mercoledì 30 settembre 2020

Melissa Anne Peterson

Cota Street è una specie di Desolation Row, dall’atmosfera umida, fredda, pesante e senza via d’uscita. È un “mondo dissipato, dimenticato” in una città grigia nello stato di Washington che attrae con una perfida forza magnetica gli adolescenti che, abbandonati o in fuga da famiglia disgregate, devono combattere in mezzo alla strada, sapendo che “le loro vite andavano avanti senza che nessuno ci facesse caso”. Nella dissoluzione delle personalità, I ragazzi di Cota Street sono fuggitivi, che lottano per la sopravvivenza: le ragazze vogliono una camera da letto con la porta da chiudere a chiave, i ragazzi vogliono un lavoro. Non hanno nulla se non la prospettiva di combattere, o andarsene. Sono outsider, consapevoli di esserlo. Lo ammettono senza subordinate di sorta: “I nostri nomi erano tutti sulla lista. I nostri fascicoli erano nello schedario. Gli uomini in divisa discutevano di noi come di un problema di ratti. Sulla mappa della città c’erano delle freccette rosse puntate su di noi. Era inevitabile. I nostri indirizzi, le nostre targhe, i nostri punti di ritrovo, era tutto schedato”. I libri di Kerouac sullo scaffale restano ben presto un pallido ricordo: “dentro i confini della città le cose erano più complicate di come dovevano essere” e nel loro doloroso cammino per I ragazzi di Cota Street “tutto sarebbe svanito velocemente”. Le giornate sono una ripida successione di droga, fame, aborti, risse, freddo, solitudine, alienazione fino ad arrivare a considerare normale sentirsi come “una pistola carica che sparava al contrario”. Si capisce tentativo di Violet di chiudere gli occhi e trovarsi altrove: “Provò a immaginare qualcosa di più profondo del sonno, qualcosa di smisurato e cavernoso con spazi così vasti e bui da disperdere la sua vergogna. Voleva rivoltarsi la pelle. Voleva urlare ed essere perdonata. Ma la sua voce non era un suono. Era solo una vibrazione in dissolvenza”. Quando decide di lasciare I ragazzi di Cota Street per trasferirsi a Saint Louis, dall’altra parte dell’America riesce a considerare che “c’era qualcosa di orribile e sbagliato. Qualcosa che ci avrebbe cambiati”. È da quella condizione, con un lavoro in una scuola, che racconta della sua vita e di Jimmy James Blood, di Kat e Duane, di Annie e Brady che “parlava perché potessimo sentirci tutti vivi. Gesticolava con la sigaretta e raccontava una storia con sguardo sognante, dimenticandosi dei suoi vestiti sporchi. Ci parlò di essere giovani e puliti. Quando ogni cosa non era semplice o facile ma era comunque possibile. Ci disse che a prescindere da quanto veloce sia la tua macchina, non puoi scappare da certe cose. Perché certi problemi sono più complicati e più veloci e più brutti di te”. Violet desiderava che I ragazzi di Cota Street “tenessero duro, che restassero vivi proprio come me. Rappresentavano la speranza contro ogni avversità”, ma sapeva anche erano “cattivi che più cattivi non si poteva. Senza motivo”, ma ogni nome (compreso quello del fratello Colin) evoca una tragedia. Violet racconta come se fosse una confessione e l’esordio di Melissa Anne Peterson non fa sconti: la scrittura è sincopata, volutamente limitata all’essenziale, plasmata attorno a uno slang e disseminata su piani temporali non allineati, che rendono alla perfezione il disorientamento, lo sfacelo e “il tonfo sordo della violenza” di Cota Street. Un romanzo durissimo, necessario, frutto di una moltitudine di ferite che Melissa Anne Peterson ha esplorato assecondando “i fantasmi della pioggia che hanno condiviso le loro storie, i fantasmi della città che non volevano lasciarmi, e quelli tra gli abeti di Douglas, che ancora mi seguono”. Comprese le voci di una fitta sonora punteggiata da Ella Fitzgerald, Dead Boys, Dropkick Murphys, Peter Tosh, Radiohead, Toots and the Maytals, Johnny Horton, Lou Reed, Johnny Cash, Jimmie Rodgers, Mark Lanegan, Reverend Horton Heat, Cracker, Robert Johnson, Mazzy Star, Sam Cooke e Bob Dylan (naturalmente).

giovedì 17 settembre 2020

Larry Watson

Stando a un vecchio adagio riportato da Thomas McGuane in un dialogo di Solo un cielo blu, “il Montana è stato costruito dalla ferrovia”. Call e Augustus, i protagonisti di Lonesome Dove di Larry McMurtry, potrebbero dissentire visto che lo vedevano come la terra promessa e, per arrivarci con le loro mandrie, hanno dovuto combattere contro tutto e tutti. In Canada, uno dei personaggi di Richard Ford diceva: “Da queste parti ci sono solo vacche e grano”. Eppure c’è qualcosa in quell’ambiente, con la polvere che riempie le strade e il vento pieno di terra, che, nonostante gli spazi infiniti appare angusto, imprigionato nelle dinamiche delle città di provincia, ben rappresentate dalla personalità della famiglia Hayden. Anche David, il giovane protagonista di Montana 1948, nonché voce narrante, sente sulla pelle “un certo rispetto che non avevo avuto bisogno di guadagnarmi”, mentre cammina per Bentrock. È l’unico rappresentante dell’ultima generazione degli Hayden, nei tratti caratteriali ben disegnati da Larry Watson: il capostipite, Julian, nonno di David, e padre di Wesley e Frank, è un uomo della frontiera “ricco e potente”, che ha inaugurato la saga degli sceriffi Hayden nella contea di Mercer. Frank, il figlio maggiore, è tornato dalla guerra come un eroe, è sposato con Gloria ed è un medico. È più brillante e divertente, anche se dal suo matrimonio non sono ancora arrivati figli. Il contrasto tra i fratelli anticipa lo scontro vero e proprio. Wesley procede per inerzia e più che uno sceriffo, ruolo che ha ricevuto per investitura dal padre, pare un travet della prateria. Anche la pistola d’ordinanza (piccola e italiana!), che definisce uno status, è lontana anni luce dallo standard abituale del West e dell’America in generale dove, si sa, il culto delle armi è sancito dalla costituzione. In tutto Montana 1948 viene sparato un singolo colpo di fucile, ma il suo eco rimbomba nelle valli e a quel punto le dinamiche famigliari, viste con gli occhi di David, sono già collassate. Lui adora tutti, ma è innamorato della governante sioux, Marie Piccolo Soldato. Quando Marie si ammala di polmonite, è spontaneo chiamare Frank al suo capezzale, ma la reazione della donna sorprende tutti. Non vuole essere sfiorata dal dottore. Da lì emerge una sordida storia di abusi sessuali del fratello maggiore degli Hayden nei confronti delle donne indiane. David, attonito, si chiede: “Quanti altri segreti la nostra città aveva accettato di mantenere?”. Il dilemma, molto shakespeariano, deflagra in multiple contrapposizioni (fratello contro fratello, figlio versus padre, cowboy e indiani, uomini e donne) nello scenario della casa di Wesley che arresta Frank ma, per precauzione, invece di condurlo nelle celle del tribunale, dall’altra parte della strada, lo chiude nel seminterrato. David assiste, impotente e titubante, all’evolversi del conflitto tra le mura casalinghe: “Non ero sicuro di cosa fosse diventata la nostra famiglia in quei giorni difficili, ma sapevo che dovevamo stare vicini. Eravamo sotto assedio. Dovevamo sostenere meglio che potevamo le pareti della nostra casa”. È grazie al suo punto di vista che Larry Watson può raccontare gli sviluppi che travolgono la famiglia Hayden. È un modo brillante per vedere la storia di Montana 1948 da più angolazioni perché, come annota David, quel momento “segnò una tale frattura nella nostra vita, un abisso che divise definitivamente ciò che eravamo, e che non saremmo più potuti essere, da ciò che saremmo diventati, che bisognerebbe trovare un’unità di misura più adeguata”. Se, come direbbe ancora Richard Ford, “fino ad allora il tempo era stato quasi senza cuciture, l’ordine durevole della vita familiare”, da lì il destino degli Hayden è sconvolto per sempre. Le peculiari caratteristiche morfologiche del Montana hanno un peso determinante, anche se Larry Watson pone al centro dell’attenzione le vicende umane. L’equilibrio di Montana 1948 sta esattamente tra i silenzi della wilderness e le chiacchiere cittadine, tra gli echi delle montagne e il rumore dei pensieri. La scrittura si insinua proprio in quella dimensione, rilevando con eleganza e senso della misura l’attrito tra le pause implicite alla vastità del territorio del Montana con gli scatti imprevedibili degli esseri umani che lo abitano. Un piccolo classico, una riscoperta obbligatoria.

martedì 15 settembre 2020

Jesmyn Ward

Nel giorno del diploma, i gemelli Joshua e Christophe si lanciano nel fiume. Finita la scuola, gli si spalanca un mondo davanti. Ma vivono a Bois Sauvage, la contea che da qui sarà lo sfondo anche di Salvare le ossa e Canta, spirito, canta. Per seguire La linea del sangue bisogna sprofondare nel bayou, che è un ecosistema tra acqua dolce e salata, tra terra e mare che si mischiano grazie a vento e correnti e nel caso specifico di Bois Sauvage anche tra Mississippi e Louisiana, dove “piccole comunità autonome” si sono insediate in altrettante enclavi. Il terreno, a cui Jesmyn Ward si dedica in modo ossessivo, è tutto: le strade sono ricoperte di gusci d’ostrica, il fango è onnipresente, la vegetazione nasconde insidie a ogni passo e il clima è ostico. L’afa è insopportabile e il caldo, che non concede tregua, brucia sulla pelle, rallenta i movimenti, alimenta la noia. La convivenza con l’ambiente complica i rapporti, anche se la famiglia, che resta sempre incompleta, è ancora un punto di riferimento inamovibile. Se in qualche modo resta funzionale, lo deve ai rami femminili: Joshua e Christophe sono stati cresciuti da Ma-mee, che è la nonna. È quasi cieca, un dettaglio non relativo, perché gli occhi spesso ingannano e lei, in fondo, riesce a vedere meglio di tutti gli altri. E sente la tempesta in arrivo perché a Bois Sauvage il futuro è un elenco di posti in cui fare domanda di lavoro, una specie di penitenza verso occupazioni dure, ripetitive, se non umilianti. Joshua è il primo a trovare un impiego, come scaricatore di porto. Un mestiere faticoso e senza sbocchi, ma onesto. Christophe invece segue la scia del cugino Dunny e comincia a spacciare. All’inizio è solo erba, poi cominciano a vedersi anche coca e crack. Come si conviene, è lì che La linea del sangue si spezza: a ridosso del quattro luglio, con le tavole imbandite e i fuochi artificiali nel cielo, l’armonia tra i due fratelli s’infrange negli scorci di vita che hanno intravisto. Joshua ha trovato un suo posto e una ragazza, Laila. Christophe scompare per intere giornate, per poi riapparire con le tasche piene di rotoli di dollari. Ma-mee sente che qualcosa non va, anche perché, prima o poi, tutti tornano a Bois Sauvage: arriva Cille, la madre dei gemelli, e ricompare Sandman alias Samuel, il padre, che ormai è un tossico senza speranza. Il quadro famigliare è completo come uno specchio infranto che si regge soltanto per la cornice: tra loro mancano le parole, il tempo, la consuetudine. Jesmyn Ward interpreta con scrupolosa lentezza ogni movimento, la percezione dei corpi, i gesti quotidiani che nascondono e insieme rivelano i turbamenti, le incomprensioni e le inquietudini dei protagonisti. Ma-mee, che è un po’ il deus ex machina di Bois Sauvage, nei momenti più imbarazzanti e difficili riordina e cucina, quasi seguendo un riflesso condizionato, perché il cibo (e seguendo con attenzione La linea del sangue si scopre un dettagliato menù della saporita gastronomia del bayou) è l’unico momento di condivisione. Le fratture tra Joshua e Christophe, fra i gemelli, Cille e Sandman, l’intrufolarsi nell’ambiguità, dove domina la paranoia e basta una macchina della polizia o il volto di uno sconosciuto a scatenare il panico, portano evidentemente a condizioni dove il sangue, alla fine, non sarà solo metaforico. L’ipnotico racconto di Jesmyn Ward, con l’apparizione dei personaggi che da lì si faranno largo nella trilogia di Bois Sauvage, è insieme aspro, torbido e sensuale, ma sta parlando di una realtà che deve pagare le cure ospedaliere a rate, perché i confini del bayou sono indefiniti, ma sono comunque nell’America disastrata del ventunesimo secolo. Ed è così che La linea del sangue comincia e finisce in riva al fiume, dove il suo senso spicciolo è palese: all’inizio la vita è un tuffo a occhi chiusi, poi peschi un po’ quello che trovi. Resta da dire dell’affollata colonna sonora con cui Jesmyn Ward punteggia La linea del sangue: Harold Melvin and the Blue Notes, Clarence Carter, Otis Redding, Al Green, Bobby Blue Band, gli Earth, Wind & Fire e Sam Cooke. È un’ottima selezione di soul e rhythm and blues ma La linea del sangue ha più la cadenza tambureggiante e insistente di una canzone dei Neville Brothers, la famiglia musicale più nota a New Orleans. Il titolo è Sons And Daughters e l’album da cui è tratta, guarda caso, si chiama Brother’s Keeper e (sentire per credere) sembra uscire direttamente dalla radio di Ma-mee.

lunedì 14 settembre 2020

Hakim Bey

Tra gli esempi di zone autonome temporanee che Hakim Bey snocciola nei primi capitoli, tra i covi dei pirati ai Caraibi e le comuni francesi, spicca l’esempio di Fiume. L’estemporanea spedizione guidata da Gabriele D’Annunzio nel settembre 1919 produsse una festa senza fine: dominavano poesia, musica e fuochi d’artificio. Secondo la sintetica ricostruzione di Hakim Bey, “l’intera attività del governo consisteva in questo. Diciotto mesi dopo, quando vino e soldi finirono e finalmente si fece viva la flotta italiana piazzando qualche colpo di cannone nel municipio, nessuno ebbe più l’energia per resistere”. L’episodio rende bene l’idea di cosa può nascere da un “caos come somma di ordini” e della forma che può assumere la zona autonoma temporanea che nella complessità dell’articolazione di Hakim Bey si rivela una costruzione molto più elastica e multiforme delle sue possibili e repentine applicazioni reali. Confessando di essere “sia un cavernicolo che un mutante che viaggia tra le stelle, sia un truffatore che un principe libero”, Hakim Bey si concede gli spazi, le divagazioni, le estrapolazioni per coltivare “una politica del sogno, urgente come l’azzurro del cielo”. Allora si presta subito a indirizzare T.A.Z. su un giusto binario, rispondendo alle velleità dannunziane, con il pensiero contemporaneo e più consono di Renzo Novatore quando sosteneva che “qualsiasi società che edificherete avrà i suoi limiti. E fuori dai limiti di qualsiasi società vagheranno gli irregolari vagabondi eroici, con i loro pensieri selvaggi & vergini, quelli che non riescono a vivere senza programmare sempre nuove spaventose fiammate di rivolta!”. È una collocazione della zona temporanea autonoma ante litteram, che spalanca le porte su una raffica di comunicazioni alimentate dall’idea di Hakim Bey per cui “le nostre immagini di elezione hanno la potenza dell’oscurità, ma tutte le immagini sono maschere & dietro queste maschere giacciono le energie che possono volgere alla luce & al piacere”. Il linguaggio spesso è criptico, ma l’irruenza è genuina: ci sono elementi di provocazione e di disturbo, ma nella sua complessità T.A.Z. ha il pregio di spingersi in direzioni inusuali, alla ricerca ostinata di “un nesso di autonomia, un virus nel caos che si diffonde nella sua più esuberante forma clandestina”. C’è una visione che è irrituale, anche disordinata, volendo, ma è sempre vitale e, ancora di più, attualissima. La zona autonoma temporanea, al di là delle applicazioni concrete e storiche è una concezione filosofica, una dimensione mentale che si apre a più possibilità, a partire dalla “tattica di sparizione”, laddove “la sua massima forza risiede nell’invisibilità. In quello T.A.Z. mantiene tutto il potenziale eversivo, nella rocambolesca scrittura di Hakim Bey ed è sorprendentemente adeguato ai nosti giorni quando si chiede “che razza di artisti sfigati dal cervello da blatta ha cucinato questa sbobba dell’apocalisse”, sottolinenando che “in mezzo a un popolo che non sa creare o giocare, ma sa solo lavorare, anche gli artisti non hanno altra scelta che quella tra anarchia & monarchia. Come chi sogna, devono possedere & possiedono le proprie percezioni”. Per Hakim Bey, “l’arte è una forma di barbarie bizantina adatta solo ai nobili & ai pagani” e “racconta fascinose bugie che divengono vere”. È lo snodo, a saldo di centinaia di altre deviazioni, sollecitazioni e corrispondenze, che rende T.A.Z. è un’ipotesi che mantiene inalterata il suo peso specifico e che soprattutto apre degli spiragli quando proclama con forza che “chi se ne frega se è impossibile. Cos’altro possiamo sperare di ottenere oltre all’impossibile? Dovremmo aspettare che sia un altro a svelare i nostri veri desideri?”. In questo Hakim Bey tocca uno dei punti più sensibili, accorgendosi che se “nessuno vive realmente nulla, tutti ridotti allo stato di spettri”, la zona autonoma temporanea è il luogo privilegiato dove maturare “la propria rabbia & disgusto & i veri desideri per balzare verso l’autorealizzazione & la bellezza & l’avventura”. Approvato da tutti i ribelli con o senza causa, compresi Allen Ginsberg e (soprattutto) William Burroughs.

giovedì 10 settembre 2020

Harold Bloom

Quando anche l’esimio critico diventa un fan, non c’è struttura che tenga ed è così che Il demone di Shakespeare si rivela un florido e ipersensibile commento al testo, costituito per una buona metà dagli originali shakespeariani dell’Enrico IV e dell’Enrico V e di Antonio e Cleopatra, a cui Harold Bloom si rivolge con devozione. La funzione è didattica più che analitica e si adegua all’indicazione di William Butler Yeats: “Senza una bella trama, non c’è dramma, ma senza linguaggio magnifico o potente e individuale non c’è letteratura o, comunque, non grande letteratura. Rabelais, Villon, Shakespeare, William Blake, si sarebbero riconosciuti a vicenda per il loro linguaggio. Alcuni di loro sapevano come costruire una storia, ma tutti possedevano un linguaggio rigoglioso, risonante, magnifico, esilarante, vivo”. Seguendo questa scia, la lussureggiante esegesi di Harold Bloom parte da una definizione destinata a diventare un classico: “Un personaggio letterario è sempre un’invenzione ed è debitore delle invenzioni precedenti. Shakespeare inventò il personaggio letterario così come lo conosciamo noi. Ha modificato le nostre aspettative nei confronti dell’imitazione verbale della personalità e tale modifica si è rivelata permanente e, misteriosamente, inevitabile. I personaggi biblici e quelli omerici sono resi in modo straordinario, e i loro caratteri sono perlopiù immutabili: i protagonisti invecchiano e muoiono all’interno delle loro storie, ma il loro modo di essere non ha uno sviluppo. Le personalità di Shakespeare invece sì. La sua rappresentazione dei personaggi adesso sembra avere valore normativo e, in effetti, si affermò quasi subito come regola”. Dagli intrichi britannici a quelli romani, le figure di Falstaff e Cleopatra tra le più esuberanti dell’empireo shakespeariano, con una sensibile predilezione per il primo perché incarna “la perpetua gloria dello spirito spensierato che governa tutti noi”. Harold Bloom si spende con generosità per il suo eroe, sostenendo che “essere Falstaff vuol dire attaccare le frontiere tra apparire ed essere. Falstaff non è l’uomo qualunque poiché, al pari di Amleto, la vastità del suo intelletto è immensa. Ma in tutti noi, indipendentemente dall’età o dal sesso, c’è un po’ di lui”. Passo dopo passo, il personaggio diventa l’emblema della saggezza di Shakespeare che, secondo Harold Bloom, “eguaglia e supera quella dei filosofi e dei teologi classici. Ludwig Wittgenstein considerava, ambivalentemente, Shakespeare in primo luogo un creatore di linguaggio. Tra tutte le personalità shakespeariane, Falstaff è il creatore di linguaggio. È il principale esempio di come il significato sia generato piuttosto che riprodotto. È eccesso, rovesciamento, esagerazione: è prodigo nello sperpero”. Arriva a immedesimarsi, anche per conto dei lettori, al punto che diventa inevitabile chiedersi: “Il suo mistero è simile a quello che riguarda noi e la nostra vita quotidiana. Siamo personaggi, pensatori o personalità?”. Il ritratto della conturbante Cleopatra è altrettanto minuzioso e, per quanto si tratti di un profilo completamente differente, Harold Bloom riesce a intravedere una continuità, segnalando che “in Shakespeare, la personalità si evolve anziché rivelarsi. Cleopatra ci sconcerta perché è scaltra ben oltre il pensiero maschile. Sa essere arguta come Falstaff, ha la furbizia di Iago e l’implicita capacità amletica di alludere a desideri trascendenti. Ed è irresistibile”. È una distinzione importante perché “Shakespeare era un maestro dell’ellissi, dell’omissione finalizzata a stuzzicare la nostra curiosità riguardo alle origini”. Eppure Harold Bloom sembra arrendersi ancora una volta all’eloquenza della rilettura di Shakespeare. Una missione che pare infinita, e che, dal canto suo, lo porta ad ammettere che “la letteratura americana è ossessionata da Shakespeare: Herman Melville, Emily Dickinson, Mark Twain, Henry James, Wallace Stevens, Ernest Hemingway, William Faulkner”. Al punto di trovare una curiosa relazione tra Shakespeare e Cole Porter, un compositore che sarebbe piaciuto moltissimo a Falstaff, e anche a Cleopatra.

martedì 8 settembre 2020

Don Winslow

È chiaro che la somma totale dei racconti di Broken è l’omaggio, sia quando è dichiarato (a Steve McQueen, Elmore Leonard e Raymond Chandler) sia quando è sommerso, comprensivo di tutta una mitologia americana che, in corso d’opera, comprende negozi e strade, automobili e città, cinema e musica (Springsteen è il più citato, il jazz è la vera colonna sonora), il surf, il poker e il baseball. Come se Don Winslow avesse voluto elencare le piccole cose che, da New Orleans alla California fino alle Hawaii e al Texas, tengono insieme un’America spezzata e popolata da uomini e donne distrutti dalle guerre. Lo schema generale di Broken si riassume nell’elemento caratteristico dello scontro tra delinquenti e sbirri, ma con l’idea che appartengano tutti quanti allo stesso milieu, fatto di strade e di notti e con l’eccezione di Paradise e L’ultima cavalcata dove le storie hanno un’evoluzione differente. Broken, il primo racconto è una dedica a James Lee Burke, con uno stile tra Stephen King (un richiamo costante, per le semplificazioni) e a James Ellroy (per il ritmo sincopato): una battaglia feroce che parte proprio dall’atmosfera torbida della Louisiana, che vede protagonista, Jimmy McNabb, detective in cerca di vendetta per il fratello, brutalmente massacrato da una gang di narcos. Ci si aspetta l’apparizione di Dave Robicheaux e di Clete Purcel, ma Don Winslow sa quando è il momento di calare il sipario su una short story con la miccia corta e cambia subito registro. La differenza non è soltanto geografica: se la Pacific Highway, una strada che raccoglie sul suo tracciato una bella fetta di leggende della costa californiana, è la cornice perfetta di Rapina sulla 101, Davis, il protagonista, è un ladro che non sfiora nemmeno le vittime. È elegante, scrupoloso, veloce, ama l’imperativo “semplifica le cose”, si muove con destrezza. Lo insegue un poliziotto che è in crisi, tanto da separarsi dalla moglie e andare a vivere in una casa sull’oceano, onnipresente. Don Winslow sa maneggiare gli standard e i cliché con grande disinvoltura e anche una punta d’ironia. È evidente in Lo zoo di San Diego che parte da una situazione surreale: una scimmia si è impadronita di una pistola, ma come si vedrà poi, non è il frutto di un caso, ma una metafora nemmeno troppo velata del rapporto viscerale (e sancito dalla costituzione) degli americani con le armi. Di più, Lo zoo di San Diego svela le le connessioni e gli intrighi macchiavellici nei dipartimenti di polizia, che Don Winslow conosce a fondo così come il sistema delle cauzioni che è alla fonte della trama di Sunset. L’attenzione per i particolari è trasmessa al protagonista, Duke, che ascolta (rigorosamente in vinile) il sound della Pacific Jazz Records. Duke conosce i musicisti avendo studiato i nomi nelle note di copertina dato che “i dettagli sono importanti, sono tutto; se non fai bene le piccole cose, incasini le grosse”. Applica lo stesso metodo ai furfanti recidivi che deve inseguire, ma i tempi stanno cambiando, anche per lui, ed è arrivato il momento di lasciare il campo. Ci sarà ancora una missione, naturalmente, così come avviene in L’ultima cavalcata, una tragica ballata sul border, dove Cal Strickland si trasforma in un “ladro di bambini”, per riportare a casa una piccola immigrata abbandonata al suo destino. Merita un appunto speciale Paradise, sia per l’insolita ambientazione alle Hawaii, sia perché narra un epico scontro tribale e famigliare per il controllo del territorio. Se i racconti di Broken sono interconnessi gli uni agli altri, condividendo i personaggi e collegamenti con altri romanzi di Don Winslow che affiorano nel testo, Paradise evoca persino un paio di notevoli fantasmi, ovvero Frankie Machine e Bobby Z. Roba densa, immediata e magnetica, che scorre e colpisce senza esitazioni, anche se l’impressione conclusiva è che Don Wislow abbia espresso ben altre qualità sulla lunga distanza, ma, senza dubbio, i racconti di Broken sono degni epigoni dei maestri a cui fanno riferimento.

lunedì 7 settembre 2020

Willy Vlautin

In prospettiva, nel suo esordio Willy Vlautin esplorava già temi che sarebbero emersi in primo piano nei romanzi successivi: la boxe (in Io sarò qualcuno), i cavalli (in La ballata di Charley Thompson) come se nella Motel Life ci fossero tutti gli elementi fondamentali della sua scrittura. Soprattutto c’era una direzione precisa, nell’avvicinarsi al buio di esistenze aride e smarrite, dove “le cose vanno e vengono come le onde”, ma le persone sono abbandonate come relitti sulla spiaggia. I maggiori rappresentanti di un territorio, quello della Motel Life di Willy Vlautin, in cui tutto è rovinato, arrugginito, scartato e di seconda mano, dalla automobili alle suppellettili, sono i fratelli Flannigan. Jerry Lee ha investito un ragazzo ed è in preda al panico, Frank lo asseconda come ha sempre fatto, perché si compensano a vicenda, ma sono comunque da tempo alla deriva. Vagano per Reno, ricordando il passato, cercando una soluzione che non c’è. Sono impacciati, affamati, disorientati da una costante nebbia alcolica, e nel gelo dell’inverno, il motel diventa una casa istantanea, un riparo provvisorio, e transitorio proprio come ogni altra cosa. La strada resta l’unica opportunità per fuggire perché Frank e Jerry Lee non fanno molto oltre a guardare la televisione (una noia assoluta), arrancare nella neve e bere birra (i pacchi da sei arrivano fino a dodici nel corso del romanzo). L’unico momento di fragile felicità che ricordano è quando “avevamo intorno la città, la gente e il traffico, le luci dei casinò e il rumore, ma era come se per noi andasse tutto bene, come se tutto fosse perfetto, come se fossimo le uniche due persone al mondo che avessero importanza, le uniche che potevano vedere quanto erano belle le luci della città”. Trascinandosi senza alcuna idea, finisce che Jerry Lee, travolto dal rimorso, tenta il suicidio, e gli viene male anche quello, visto che finisce per spararsi in una gamba. Ma Frank è sempre presente, pronto a celebrare un legame indissolubile raccontando al fratello le storie che si inventa per sopravvivere. Iris, uno dei suoi personaggi, spiega bene il senso di resistere alle spinte che ci vogliono “senza differenze, senza desideri, con tutto il peso del mondo sulle spalle, che ci schiaccia e ci rende tutti uguali”. Solo che per Iris contano soltanto “le quattro parole fondamentali della vita: buona conoscenza delle pistole”, un motto che annuncia l’inevitabile destino della sua storia. D’altra parte in tutta la Motel Life l’unica persona “serena e in pace con se stessa” si chiama Marge, ed è soltanto un disegno, frutto dell’estro di Jerry Lee, appeso sulla parete dell’ennesimo motel. La speranza è meglio di niente, d’accordo, ma vivere come i fratelli Flannigan condensa una condizione umana faticosa oltre che dolorosa. Non bastasse, Tommy, perché ci sono perdenti capaci di scommettere sulle sconfitte degli altri, spinge Frank a puntare i suoi ultimi soldi. Del resto siamo a Reno, e  il gioco d’azzardo è un altro dei temi ricorrenti, visto che risale anche al padre dei Finnigan, ma è una sfida con la vita. “Anche i perdenti sono fortunati a volte” cantava Tom Petty in Even The Losers e infatti Frank riesce a piazzare una bella vincita sullo scontro Tyson versus Holyfield e con il bottino si compra una macchina (americana, pur sapendo che quelle giapponesi sono più affidabili: un’altra scelta frutto dell’attitudine da loser) per partire ancora una volta. Oltre a lasciarsi alle spalle Reno, Frank intende ritrovare Annie James, che aveva lasciato, anni prima, colta anche lei in una situazione oltre ai limiti della decenza. La galleria di disperati è affollata e mutevole, mai i personaggi sono vividi (compreso un cane che entra a far parte della compagnia), le immagini colpiscono, il tono della scrittura è perfetto perché Motel Life come scrive Willy Vlautin nella postfazione è “un romanzo sulla nostalgia di casa”, ovvero “un sogno a occhi aperti, un sogno triste”, con la colonna sonora di Willie Nelson e Johnny Cash, gente che è sempre stata dalla parte delle vittime.

giovedì 3 settembre 2020

Patti Smith

Patti Smith passa L’anno della scimmia viaggiando da New York a San Francisco fino a Gand e, nell’età della maturità, è un continuo riannodare i fili dei ricordi e delle esperienze, delle amicizie, e delle storie che si sta lasciando alle spalle. Un omaggio, un incontro, un sogno: Patti Smith non rinuncia a nulla, anche se la densità di popolazione della sua galassia si sta riducendo a vista d’occhio. Ma non c’è alcuna revisione, neanche un rimpianto, solo una forza magnetica nell’osservare che non c’è “nessuna regola. Nessun cambiamento. Anche se alla fine tutto cambia. Così funziona il mondo”. Se qualcosa resta sono le persone con cui ha condiviso una vita. Per L’anno della scimmia i primi due principali punti di riferimento sono Sandy Pearlman e Sam Shepard. Noto ai più come produttore discografico, Sandy Pearlman, ha legato il suo nome ai Blue Öyster Cult, una rock’n’roll band con un posto particolare nel cuore di Patti Smith, così come ai Clash (Give ‘Em Enough Rope) e ai Dream Syndicate (Medicine Show), ma è stato anche un teorico del suono e un uomo di cultura (aveva cominciato come critico musicale, in effetti). Patti Smith e Lenny Kaye lo assistono nel suo crepuscolo, sostenendosi a vicenda, tra una tappa e l’altra di un tour. L’affetto è indiscutibile, ma Sandy Pearlman è da tempo incosciente e non c’è altro da fare, se non lasciarlo andare. Con Sam Shepard, anche lui giunto ai suoi ultimi giorni, è diverso e Patti Smith arriva assecondando i segnali del cielo: “In aereo ho provato a non pensare allo stato delle cose, a niente di spiacevole. C’era qualche turbolenza, che a me andava bene, solo schemi meteorologici disturbati senza nulla di intenzionale o personale”. Lo aiuta a definire il libro che diventerà Quello di dentro, lo segue. Lui somiglia sempre di più a Samuel Beckett, ma la sensazione che matura tra i due scrittori in un angolo di una casa nel deserto è che “scrivi in tempo e poi il tempo è passato”. Patti Smith l’aveva capito prima ancora di sedersi al tavolo della sua cucina, davanti alle pagine da correggere e da rivedere. Scesa all’aeroporto di San Francisco, non c’era lui ad aspettarla, ma la sorella. Sam Shepard non guida più, ed è lì che un mondo si era già eclissato, e non serviva altro. Ma Patti Smith e si avvia verso il terzo punto cardinale che distingue L’anno della scimmia. Questa volta punta in direzione opposta, verso e oltre l’Atlantico, attirata dall’esposizione della parte centrale del Polittico di Gand, L’adorazione dell’Agnello mistico. Patti Smith era ossessionata da tempo dall’opera di Jan van Eyck e dell’enigmatico fratello, Hubert, tanto da ammettere: “Ho ragionato così tanto su di loro che una volta mi sono ritrovata nel loro regno, ed erano così vicini che sono tornata a casa con una piccola macchia di pittura sulla manica. Questa forma di teletrasporto mentale era un altro argomento che stava parecchio a cuore a William (Burroughs) e alla terza mente della nostra società, Brion Gysin, e spesso speculavamo sulle sue infinite possibilità”. Paradossalmente, invece, l’incontro con il capolavoro della scuola fiamminga rivela “una percezione fisica dell’artista”, ma questo dipende soprattutto dalle qualità rabdomantiche sfoggiate da Patti Smith che tende a “navigare la solitudine” facendosi accompagnare da una lunga teoria di passioni. L’anno della scimmia allinea i Grateful Dead (e Jerry Garcia in particolare) a Roberto Bolaño, e Lewis Carroll, Billie Holiday e Belinda Carlisle, l’immancabile Dylan e Hot Rats di Frank Zappa, la scena nella piantagione francese ritrovata in Apocalypse Now Redux o una canzone di Van Morrison. Il ritmo del racconto, pacato, riflessivo, metodico nell’inquadrare i dettagli contiene anche una parallela divagazione onirica, in cui Patti Smith dialoga con i suoi personaggi. Il viaggio stesso diventa una composizione, con l’oceano a far da cornice ai ricordi dei suoi caduti e, in fondo, alla sensazione di “guardare sempre lo stesso film sul genere umano”. La scrittura di Patti Smith resta “una strategia catastrofica che rivaleggia con la prudenza”, ed è riflessiva almeno quanto accorata nel rammentarci che “la nostra rabbia silenziosa ci dà le ali, la possibilità di fare in modo che gli ingranaggi ruotino all’indietro, riunendo tutto il tempo”. Nel salutare L’anno della scimmia, il commiato lascia intravedere un’ultima direzione, forse la più intima, che Patti Smith riassume così: “Il mio breve viaggio è servito a ricordarmi che ci sono universi dentro altri universi, e una società fluida che capisce il valore delle piccole cose, fornite dal destino per guidare una persona attraverso cammini disseminati di ostacoli imprevisti”. Non è difficile seguirla: le sue parole sono come un filo in un labirinto: leggere, fragili, ma indispensabili.

martedì 1 settembre 2020

Jennifer Pashley

La lucida rassegnazione di Jennifer Pashley tratteggia un quadro dell’America desolato e senza speranze, in particolare per le donne, le prime vittime, insieme ai bambini (ovvero, le bambine) che non lascia spazio al minimo equivoco. L’innata natura predatoria americana rende Il caravan un romanzo spietato, livido e senza happy end dove Jennifer Pashley non risparmia nulla né ai suoi personaggi, né al lettore che viene coinvolto in una peregrinazione lungo le strade e i motel dell’America che sembra non avere mai fine. Ruota tutto attorno a Khaki e Rayelle, che si riflettono come se fossero le due metà di un intero, unite e separate con violenza. Come tante ragazze sprovvedute, il loro destino cambia quando salgono sulla macchina di un uomo, ma se Khaki evapora una volta sbattuta la portiera, Rayelle alias Rainy Day Blues trova invece Couper, uno scrittore che sta indagando su una sequenza di sparizioni e omicidi, inseguendo “una scia di rovine e terra bruciata” con un trailer agganciato alla sua macchina. Le sue ricerche, complicate dal fatto che “a volte una ragazza si disperde come il fumo che sale nell’aria. Così sottile che non si vede più. Diventa una nuvola. La puoi respirare”, tornano a intrecciare i destini di Rayelle e Khaki. Attraverso piccoli segnali sparsi nei resti urbani della provincia, con la consapevolezza che “in una piccola città non si sfugge a niente. La città sa tutto ma mai abbastanza”, con elementi che affiorano da un sottobosco di ricordi brutali, spingono Il caravan a riunire le due giovani donne. La ricostruzione del percorso, lungo e tortuoso è, in filigrana, anche un tentativo di raggrumare i miseri resti di esistenze ferocemente mutilate, fin dall’infanzia. Laggiù va cercato il legame profondo che incolla Khaki a Rayelle, perché “quando le ragazze non esistono, finiscono per scomparire”, ma se Rayelle in qualche modo, trascinandosi e arrancando al seguito di Couper riesce a mantenere una limitatissima e fragile parvenza di equilibrio, Khaki ha saltato il fosso. È diventata una serial killer, che accoglie donne (il più delle volte, ragazze) sofferenti e svuotate, che hanno cercato di “rosicchiarsi una via d’uscita dalla propria gabbia”, tra abusi, depressioni, aborti, dipendenze. Conosce bene la trafila, per cui Lle protegge, le nutre, le ama e le fa lavorare a soddisfare le perversioni della piccola borghesia provinciale. Poi, le fa a pezzi e se ne va, per ricominciare in un’altra small town. Ma Khaki non è una negazione, è la risposta a bisogni nascosti e ad appetiti inconfessabili, oscuri e minacciosi, a cui si dedica sapendo che “per le ragazze come noi non c’è una prima volta e non c’è un’unica volta. Non c’è niente di speciale, e non c’è amore. Continua per sempre, come un ciclo che si ripete nel cervello, una scopata infinita che ti spacca in due e ti trasforma le viscere in un’unica grande cicatrice”. Quello è il fondo della strada, e Khaki, nella sua fredda e folle lucidità sa benissimo cosa sta facendo: “Quando me ne sono andata da quel motel, ho lasciato tre cadaveri. Uno a casa. E uno nell’oceano, dove non avevo mai avuto intenzione di perderla, la mia sirena che galleggiava, cantava, con i capelli come un’aureola intorno al viso da bambina Quando me ne sono andata da lì, ho sentito la mia facciata che si incrinava. Stavo diventando trasparente, sempre più difficile da trovare”. Sta sfumando in un’ombra e, in breve, si sta cancellando, ma per farlo deve lasciare via libera alla furia che si porta dietro. Una figura tragica, emblematica, difficile da digerire, ma perfettamente sintonizzata al viaggio nella notte americana di Jennifer Pashley. Se parte dall’idea, a suo modo classico, che “esistono solo due tipi di storie: qualcuno di nuovo che arriva in città o qualcuno che se ne va”, Il caravan poi non nasconde nulla, non generalizza, ed è un tuffo a testa bassa nel vuoto, nella desolazione e nella disperazione, ovvero “una storia di morte, lutto e alcol”. La vera storia dell’America.