Il nucleo vitale della “storia sociale dell’hip-hop di Jeff Chang va cercato nell’assioma di Melvin Webber, autore di The Urban Place And Non-Place Realm, quando scriveva che “è l’interazione, non il luogo, che costituisce l’essenza della città e della vita urbana”. Dal South Bronx di New York al South Central di Los Angeles, sulle macerie metropolitane nasce e si moltiplica una cultura tridimensionale fatta di graffiti, danza e musica. La sua inarrestabile proliferazione segue i cicli della gentrificazione e della speculazione edilizia e della metamorfosi di quartieri in ghetti, dove, come dice il rapper Boots Riley, “le verità non sono evidenti, tutte le storie di schiavitù sono al presente, ogni sommossa è una conseguenza”. Can’t Stop Won’t Stop comincia proprio dalle terre desolate del Bronx e dalla Giamaica, individuandole come i poli dove le rivolte si sono susseguite come onde, un movimento costante tra radici antichissime e un futuro tutto da inventare. Il percorso di Jeff Chang segue e traccia connessioni invisibili ai più e riporta collegamenti tra una cultura nata nelle strade e nei bassifondi e il suo impatto nello scontro con “la politica dell’indifferenza”. Il messaggio, che funziona proprio come un loop, parte dal 1968 e arriva al 2001 e tiene conto, con scrupolosa attenzione, di ogni singola componente nella propagazione dell’universo hip-hop, dalla breakdance ai graffiti all’abbigliamento e alle gang, per arrivare alla musica. Con “questa storia dub”, come la definisce nell’introduzione, Jeff Chang fa un lavoro prezioso intersecando le condizioni sociali, a partire dalle trasformazioni architettoniche in cui è germinato l’hip-hop, con le mutazioni delle lotte afroamericane nel corso degli anni, comprese differenze e contraddizioni. Il metodo è meticoloso, ma nello stesso tempo avvincente, perché Can’t Stop Won’t Stop è assemblato attingendo alle fonti primarie, alle voci dei protagonisti nel cercare di delineare l’humus da cui sono cresciuti i graffiti, la breakdance, il rap, come esigenze di un’espressione libera e di una comunicazione non asservita e non omologata. Le motivazioni vanno cercate nell’oppressione, nella segregazione mascherata (ma nemmeno tanto) dalle esigenze del mercato immobiliare, con una pianificazione razionale che persino un giudice della corte distrettuale dell’Ohio, David Westenhaver, ancora nel 1924, condannava così: “La finalità perseguita è effettivamente quella di regolare il modo di vita delle persone che d’ora in poi abiteranno la città. In ultima analisi, il risultato perseguito è classificare la popolazione e segregarla secondo il reddito e la loro condizione”. Nel corso di tutto il ventesimo secolo, che è il segmento storico su cui si sviluppa Cant’ Stop Won’t Stop, non è cambiato niente e viene evidenziata, inevitabile, anche una componente generazionale, una spontaneità dovuta alla vita nelle strade, dove la creatività nasce dal basso come un’urgenza e una necessità vitale. Jeff Chang indaga costantemente, senza sosta, in modo quasi frenetico: l’impressione è quella di uno spostamento tellurico che, vibrazione dopo vibrazione, da Afrika Bambaataa a Grandmaster Flash fino ai Public Enemy e a Spike Lee è riuscito a smuovere la superficie e infine a ribaltare lo status quo, almeno per un limpido momento. Jeff Chang infatti non nasconde le deformazioni commerciali, il passaggio verso la cultura “urban” e, ancora di più, le diatribe e le faide, anche se per fortuna ci risparmia gli aspetti scandalistici e truculenti, ma è puntualissimo nell’evidenziare i legami con i quartieri che implodono e i territori che esplodono e gli sviluppi sociali nell’intricato contesto dello sprawl metropolitano. La descrizione dei primi, rudimentali sound system, l’influenza della musica e dell’attitudine caraibica occupano una porzione rilevante della prima parte, poi la storia dell’hip-hop prende forma proprio come l’hip-hop stesso, con una stratificazione di sedimenti culturali per niente omogenei che, a partire dai campi di battaglia del Bronx si estende fino ad arrivare alle rivolte di Los Angeles del 1992, passando per Straight Outta Compton, Ice-T e Ice Cube e gli abbaglianti contrasti californiani. Un lavoro di tessitura assiduo anche nel documentare lo scontro continuo con le autorità, la violenza delle istituzioni e la nefasta influenza della stampa e della televisione, che fa capire perché Jeff Chang ad un certo punto arrivi a sostenere che “il rap non significa nulla se non racconta una storia”. E qui la storia è raccontata con tutti particolari e con un flow, come direbbero i rapper, che non conosce un intoppo che sia uno. Un libro che andrebbe adottato in tutte le scuole, per spiegare cos’è l’hip-hop, e cos’è l’America.
Nessun commento:
Posta un commento