Succede tutto nel Lower East Side dove ebrei, italiani, sudamericani popolano una realtà cosmopolita che brulica di attività lecite e (più spesso) non, di vita e di miseria. È fondamentale inquadrare il luogo dove approda Louis Berenstein, un outsider che si trascina da un passato complesso ed è avvolto in una nebbia etilica, anche quando capisce che “in quel posto tutti parevano avere una gran voglia di intavolare una conversazione. Eppure, gli avevano assicurato che a New York era possibile scomparire, rendersi invisibili”. Per lui è una sorta di limbo perché se è vero, come è vero, che “il denaro fa diventare americani”, i perdenti, avendosi giocato le proprie radici, si ritrovano lì apolidi ed emarginati, Louis Berenstein per primo: deve nascondere un’esistenza di fallimenti e l’oscurità pare l’ultimo (e l’unico) rifugio possibile, ma negli androni e nei corridoi dei palazzi “sembra che tutti qui abbiano bisogno di compagnia e tutti cerchino qualcuno”. Così incrocia artisti e funamboli, una trapezista e un lanciatore di coltelli, femme fatale di passaggio, derelitti e cuori infranti. Sono incontri fugaci, che durano lo spazio di una sigaretta o del un fondo di una bottiglia (“Non c’è niente di più intimo dell’alcol e della disperazione”) e si consumano tra rimpianti e rimorsi (“Noi non siamo mai alla pari con i nostri buoni propositi”). Il peso della sconfitta che si avverte in “tutti quegli individui, quei personaggi senza senso che stava incontrando adesso, forse non esistevano nemmeno” è soltanto il primo livello che deve affrontare Louis Berenstein. In uno dei tanti dialoghi, abilmente punteggiati da Aaron Klopstein, confessa: “Credo che il problema sia più ampio e riguardi proprio me e le visioni, sa? Faccio già fatica con la realtà”. Dentro un ambiente circoscritto e claustrofobico, le strane processioni di individui che ruotano attorno al passaggio obbligato (e simbolico) di un ascensore, assumono via via forme più evanescenti, lasciando trasparire tutta la fragilità umana. Come se fossero invisibili, gli animali notturni di Aaron Klopstein sono figure molto particolari e inafferrabili, persino per lo stesso Louis Berenstein: “Li sognava tutti quanti come spiriti. Si ritrovava sempre a inseguirli da qualche parte e c’erano ogni volta fenicotteri fosforescenti che lo fermavano. Quei personaggi erano come macchie sfuggenti che la realtà onirica del sogno gli impediva di afferrare”. Per Aaron Klopstein “l’albergo dell’immaginazione” ospita disperati di ogni genere, ma è determinante l’atmosfera delle luci e delle ombre, della “malinconia” e della solitudine, come in quadro di Edward Hopper, proiettata in una dimensione che contiene un paradiso e un inferno, che, il più delle volte, si ritrovano nello stesso microcosmo, mentre il via vai di incontri e riflessi in chiaroscuro tende nello stesso tempo a ipnotizzare e a disorientare tanto Louis Berenstein, così come il lettore. Diceva Aaron Klopstein che “scrivere non è che l’ultimo atto del processo creativo di uno scrittore, nonché il meno importante” e le immagini che si sviluppano prima di diventare parole si moltiplicano in forme fluttuanti perché, lì nel Lower East Side, restano “sogni rimasti nascosti per troppo tempo, sogni che si erano perduti, smarriti seguendo lontani richiami, tamburi di guerra, il dio Marte delle illusioni”. Nel fitto addensarsi delle suggestioni pennellate da Aaron Klopstein, prende forma una certezza, ovvero che “la vita è come un romanzo, in fondo. Una mescolanza di frottole e realtà”, e va bene anche così, all’insegna di una purissima tradizione americana di belli e dannati delle ore piccole che da Scott Fitzgerald a Tom Waits non conosce soluzione di continuità.
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