Meno
caleidoscopico di David Foster Wallace, meno caustico di Hunter Thompson, agli
estremi della non fiction americana, John Jeremiah Sullivan è premuroso nel
centellinare l’espressione dello stile e della personalità, che appaiono
evidenti con l’esposizione dei fatti e delle cronache. La sua è una scrittura
che prende dal pop e si nutre di quell’essenzialità e dei suoi cliché,
incastrandoli ed elevandoli in un linguaggio e in un’analisi più complessi.
John Jeremiah Sullivan armeggia con la materia con tutte le cautele del caso,
sa fin dove spingersi e dove fermarsi prima che il suo saggio si trasformi in un articolo o
confonda l’originalità della prosa, sempre brillante, con il dovere della
semplice cronaca. Gli argomenti sono tra i più disparati, dal suo bizzarro
mentore all’uragano Katrina, dalle utopie di Disney alla plasticità fenotipica
e John Sullivan si destreggia con una leggerezza che è il principale tratto del
suo stile comune a tutti i brani di Americani. Descrive come non è riuscito a nessuno due casi
umani inenarrabili del calibro di Michael Jackson e Axl Rose (e per estensione
Kurt Cobain) compresa quella perfetta definizione dei Guns N’Roses che li
ritrae come “l’ultima grande rock’n’roll band che non trovava imbarazzante
essere una rock’n’roll band. Ci sono migliaia di band al mondo che non trovano
affatto buffo il rock, ma di rado ce n’è una buona. Con i Guns, non importava
quanto ti sentivi sofisticato in fatto di gusti musicali pop (lasciando da
parte per il momento la natura paradossale di questa categoria sociale), non
potevi liquidarli”. Anche l’incontro con Bunny Wailer, uno dei resoconti più
densi e coloriti di Americani è la
dimostrazione di un modello di reportage che privilegia ancora l’esperienza
diretta, sul campo, il toccare con mano perché poi John Jeremiah Sullivan
scopre che “il vero regalo che mi ha fatto è stato quello di dire no”. La
scrittura è pulita, rigorosa, concreta, senza fronzoli, con molte idee e
qualcosa da dire anche se John Jeremiah Sullivan si concede, spesso e volentieri,
piccole partenze per la tangente e salutari divagazioni per non restare
imprigionato nella realtà e nelle sue perversioni. In effetti, Americani offre una delle più efficaci letture e analisi del
mondo dei reality mai viste: “Siamo tanto fragili? Dev’essere così. Ce ne sono
troppi, semplicemente, troppi programmi e troppa gente nei programmi, perché
non stiano rivelando qualcosa di endemico. Siamo noi: un popolo di selvaggio
sentimentalismo che piange e solleva pesi”. Da Disney alla scoperta della
wilderness americana attraverso la figura di Costantine Samuel Rafinesque, in
contrasto con quella ormai istituzionale di Lewis & Clark, o quella
dell’apocalittico Marc Livenwood (sempre ammesso che esista) John Jeremiah
Sullivan scopre soltanto, come scriveva Rafinesque, che “tutte le storie
d’America non sono che frammenti o sogni”. Come direbbe uno dei suoi Americani, un
personaggio che ama risolvere le
questioni schiacciandole con un timbro gigante: approvato.
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