Il Brokeland Records è “la chiesa
del vinile” sulla frontiera tra Berkeley e Oakland e, nonostante sopravviva nel
clima e negli umori californiani, soffre l’irrimediabile crepuscolo della
specie. Per qualcuno, “è solo un cazzo di negozio di dischi”, ma per i
proprietari, Nat Jaffe e Archy Stallings, ovvero i protagonisti di Telegraph
Avenue, in quelle ceste piene di rarità
intonse e buste raggrinzite “c’è una specie di, come dire, di ideale”. Si capisce, e non ci vuole molto, perché il
catalogo comprende Ornette Coleman, Miles Davis, Stevie Wonder, Count Basie,
Archie Shepp, James Brown, Maceo Parker, Isaac Hayes, Curtis Mayfield, Sly
Stone, Jimi Hendrix, Eric Dolphy, Ahmad Jamal, Booker T & The MG’s e Sun
Ra. Quando su Telegraph Avenue si
stende l’ombra del dirigibile di Gibson Goode, già campione di football
diventato un volitivo tycoon, il futuro prende forma nel suo progetto dell’inevitabile megastore,
con tutto il corollario di promesse, progresso, benessere per l’intera comunità
cittadina. L’ipotesi incombe sul Brokeland Records come un nodo scorsoio e per
Nat Jaffe e Archy Stallings, nonché per il picaresco tran tran di clienti,
l’unica canzone che risuona è It’s Too Late di Carole King. Un’era sta finendo in Telegraph
Avenue e nell’aria rimane “un crepitio
incessante di elettricità statica, non troppo diverso dal silenzio. Il rumore
di fondo della creazione. L’implacabile piena del tempo”. Rocambolesco, ironico
e colorito, Telegraph Road
non è una versione blaxploitation di Alta fedeltà, come l’istinto suggerirebbe a una prima,
superficiale lettura. Anche se Michael Chabon ha l’orecchio per la commedia
agrodolce, percorsa da una sottile nostalgica, Telegraph Road è piuttosto un elaborato patchwork tra le manie di
Quentin Tarantino, la confusione culturale del melting pot, i fumetti della
Marvel, l’evoluzione dei gusti e dei consumi nelle città e nei quartieri. E’
quello che racconta Michael Chabon, anche in modo non del tutto irreprensibile:
qualche ripetizione, qualche leggerezza, qualche eccesso non tradiscono il
motivo fondamentale dell’infinita serie di rimandi e di citazioni, con un’ovvia
preponderanza per quelle discografiche. Il senso di Michael Chabon per il
vinile è chiaro perché non è solo un hobby, un’ossessione da collezionisti,
così come non tutti i negozi di dischi sono stati piccole comunità, ma c’è
qualcosa di importante in Telegraph Road perché spiega che nella fragile resistenza del Brokeland Records c’è
“tutta una nostra teoria”, ed è quel modo di condividere la musica, il cinema,
i fumetti e, in fondo, le storie, ed è proprio così perché “il punto non era il
merchandising, e a ben vedere nemmeno la nostalgia. Era il quartiere, quello
spazio dove il dolore comune si poteva affogare nella comune passione,
attraverso discorsi che si facevano via via sempre più accademici e deliranti”.
Non sono soltanto i dischi, i film, le riviste, i romanzi: è tutto quello che
ci tiene insieme, in un modo o nell’altro, prima che arrivi il Gibson Goode di
turno a dire che sono solo “un mucchio di pezzi rotti”.
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