giovedì 30 agosto 2012

Kurt Vonnegut

Dio la benedica, dottor Kevorkian è una minuscola raccolta di interviste impossibili vennero trasmesse come piccoli sketches radiofonici. Il tono è surreale e tagliente, a partire dall’antefatto che sta alla fonte dei rendez-vous di Kurt Vonnegut. Dalla cella per le esecuzioni capitali del carcere di Huntsville, Texas e con la collaborazione del dottor Jack Kevorkian, che ebbe il suo quarto d’ora di fama come sostenitore dell’eutanasia e del suicidio assistito, Kurt Vonnegut riesce ad attraversare il confine tra la vita e la morte quel tanto che basta per poter tornare indietro e raccontare chi ha incontrato. L’elenco dei protagonisti è variopinto ed esagerato, come è proprio nello stile di Kurt Vonnegut. L’interlocutore può essere Shakespeare (“In sostanza, ha mandato il vostro inviato a farsi fottere”) o James Earl Ray, il killer che uccise Martin Luther King, Mary Wollstonecraft Shelley (il cui Frankenstein è un’inevitabile fonte di ispirazione), un genio della scienza come Isaac Newton o un raro socialista americano, Eugene Victor Deb (“Finché esisterà una classe inferiore, io ne farò parte. Finché esisterà chi infrange la legge, io sarò dalla sua parte. Finché ci sarà una persona in prigione, io non sarò libero”), un verificatore dei record aerostatici per l’associazione aeronautica nazionale o un emerito sconosciuto e lo spirito è sempre quello: divertito, ironico, pungente e a suo modo cordiale perché come dice lo stesso Vonnegut: “sono un umanista, il che significa, in parte che ho cercato di comportarmi decorosamente senza pretendere, dopo che sarò morto, né ricompense né castighi”. Però, anche nelle ridottissime dimensioni (non sono nemmeno cento pagine) Vonnegut non rinuncia a colpire duro e con precisione, spiazzando con un colpo basso sempre pronto dietro l’angolo. Succede nell’incontro con Salvatore Biagini, uno sconosciuto in pensione sacrificatosi per salvare il proprio cane dall’assalto di “un pitbull scatenato di nome Chele”. A parte i convenevoli e i dettagli dell’aggressione quando arriva la conclusione, Kurt Vonnegut (è più forte di lui) non riesce a rinunciare alla sua (sacrosanta) verve polemica: “Ho chiesto a questo eroico amante degli animali cosa si provava a essere morti per uno schnauzer di nome Teddy. Salvatore Biagini è stato filosofico. Ha detto che era mille volte meglio che essere morti per niente nella guerra del Vietnam”. Kurt Vonnegut non resiste nemmeno alla tentazione di un colloquio con il personaggio che ha incarnato il male nel ventesimo secolo e risolve l’incontro con Adolf Hilter in modo irriverente e sarcastico. Si concede una meritata autocitazione (volendo, scaramantica) anche nell’incontro con il suo alter ego Kilgore Trout, dove comunque non rinuncia agli strali di una caustica conversazione riguardo la pulizia etnica e l’intervento della NATO in Kosovo. Per concludere poi con la classica citazione di Jean Paul Sartre, “l’inferno sono gli altri” che vista l’ambientazione e l’atmosfera degli incontri suona come uno sberleffo pop, allegro e geniale.

martedì 28 agosto 2012

Thomas McGuane

Con Il grande silenzio, Thomas McGuane spiega la pesca, la pesca con la mosca in particolare, con una passione che ne fa una questione di vita o di morte. E’ proprio il trasporto con cui si dedica nel raccontare la pesca, a rendere Il grande silenzio, che in effetti è una parte consistente della sua autobiografia, in qualcosa di più importante. Per dire: alla mosca, ovvero all’esca, Thomas McGuane dedica ampi squarci della sua attenzione (e della scrittura, che è sempre brillante), tanto da riuscire a essere coinvolgente anche con un argomento specifico e del tutto particolare: “Cerco di costruire mosche che mi faranno pescare meglio, cerco di pescare più di frequente, di sognare pesci quando non posso pescare, di ricordare a me stesso che devo fare tutto il possibile per rendere il mondo più accogliente per i pesci e, in ultima analisi, per progredire ulteriormente così da diventare un pesce io stesso”. Per lui la pesca non è un hobby, non è un secondo lavoro e non è una via di fuga. Può essere una metafora o un particolare momento della vita, con un catalogo di dettagli molto vivi, di ricordi da conservare (“In realtà, anche se mentre scrivo queste cose sono trascorsi molti anni da allora, quei momenti sono ancora vivi nella mia mente. Che meraviglia possederli”), di storie, luoghi, persone, viaggi e (tanti) pesci da raccontare. Negli appunti giornalieri di Thomas McGuane affiora un’ossessione coltivata con tale, minuziosa dedizione da trasmetterla alla fine anche al lettore che non è mai stato sintonizzato su ami e canne, lenze ed piombe, trote fario e salmerini, stagni e torrenti, laghi e mare aperto. Basterebbe occuparsi di qualsiasi cosa con un decimo delle motivazioni che Thomas McGuane riversa nella pesca e il mondo sarebbe di sicuro un posto migliore. La cura, la curiosità, il meticoloso assemblaggio dell’incontro con i pesci e con gli uomini, la sportività (vera e sincera) verso entrambe le specie formano e alimenta con Il grande silenzio un modo per ritrovare un rapporto con se stessi (“Le condizioni meteo esistono a prescindere, e dopo aver percorso un certo tratto di vita è corroborante contemplare le molte cose che per esistere non hanno bisogno di te”), con la natura (“Soltanto osservando la natura ci è possibile recuperare la visione dell’eterno che ha consolato i nostri antenati”), tutto sommato con la vita (“Mi domandai come sarebbe stata la mia vita se avessi saputo a dodici anni che a cinquantacinque avrei vissuto una giornata da venti pesci”) e con il tempo (“Il nostro atteggiamento verso il tempo ci pone in conflitto con la società di cui facciamo parte”). Attraverso la pesca e Il grande silenzio che la sottolinea, Thomas McGuane matura una filosofia o meglio una visione del mondo come dovrebbe essere. Non a caso contiene un punto di vista piuttosto caustico sulla realtà e i suoi aridi dati di fatto, compresa una lapidaria, meravigliosa definizione dell’economia moderna: “Si chiama libera impresa. O caghi o ti togli dal cesso”.

lunedì 27 agosto 2012

William Faulkner

C’è qualcosa di acerbo e sensuale nelle Poesie del Mississippi del giovane William Faulkner, attratto dalle forme femminili non meno che dalle curve della natura e dalle possibilità ancora inesplorate della scrittura. Eccessivo, romantico, trascinante, criptico, il poeta William Faulkner si lascia incantare dalle parole e ricambia e condivide questa gioia con il lettore. Siamo nel campo dei pruriti giovanili, ma la classe è già chiarissima: è vero che a questo stadio le pulsioni e gli eccessi sono gli stessi per tutti, a quell’età, e la morte, e l’amore (e il sesso, soprattutto), ma per William Faulkner si nota già una ruvida precisione che è una certezza. E’ facile dirlo in prospettiva e dopo che la sua voce è diventata una delle tonalità più forti e intense (per non dire immortale) della letteratura americana. Per quanto ancora in embrione, ed espressione di quello che William Faulkner chiama “un desiderio brillante ed elevato”, il tratto è già nitido, pronto, sicuro e le sue Poesie del Mississippi sono un fulgido esempio, con tutti i loro limiti, di un talento chiarissimo e fertile e senza paura. I suoi versi sono imperiosi e floridi, intrisi di quelle colorite associazioni che saranno la fortuna di generazioni e generazioni di scrittori e songwriter. Basta uno dei versi di Marzo per cogliere lo spirito delle Poesie del Mississippi: “Nella notte d’inverno all’uomo può sembrare caldo perdono di vecchi peccati che commise, di incantare la nave del sangue coi feticci, dimentico che lui, essendo nato, ne è erede”. O ancora, un passaggio in Il poeta diventa cieco: “Dal mondo il vento mi soffia sulla guancia, formando colline non viste, e io dispero. Sei forte: odio c’è, e paura su cui fracassare il tuo potere! O lasciami occhi per cercare, per dotare il cuore d’ali attraverso aria cava d’oro”. I richiami agli elementi sono un altro filo che lega le Poesie del Mississippi perché le passioni viscerali di William Faulkner comprendono “l’amore per la natura che ci sta intorno, da scrutare e da trascrivere”. Poi, più in là, sembra quasi accorgersi che lo strumento non sia quello giusto e prima ammette che “ciò di cui credi di morire passa presto: lascia stare quel che non puoi ricucire” e poi sembra arrendersi: “Sia dunque questo il mio destino, se mi scordo che una primavera c’è e sa ancora rompere il mio sonno”. La poesia non concede margini, è un taglio chirurgico e musicale nello stesso tempo e William Faulkner confesserà, in seguito: “Sono dell’opinione che in principio ogni scrittore voglia essere poeta. Quando scopre di non saper scrivere poesia di prim’ordine, e la poesia deve essere di prim’ordine, di gradazioni non ne esistono, allora tenta con i racconti, che sono il secondo genere più arduo. Quando fallisce con i racconti, viene il momento del romanzo. Vale a dire che cerca di esprimere la tragedia e la passione dell’esperienza, della vita, con quattordici parole. Se non va, ci ritenta con duemila parole. Se fallisce di nuovo, gliene serviranno centomila”. Ecco cosa sono le Poesie del Mississippi: un bel fallimento, all’inizio di un grande carriera.

sabato 25 agosto 2012

Richard Matheson

Questa bella antologia copre uno spettro tra il 1950 e il 1971 e ha scopi più che altro introduttivi, vista la vastità della produzione di Richard Matheson. La qualità dei racconti è però tale che vale la pena di una rilettura o, nel caso, è utilissimo per scoprire uno scrittore unico e originale. Il fantastico è, senza dubbio, l’elemento narrativo in cui nuota Richard Matheson, ma gli effetti speciali sono ridotti al minimo, a parte un po’ di sangue che zampilla ogni tanto. Sono altre le dimensioni a cui Richard Matheson si applica perché i suoi temi vengono tutti, in modo diretto ed esplicito oppure in maniera più sfumata, dalla realtà, che è il vero film dell’orrore. E’ l’uomo, e le sue solitudini, a determinare la propria autodistruzione e non c’è esempio migliore di La casa impazzita dove uno scrittore votato al fallimento è trascinato in un abisso dalle sue ossessioni. Le stesse paranoie alimentano gran parte dell’antologia ed esplodono con Il nuovo vicino di casa, un racconto agghiacciante eppure avvinghiato alla realtà psicotica della vita nelle periferie suburbane o in quella “società degli altri”, come la chiama il signor Jasper in La legione dei cospiratori, che coltiva il suo giorno di “ordinaria follia” in modo maniacale. E’ un maestro, forse il migliore nel lasciare in sospeso, soprattutto nell’esiguo spazio delle short stories ed è vero, come ha detto Stephen King, che “non chiede pietà e non ne concede”, però lascia al lettore spazi infiniti e non perché ai suoi racconti manchi qualcosa, anzi. Sono essenziali, proprio perché vanno nel centro del bersaglio e coltivano la tensione con poche indicazioni e molta suggestione, circondando il lettore più che cercando di sconvolgerlo o di provocarlo. Con fare sornione e raffinato, Richard Matheson tiene nascoste le mostruosità, fino in fondo ai racconti, dove soltanto alcuni dettagli le possono rivelare e in questo senso La danza dei morti è un piccolo capolavoro, tanto che sembra l’estratto di un romanzo, dato la quantità di suggerimenti che rimane nell’aria. L’effetto finale, comunque, è lo stesso nel sottolineare la perversione della cosiddetta normalità e la salutare disgressione nella diversità. Come succede nell’ormai classico Duel, figlio di una metamorfosi dovuta all’elementare, al primordiale concetto ed esigenza di sopravvivenza (che ritorna anche con La preda) perché all’improvviso succede che “tutti gli anni di buon senso e di certezze vengono spazzati via e, all’improvviso, ti ritrovi davanti la giungla”. Il peggio, sembra dire Richard Matheson, deve ancora venire e non gli manca una vena di autorironia, forse involontaria, in L’uomo enciclopedico, dove aggiunge un pizzico di perfidia al delirio di un genio improvviso: “E così non c’era niente che potesse fare: nient’altro che sputare in continuazione parole incomprensibili e domandarsi ogni notte perché gli stesse succedendo quella cosa terribile”. Non è difficile leggerci il ritratto di uno scrittore inquieto, capace di seminare il virus del dubbio tra le apparenti certezze dei nostri modern times.