lunedì 24 maggio 2010

Leonard Cohen

Proprio mentre “le spezie della terra” trovavano il loro posto in questo mondo, dopo essere state coltivate nell'isola mediterranea di Hydra, un giovanissimo Bob Dylan affrontava le vie di New York con la sua chitarra, l'armonica e le canzoni che ancora dovevano arrivare. Il giovane Leonard Cohen, che già aveva esordito senza esitazioni, dal suo nascondiglio di scogli e di sole, primo tra i tanti rifugi segreti, scriveva che “la canzone è meno che cantata” e si affidava tout court alla parola per sviscerare e rendere pubbliche le sue passioni. E' un Leonard Cohen volitivo che, per dirla con l'introduzione di Moni Ovadia, ha avuto “relazioni profonde e prolungate con altre culture e spiritualità (...) ma anche con la carnalità della vita e dell'amore”. La solitudine su Hydra è provvisoria e paradossale perché gran parte delle poesie di Leonard Cohen costituiscono un dialogo ininterrotto con l'altra metà (femminile) dell'essere umano. Il suo approccio viaggia tra la venerazione e l'indisposizione (“Mi dici che il silenzio è più vicino alla pace delle poesie ma se in dono ti portassi il silenzio, perché io conosco il silenzio, diresti allora: questo non è il silenzio è un'altra poesia, e me la restitueresti”), dalla celebrazione (“Ho guardato in adorazione oltre la tua bellezza”) all'addio (“Come molte notti resistono senza stele né luna, così noi resistiamo quando l'altro va via e s'allontana”). Un linguaggio sensuale, caotico, intenso anche quando cerca di fuggire una passione per sprofondare in un'altra: “Quando di desiderio sono cotto allora mi rifugio tra i miei libri e leggo quello che c'è scritto della carne proibita ma leggiadra”. Incastrato in un legame, Leonard Cohen cerca di trasformare le cicatrici e raccontare “ogni parola che venne trafitta dallo spillo”, ma specchiandosi sulla spiaggia del Mediterraneo è ancora più risoluto e i suoi versi profumano di forza e di leggende masticate a lungo: “Non sono stato infelice per diecimila anni. Di giorno rido e di notte dormo. Ho cuochi che mi fanno da mangiare, un corpo che si pulisce e si cura da solo, e il lavoro procede a meraviglia”. Funzionavano, sì, le parole di Leonard Cohen, e non hanno perso nulla del loro fascino a distanza di mezzo secolo (quasi). Quell'urgenza (“Solo se ho fame sono grande, e posso amare come lo scienziato appassionato che sa che il cielo è fatto solo di lunghezze d'onda”) sarà valida all'infinito, ma la lontananza di Hydra non poteva durare altrettanto. Un giovane ragazzo del Midwest aveva preso Manhattan per la gola le sue parole stese sulla chitarra stavano generando una straordinaria, e ancora unica, comunione di idee. Era ora di partire: “Qualcosa vuol dire, essere fuggito da diverse città. Sono contento di essere stato in grado di correre, di imparare dodici lingue, di essermi sottratto all'arruolamento con un trucco, contento che i confini fossero solo pietre lungo una strada vuota, di aver tenuto il mio diario”. Su quelle pagine si fondono i destini e s'incrociano due strade maestre dell'arte della parola. Nel 1966, le “spezie della terra” diventano “le canzoni di Leonard Cohen” e in quella stessa stagione piovosa Bob Dylan si ritira tra i boschi in fuga dalla follia che i suoi stessi sogni hanno contribuito a generare. Ma, Hydra o Big Pink, si tratta soltato di minuscoli segmenti in lunghe saghe di gente che, direbbe Leonard Cohen, "ha la passione per le tempeste e non per i ripari". Indispensabili.

 

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