Tra i riti di passaggio di Leonard Cohen, Il libro del desiderio segna l’addio al monte Baldy, il suo ritiro spirituale sopra Los Angeles e il ritorno alla strada, per un’ultima volta. È un saluto accorato in forma di poesia, dalla provenienza eterogenea e disordinata, ma che trovano una loro organicità nella composizione di Leonard Cohen. Quando, nella Nota per il lettore cinese, definisce Il libro del desiderio una “assurda collezione di riff jazzistici, di scherzi da pop-art, di kitsch religioso e di preghiere soffocate”, non è molto distante dalla realtà. Intanto lascia per sempre Jikan, “il monaco inutile” o “un povero amante della luna”, per avvicinarsi con una certa nonchalance a un’identità che sente con maggiore intensità, quella che si svela nella brusca confessione di Migliaia: “Tra le migliaia di coloro che sono conosciuti o aspirano a farsi conoscere come poeti, forse uno o due sono poeti autentici, gli altri sono finti, gente che bazzica i sacri recinti cercando di darla a bere. Non c’è bisogno che vi dica che io sono uno di quelli finti e questa è la mia storia”. Eppure c’è ancora forza, nel rifiutare “la solita merda per il premio più ambito”, c’è la volontà di parole che incidono, che lasciano il segno, come quando in Stanchi, recita che “siamo stanchi di essere bianchi e siamo stanchi di essere neri, e non saremo più bianchi e non saremo più neri, ora saremo delle voci, voci disincarnate nel cielo azzurro, piacevoli nelle carità della vostra angoscia”. Con la stessa, acuta predisposizione in Troppo vecchio, dice di essere “troppo vecchio per imparare i nomi dei nuovi assassini” e così in, Attraversare un periodo, spiega che “una tristezza da zoo calerà sulla società”, ed è profetico nell’annunciare che “le cose staranno diversamente saranno peggio, saranno più stupide, saranno un po’ così, solo più brevi”. La postilla finale è inevitabile e non è difficile immaginare un sorriso sornione, mentre afferma che “non ci vuole molto a indovinare che non ho alcuna simpatia per il mio tempo”. Ma resta il desiderio al centro di tutto, così come a “a mille baci di profondità”, l’inseguimento di un’ideale di bellezza, che spesso e volentieri Leonard Cohen identifica con l’amore anche se con la sottile ironia che lo distingue sostiene che “studiare l’amore umano è interessante, ma fino a un certo punto”, anche perché sappiamo, come cantava anni fa, che “non c’è cura per l’amore”. La sua dolce ossessione (“Sono bravo in amore sono bravo nell’odio è tra i due che mi sento gelare me la sono cavata ma ora è troppo tardi per anni e anni è stato troppo tardi”) è arrivata ormai al crepuscolo senza che “ci sia stato alcun miglioramento” ed ecco il poeta scende dalla montagna, s’infila nella freeway e scopre che “la città è rapita, ed effimeri edifici vecchi di cent’anni vanno in mille pezzi sulla strada”. Ormai sa che “la vita è una droga che smette di funzionare”, l’ha usata tanto, e a lungo, e la sfrutterà ancora per un ultimo, splendido viaggio, anche sapendo che “una strada non potrà districare o migliorare le circostanze”, ma è convinto di essere diventato un’emozione, a sua volta, tanto è vero che Il libro del desiderio annovera un appello singolare quando Leonard Cohen scrive: “non decifrate queste mie grida, sono la strada, non il segnale”. Resta, in fondo, una vecchia Polaroid, qualche schizzo e il vistoso omaggio a Ray Charles, ovvero “il cantante che io non sarei mai stato”. E così Leonard Coehn se ne va e lascia intravedere la sua silhouette svanire ancora una volta lungo Boogie Street. Pare di sentire quella voce che scava nelle profondità, e dire come un ultimo saluto, “sì, sono sobrio, ma amo volare”. Inarrivabile.
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