è autosufficiente perché nel momento stesso in cui Sarah Manguso sostiene di scrivere “per poter dire che stavo prestando davvero attenzione”, concede al lato pubblico una precisione assurda. Un diario, che ci sia, o no, vuol dire un giorno dopo l’altro, un calendario e le sue stagioni, ma “il tempo non è fatto di istanti, li contiene. E nel tempo c’è molto altro”. Un minuscolo aneddoto, quasi un segnale ancora intrappolato dentro la vita reale, funziona da esca: “Intrappolata a una festa a chiacchierare con due ragazzi, avrei tanto voluto aspettare in quello stesso corridoio fumoso per quindici anni, per capire cosa avrebbero detto a quarant’anni”. La distanza non è legata soltanto alla dimensione temporale, l’introspezione dell’Andanza prevede scansioni più complesse e profonde, come dice Sarah Manguso: “Vivere sognando il futuro è un difetto del carattere. Ma anche vivere nel passato, immersi nella nostalgia, è un difetto del carattere. Vivere nel presente è considerato ammirevole dal punto di vista spirituale, ma ignorare le lezioni della storia o non riuscire a pianificare il domani sono visti come difetti del carattere. Avevo bisogno di annotare il momento presente prima di poter entrare in quello successivo, ma volevo anche capire come abitare il tempo senza inciampare in un difetto del carattere. Ricorda le lezioni del passato. Immagina le possibilità del futuro. E resta nel presente, l’unica porzione di tempo che non richiede l’uso della memoria”. Sarah Manguso deve aver letto Sant’Agostino quando diceva che “il presente del passato è la memoria”, ed è dove “il ricordo germoglia. Lasciato solo nel tempo, cresce”, mentre “il futuro succede. Continua a succedere”. L’argomento, che ha tutti i suoi risvolti fisici, filosofici e religiosi rimane sospeso, e Sarah Manguso lo affronta con mille scrupoli: crea uno spazio in cui il tempo resta fugace, immobile durante il racconto del parto, altrove solo un passaggio, un riflesso che non viene mostrato, perché, come diceva Shakespeare nell’Enrico IV, “la parte migliore del coraggio è la discrezione”. Il suo piccolo libro è tutto nel “privilegio di mettere la spunta alle cose” perché in effetti “il tempo ci punisce togliendoci tutto, ma ci salva prendendosi tutto”. Il paradosso lascia soltanto un’opzione tanto che “l’obiettivo è la creazione di un sistema di espressione puro, senza la distrazione di uno stile. Una forma che nessuno noti, la creazione di qualcosa che ricordi la sensazione pura e non il veicolo di una sensazione. La lingua come pura esperienza, pura memoria”. Il problema è che, come scriveva Alice Munro, “quando si scrive si fa una cosa di cui gli altri non sanno niente, e non se ne può parlare, si torna di continuo al proprio mondo segreto per poi fare cose diverse nella vita normale”. E’ stato proprio così per Sarah Manguso (“Ho nascosto tutte le cose che ritenevo importanti lì dove credevo che nessuno avrebbe mai cercato”) con l’idea di raccontare il diario e nello insieme di occultarlo con ogni precauzione, ha dimostrato con Andanza che scrivere prevede un tempo perduto, l’oblio, il fallimento ed è un “andare” (parecchio) impervio, quindi indispensabile.