domenica 27 novembre 2011

James Ellroy

L’intreccio è un folle e maleodorante caleidoscopio dove nessuno è innocente e tutti sono impigliati in una rete a maglie fittissime di connessioni e legami e sotterfugi che formano l’aria irrespirabile che porta inevitabilmente a Tijuana. Attrici e politici, trafficanti e poliziotti, giornalisti e truffatori: il magma di Tijuana, Mon Amour mette in scena una California oscura e corrotta, con un’anima tanto avida quando cupa e distorta. Il prologo non consente esitazioni, visto che ci sono quattro morti in tre pagine scarse: un omicidio e tre sentenze capitali sono il giusto avvio di una storia sordida che prende il largo da un presunto caso di corruzione discografica in cui pare sia coinvolto niente meno che Frank Sinatra. La cantante si chiama Linda Lansing e nell’inverno del 1955 spopola con una canzone dal titolo enigmatico, Baby, It’s Cold Outside. L’insistente (a dir poco) programmazione sulla KMPC porta qualche solerte poliziotto a fare le giuste domande a Flash Flood (un nome, un programma), primo indiziato di usare la radio in modo non proprio pulito. Le sue risposte sono lapidarie: “Che vi devo dire? La canzone è ok e Linda Lansing è ok. Nessuno mi ha pagato per dirlo. E’ veramente ok tutta la notorietà che sto ottenendo, gli indici di ascolto della mia trasmissione crescono alla grande; quello che non è per niente ok è come mi tratta la polizia. Certo, è ok sentire che ci sono grossi nomi coinvolti in questa faccenda”. Il tono è sempre questo e James Ellroy, calandosi con decisione in Danny Getchell ovvero il protagonista di Tijuana, Mon Amour, punta dritto verso il fondo, senza ipocrisie politically correct e anzi con un’irreverenza cinica e brutale quando dice che “la libertà di parola dovrebbe essere sempre al servizio della verità, e la verità è il mio mandato morale”. Magari Hush-Hush, il giornale che dirige Danny Getchell, non è proprio esemplare in quanto a coerenza e correttezza: ama pescare nel torbido e comunque se il lavoro non gli manca mai, non è colpa sua. Fedele allo spirito dei giornali d’assalto dell’epoca, e aggiungendoci un pizzico di ulteriore acidità tutta sua, James Ellroy colpisce le frasi con l’accetta, senza pietà per i personaggi, per la storia, per il lettore: un ritmo incalzante, spregiudicato, irriverente e martellante che mette nello stesso vortice Frank Sinatra (nell’occhio del ciclone), Aldous Huxley, Sammy Davis Jr., Martin Luther King, Marylin Monroe, Rock Hudson, Ava Gardner in un tourbillon frenetico e feroce. Svelare qualche dettaglio di questa discesa agli inferi è relativo. La sostanza, per dirla con Danny Getchell, è semplice: “Avevo costruito un cazzo di colossale casino e fatto ammazzare un poliziotto. Mi ero mandato a morte con le mie mani, e magari molto di più”. La colonna sonora ideale, obbligatoria e a dispetto di Frank Sinatra, è Tijuana Moods di Charlie Mingus, più o meno contemporaneo ai fatti raccontati da James Ellroy (è stato registrato nel 1957 a New York) e altrettanto convulso, caotico e intenso. Un’ottima associazione (a delinquere).

mercoledì 23 novembre 2011

Stephen King

Stephen King sorprende sempre quando affronta temi con riconducibili nell’immediato a un genere ben definito, magari l’ambito horror per cui è conosciuto ai più. Forse perché, come scriveva in un passaggio fondamentale per Il corpo e di conseguenza per Stagioni diverse, “le cose più importanti sono le più difficili da dire. Sono quelle di cui ci si vergogna, poiché le parole le immiseriscono, le parole rimpiccioliscono cose che finché erano nella vostra testa sembravano sconfinate, e le riducono a non più che a grandezza naturale quando vengono portate fuori. Ma è più che questo, vero? Le cose più importanti giacciono troppo vicine al punto dov’è sepolto il vostro cuore segreto, come segnali lasciati per ritrovare un tesoro che i vostri nemici sarebbero felicissimi di portare via. E potreste fare rivelazioni che vi costano per poi scoprire che la gente vi guarda strano, senza capire affatto quello che avete detto, senza capire perché vi sembrava tanto importante da piangere quasi mentre lo dicevate. Questa è la cosa peggiore, secondo me. Quando il segreto rimane chiuso dentro non per mancanza di uno che lo racconti ma per mancanza di un orecchio che sappia ascoltare”. E’ una distinzione nitida perché l’ascolto ha una funzione privilegiata nei racconti di Stagioni diverse, proprio a partire da Il corpo, forse meglio noto nella versione cinematografica di Stand By Me, dove le canzoni riescono a dare un senso a quell’ultima estate, all’età, al momento storico, a quella sensazione per cui, parola di Stephen King, “il tempo slittava”. E’ una magia sfuggente perché da una parte ha un tocco e un tatto particolari nel raccontare l’infanzia e soprattutto la sua evoluzione, prevalente nei racconti di Stagioni diverse e dall’altra ha una leggerezza e una fragranza pop e popolare, proprio perché composte da quelle sostanze: il fumetto, il cinema, il rock’n’roll, il baseball. L’uso dei cliché pop e popolari di Stephen King è sempre un modello di riferimento e in Stagioni diverse in particolare, sembrano marcare il territorio e il tempo in cui si muovono i personaggi con una precisione millimetrica. Basta pensare ai manifesti che cambiano nella cella di Andy Dufresne in Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank, a sua volta diventato Le ali della libertà. Sulle notevoli fortune cinematografiche dei racconti di Stagioni diverse serve una riflessione supplementareforse perché sono racconti nati a occhi chiusi, come raccontava Stephen King, con un’incredibile predisposizione per le immagini, per la costruzione delle scene che rimangono impresse in modo indelebile e persino con l’inserto di una storia dentro la storia, come succede in Il corpo. Se hanno funzionato è perché, Stephen King l’ha detto con chiarezza, “se esiste un’andatura nella scrittura, e se la gente mi legge perché trova una storia con una certa andatura, è perché sente che voglio arrivare dove sto arrivando”. La metà è sempre laggiù, dove c’è qualcosa di importante: solo “una frattura in uno specchio”, che è una bella immagine per capire come sentire una storia.

lunedì 21 novembre 2011

William Faulkner

Nelle pagine di Privacy il sogno americano è scavato fino alle sue radici e riportato alla luce nella sua vera essenza, troppe volte dimenticata in favore di una versione più prosaica e senza dubbio più funzionale alle economie e ai mercati. Tenendo ben presente che, come scriveva Archibald McLeish “l’America non è né una terra né un popolo, è la forma di una parola”, William Faulkner scrive con una visione che va oltre i suoi tempi, verso una dimensione profetica, che comincia dalla decadenza dell’american dream, ovvero da quando “sostituimmo alla libertà la licenza”. Erano infinite le prospettive che lasciava intravedere il “nuovo mondo” americano: non soltanto territori e avventure e risorse a perdita d’occhio, ma l’inedita possibilità di seguire “l’aspirazione dell’uomo nel verso senso della parola aspirazione”. Con grave amarezza ed estrema lucidità William Faulkner ricorda che la storia non è andata così e “ciò che udiamo adesso è una cacofonia di terrore e mediazione e compromesso che semplicemente balbetta dei suoni: le parole vacue e altisonanti che abbiamo evirato da ogni significato, libertà, democrazia, patriottismo, e con le quali, infine risvegliatici, tentiamo disperatamente di nascondere a noi stessi quella perdita”. La prosa è inarrivabile e l’analisi del fallimento è nitida, profonda, chirurgica perché Privacy racconta come “quella lunga linea pulita, netta, semplice, costante, diritta, incontestabile, risplendente, da una parte della quale il nero è nero mentre dall’altra il bianco è bianco, è adesso diventata una mera angolazione, un punto di vista che non ha niente a che fare con la verità e nemmeno con i fatti, ma dipende unicamente da dove ci si trova quando li si osserva”. C’è qualcosa di straordinario in questa appassionata e accorata dissertazione, quasi un’arringa senza soluzione di continuità che spinge William Faulkner a proclamare: “Il cielo americano che una volta era l’empireo dei diritti civili, l’aria americana che una volta era il respiro vivente della libertà, sono adesso divenuti un’unica grande cappa di piombo il cui scopo è quello di abolire gli uni e l’altra, distruggendo l’individualità dell’uomo in quanto uomo grazie (a sua volta) alla distruzione delle ultime vestigia di quella privacy senza la quale l’uomo non può essere un individuo”. Il sogno americano, a dispetto dell’iconografia dei luoghi comuni e delle revisioni storiche, non era quello del self made man o della ricerca della felicità a tutti costi, anche perché, come scrive William Faulkner non era “semplicemente un’idea, ma una condizione”. La differenza è determinante perché presuppone un margine di sicurezza tra gli individui e le istituzioni, tra la libertà e il potere. Di più perché all’origine, l’american dream doveva essere “una condizione nella quale l’uomo non soltanto non sarebbe mai stato re, ma neanche avrebbe mai voluto esserlo”. Questo concetto l’avrebbe cantato anche Bruce Springsteen, ma, con il grido di dolore di William Faulkner, le terre americane erano già diventate Badlands

John O'Brien

Una corsa a senso unico verso la morte, inseguendo le sirene dell’autodistruzione da Los Angeles a Las Vegas: un viaggio al termine della notte risoluto, convinto, inarrestabile, un suicidio lento, calcolato, minuzioso che procede per inerzia a colpi di alcol. Sempre più pesante, sempre più duro, illuminato dalle luci di parodie di città costruite nel deserto, ideale e plastico contrappunto della disperazione umana. A Los Angeles “le strade chiamate way corrono perpendicolari a quelle chiamate drive, ma questo dipende da dove finiscono gli angoli retti. Se Wilshire è considerata l’asse delle x, allora a Beverly Hills non è che ci siano poi molte verticali e orizzontali. Se Santa Monica è una x, ecco che non si riesce a distinguere nord da sud. Le strade sono belle, sì, ma non così belle, tutto sommato. La città gode di una fama esagerata”. A Las Vegas ogni porzione di visuale è un luogo diverso e tutti sono uguali: insegne che brillano senza sosta, camere d’albergo che si riempiono e si svuotano in continuazione, notte e giorno, giorno e notte, non c’è distinzione. E’ il capolinea a cui giunge Ben, il protagonista di Via da Las Vegas, con il suo unico proposito di farla finita, nel solo modo che conosce, ovvero bevendo fino a uccidersi. Essendo l’alcol uno dei fattori che l’hanno portato alla dissoluzione la spirale non ha via d’uscita: come dice Ben “forse ammazzarmi è un modo per bere”, e i titoli di coda sono scritti molto prima della fine, con un inchiostro trasparente chiamato tequila. L’unica increspatura al percorso verso la polvere è l’apparizione di Sera in quel rimasuglio sporco e disordinato di vita che rimane a Ben. Sera appartiene a quella categoria per cui gli uomini “possono investire cento dollari nell’affittare per trenta minuti un corpo femminile, e percepiscono questo investimento esattamente per quello che è: un affare di natura commerciale, non un trattato di filosofia”. Una puttana a Las Vegas non fa notizia e la stessa Sera ne è cosciente perché “come un esperimento inficiato alla radice dall’eliminazione di una variabile, la sua situazione richiede un giudizio. Ma lei non riesce a formularne; in realtà, non è convinta che sia davvero importante”. E’ nell’incontro con Ben, che John O’Brien riesce a rendere vivido e miracoloso, che si forma una fragile, provvisoria identità tra due disperati di natura opposta eppure convergente. Per Sera, che vive quella vita lì, “il suicidio, anche uno di quelli goffamente rappresentati negli sceneggiati del pomeriggio, ha l’effetto di irritarla, di farla sentire estranea a una specie che può produrre opzioni del genere”, e il suo improbabile legame con Ben è l’unica, rara scintilla di verità in una triste prigionia di false opportunità. Per Ben, Sera è la sola nota squillante che sente ormai troppo tardi perché “in realtà il dolore è crudele solo quanto il tempo che ci si spende sopra”. Parole che spiegano esordio e insieme addio di John O’Brien: due settimane dopo aver firmato per trasformarlo in film spegnerà le luci, come Ben, e senza avere una Sera accanto.