lunedì 30 aprile 2012

Francis Scott Fitzgerald


Le ricette per gli avanzi del tacchino del giorno del Ringraziamento, l’ossessione per Ernest Hemingway, l’età del jazz, la Costa Azzurra, New York, parti della prima stesura di Tenera è la notte e poi Zelda, Zelda, Zelda. Un work in progress inarrestabile, un flusso costante di opinioni, idee, descrizioni come se la scrittura fosse un legame, forse l’unico, con il mondo e con la realtà. L’ipotesi è tutt’altro che remota: il suo rapporto con le pagine da riempire è volitivo, brillante, energico, caotico come è anche nell’intima natura di questi Taccuini, la cui forma mutevole è un riflesso della sua vita e delle sue turbolenze, riassunte nello schema variabile così descritto da F. S. Fitzgerald: “Ubriaco a 20, rovinato a 30, morto a 40. Ubriaco a 21, umano a 31, maturo a 41, morto a 51”. Non c’è via di scampo perché F. S. Fitzgerald ha vissuto la bellezza e la dannazione di vivere la propria vita come se fosse un’opera d’arte, con quell’abbandono e, in fondo, quell’innocenza che gli appartengono in modo esclusivo perché, come si appunta in uno dei suoi Taccuini, “per narrare bisogna essere incauti”. Le parti dedicate all’intima natura della scrittura sono le più coinvolgenti perché fanno scoprire un F. S. Fitzgerald del tutto cosciente dei propri limiti (“Come romanziere arrivo all’estremo di tutta la varietà e di tutta la cattiveria dell’essere umano… Come uomo non arrivo così lontano. Non posso aspirare alla gloria… Ma, se non sbaglio, anche i cavalieri del Santo Graal ne erano solo alla ricerca”), affilato e preciso nell’identificare i suoi punti partenza (“Mostrami un eroe e ti scriverò una tragedia”) e le sue lapidarie conclusioni (“La sola ragione per cui il giudizio dell’artista vale di più è che la sua ragione è veramente rivolta verso la sua opera, la sua opinione sulle varie grandi oscillazioni di uomini e idee è meno disinteressata rispetto alla ragione di qualsiasi altra persona, perché diversamente dai filosofi lui può in qualsiasi momento sconfessare, può affermare di esser più vicino alla natura. Si fa continuamente buffone”). Spietato con se stesso, non lo è di meno con gli altri suoi colleghi, esseri scriventi che “leggono un paio di libri e vedono qualche film perché non hanno nulla di meglio da fare, e poi dicono di essere di una grana più fine di te, e per dimostrarlo prendono il morso tra i denti e galoppano via con un gesto di addio, mansueti quanto un cavallo imbizzarrito”. E’ ancora più duro verso le forme di scrittura applicate al teatro e al cinema quando, in un’occasione esemplare, dice che “gli sceneggiatori scribacchini avevano tolto tutta la vita alla storia, sostituendola con la puzza della vita, una scoreggia, una battuta stanca, una sporca pagliacciata. Come ci riescono”. Il suo senso per la scrittura, ribadito più volta nei Taccuini, è molto chiaro: “Non si scrive perché si vuol dire qualche cosa; si scrive perché si ha qualcosa da dire” e la vera distinzione sul campo “è la capacità di mettere in pratica ciò che si ha nella mente”, altrimenti identicato da F. S. Fitzgerald nel puro e semplice “genio”, che ancora oggi gli va riconosciuto.

sabato 28 aprile 2012

Dexter Filkins

In un manuale dei ribelli, Dexter Filkins trova una frase che lo colpisce: “La guerra è fatta di trucchi”. L’ha imparato vivendola in prima linea: giornalista “embedded”, come ha detto in un'intervista, Dexter Filkins è stato “una mosca sul muro” nei suoi anni tra le guerre in Afghanistan e (soprattutto) in Iraq. L’immagine rende alla perfezione l’idea dell’immobilità e della vulnerabilità della sua posizione, dove ha avuto il privilegio, se così si può chiamare, di vivere senza mediazioni o versioni differite, l’essenza della guerra. Ha sentito gli iracheni (sia i nemici, sia gli alleati) mentire agli americani e gli americani mentire a se stessi e se lo è segnato su almeno mezzo migliaio di taccuini mentre cercava di capire perché lui, per non dire un intero esercito, erano lì: “Non c'era dubbio che gli iracheni mentissero agli americani. Ma le bugie peggiori erano quelle che gli americani raccontavano a se stessi. Ci credevano perché faceva comodo, e perché non crederci era un pensiero troppo spaventoso”. Il paradosso è comprensibile in un conflitto senza quartiere (e certo non in senso metaforico), multiforme e parcellizzato dove la guerra ha separato persino la percezione del giorno e della notte. In un altro reportage dei colleghi del New York Times, il sergente David Safstrom diceva: “Stiamo aiutando gente che cerca di ammazzarci. Di giorno li aiutiamo e di notte ci voltano le spalle e cercano di ucciderci”. Affidarsi alle bugie, di fronte alla palese inutilità di ogni missione, è un modo per convincersi ad arrivare fino in fondo anche perché come scrive altrove Dexter Filkins “i giorni possono morire, ma i sogni esplodono” e in Iraq e in Afghanistan c’era già abbastanza roba che saltava per aria. Dexter Filkins l’ha vissuto in prima persona, e così l’ha riportato in Guerra per sempre. Ha corso nel crepuscolo di Baghdad e ha vissuto l’incubo di Falluja. Ha parlato con le autorità politiche, religiose e militari e ha rischiato di essere rapito, ucciso o ferito dal fuoco amico non meno di quello nemico come tutti in Afghanistan e in Iraq. Ha vissuto con i soldati e ha capito l'assurdità della guerra, del prepararsi alla guerra, del vivere la guerra quando glielo ha spiegato il capitano Sal Aguilar: “Quando ti addestri per questo, ci scherzi su, non vedi l’ora di viverlo nella realtà. Poi quando lo vedi, quando vedi com'è veramente, non lo vorresti rivedere più”. Il suo reportage è fatto così: viscerale, senza correzioni, quasi un diario di bordo, giorno per giorno, notte dopo notte, nel tentativo di scovare un’improbabile barlume di speranza, almeno di riuscire a respirare l’aria che rimane sopra la polvere. Non c’è niente di romanzesco, non c’è l’adrenalina della prima linea che da Hemingway in poi ha distinto la vita dei reporter, non c’è gloria e non ci sono eroi, come se Dexter Filkins avesse riletto le esperienze in Afghanistan e in Iraq solo alla luce della verità di Carl Von Clausewitz ovvero che “La guerra è un atto di violenza, e non si danno limiti alla manifestazione di tale violenza”. Tutto resto, che sia utile, politically correct o meno, è falso e superfluo.

venerdì 27 aprile 2012

A. M. Homes

Claire Roth, moglie, madre e analista con studio nel centro delle nevrosi mondiali (New York) riceve la richiesta di un appuntamento da Jody Goodman, venticinque anni, un inizio di carriera nell’evanescente tran tran delle produzioni cinematografiche. “Ho qualche problema a prendere delle decisioni sul mio futuro”, le dice per spiegare la sua necessità e A. M. Homes lascia galleggiare, non senza una certa classe, quella frase sibillina in cui c’è già tutto In un paese di madri. Per Claire Roth, qualcuno che guarda in avanti e non è prigioniero del proprio passato è già una rarità, se non proprio una fortuna, perché “lo vedeva tutto il giorno che cos’era la memoria per la gente: era il posto in cui si cristallizzavano le brutte sensazioni, i peggiori momenti di una vita, ripassati tante di quelle volte che diventavano lisci e duri come calli o vetri levigati dal mare”. Quando conosce l’insicura e tentennante Jody Goodman, nel rapporto professionale tra analista e paziente si insinua un dubbio che diventa via via una certezza e/o un’ossessione: Claire Roth si convince che Jody Goodman è la figlia che, un quarto di secolo prima, diede in adozione. La figlia che le costò l’allontanamento dalla famiglia, la figlia la cui assenza le insegnò a diventare ciò che è diventata, la figlia che le manca. La suggestione è troppo forte: Claire Roth (ribadire i cognomi in questa storia non è un vezzo, ma un modo per ribadire con precisione ruoli e distanze) si lascia trasportare dal desiderio, allo stesso tempo logico e assurdo, di ricollocare le sue scelte, di ritrovare un tempo perduto ed è l’anfitrione di una galleria di personaggi ipocondriaci, ipersensibili e confusi a cui l’analisi psicologica è appena appena sufficiente a disegnare i contorni della loro precaria percezione della realtà. A. M. Homes torna ancora su un tema autobiografico, quello dell’adozione, ed è innegabile che In un paese di madri sia ben architettato e abbia momenti di grande lirismo. Senza dubbio A. M. Homes è una scrittrice di talento, capace di rendere vivi i tormenti dei suoi personaggi e di trasmettere al lettore, attraverso le loro gesta, la sensazione di disorientamento, di fatica, di vuoto che li distingue. Va detto però che l’ambizione si contorce alla ricerca di una soluzione che il finale non porta. Tutta la costruzione della prima parte, la migliore, e i primi passaggi del terzo libro portano all’idea di un dramma con una svolta clamorosa e le aspettative sono tante, così come è alto il livello della suspense. Molte vengono rispettate, altre si sfilacciano nelle eccessive contorsioni psicologiche dei personaggi, da una parte, e in repentine semplificazioni dei loro caratteri (certi dialoghi piuttosto schematici sono il limite più evidente). Alla fine il lettore non vuole sapere soltanto se l’ossessione di Claire Roth corrisponde alla verità: A. M. Homes illumina bene l’aspetto istintivo e radicale dell’essere o non essere madre, ma proprio sul piano narrativo lascia così, in sospeso, la differenza e chiuso In un paese di madri non si capisce se è finito oppure no.

mercoledì 25 aprile 2012

Stephen King

Anche come saggista Stephen King non rinuncia alla sua verve, alla sua dimensione autobiografica e soprattutto alle sue passioni, le storie dell’orrore e del fantastico. Il racconto di Stephen King attraverso il cinema, la televisione (“Chiudete gli occhi, però, mentre danzeremo attraverso il tubo catodico; ha la brutta abitudine di ipnotizzare e poi di anestetizzare”) e la narrativa (con un continuo richiamo al rock’n’roll, e non è male la sua visione di Ramones e Sex Pistols come di un “ritorno al futuro”) è personalissimo, sempre disposto alla divagazione, convincente e colto. Cita, tra gli altri, Hunter Thompson, Joan Didion, Richard Matheson, Harlan Ellison, Henry James e l’elenco è molto lungo e articolato: Stephen King è un lettore attento alle singole peculiarità di ogni narratore, di cui ha modo di sfogliare i romanzi, sapendo che il minimo comune denominatore è che “la narrativa è fatta di bugie su bugie” e in fondo “il romanzo è la verità dentro la bugia, e nella storia dell’orrore, così come in qualsiasi altra storia, la stessa regola vale oggi così come valeva al tempo in cui Aristofane raccontò la sua storia dell’orrore sulle rane: la moralità è dire la verità come il tuo cuore la intende”. Danse Macabre sembra più una lunga confessione, in questo speculare e complementare a On Writing, una florida dichiarazione di intenti, un omaggio ai suoi maestri e insieme una continua precisazione della necessità e dell’utilità dell’orrore e del fantastico. Senza tentativi di aggrapparsi a un’elevazione particolare, che non è e non sarà indispensabile: il suo è un gusto pop, inteso nell’originaria contrazione di popular, e dal un punto di vista estetico, è facile condividere l’idea per cui “l’orrore davvero diventa una danza, una ricerca continua, ritmica. Ed è alla caccia del luogo dove tu, lettore o spettatore, vivi al tuo livello primitivo”. Il suo scopo, pur nelle svariate forme ed espressioni che assume è una sorta di elaborato esorcismo (“Costruiamo orrori per aiutare a convivere con gli orrori del reale”) e, nella candida ammissione di Stephen King, anche un modo per riciclare la nostalgia perché “l’immaginazione è un occhio, un meraviglioso terzo occhio che fluttua in libertà. Da bambini, quell’occhio ha una vista di dieci decimi. Man mano che cresciamo, essa comincia a offuscarsi… E un giorno il tizio accanto alla porta ti lascia entrare nel bar senza chiederti alcun documento di identità; e se vuoi capire capisci: ormai sei dall’altra parte. E’ negli occhi. Qualcosa che è nei tuoi occhi. Guardateli nello specchio e dimmi se sbaglio. Il lavoro dello scrittore del fantastico, o dello scrittore dell’orrore, è di allargare temporaneamente le pareti di quella visione a tunnel; di fornire quel terzo occhio di una singola, potente lente. Il lavoro dello scrittore del fantastico o dell’orrore è di farti tornare temporaneamente bambino”. La ripetizione dell’avverbio rafforza l’idea della Danse Macabre: un viaggio verso quel tempo in cui le storie (e non solo dell’orrore e del fantastico) dominano su tutto e tutti.