giovedì 31 gennaio 2013

Breece D'J Pancake

I racconti di Trilobiti, dodici smorfie di dolore e di presagio,  sono frustate, nella migliore delle letture, e affiorano da un mondo blue collar dove un lavoro più o meno onesto è già tutto. Siamo nella Virginia occidentale, l’unico stato nato dalla guerra di secessione (come dire: un caso a parte) e Ginny, Jim, Sally, Buddy, Ellen, Skeevy, Corey (solo per citare l’inizio di una lunga teoria di nomi) sono imprigionati in un terra dura, che li nutre con il carbone incastonato tra arenaria e argilla, l’unica ricchezza, a parte la caccia e la pesca, vissute ancora in modo primordiale.  Scavano in miniera, vivono in carcasse di treni, abitano in macchine sfondate, le case dove cercano rifugio sono baracche degne del più infimo dei juke-joint e lo spettacolo più eccitante che gli può capitare è andare a vedere un mangiatore di serpenti. Questo è il paesaggio e siamo anche oltre il proletariato di Raymond Carver, in direzione ostinata verso il basso: uno dei lavori più agognati è viaggiare sul fiume, dove è sempre dura perché per rovinarsi basta che “qualcosa va storto, ci si aggrappa al cavo sbagliato, si fa un movimento stupido alle chiuse del canale. Ma se niente va storto, per un mese ci si ferma e se si è fortunati si può vivere in questo modo per il resto dei propri giorni”. In queste condizioni, anche solo una vaga idea di felicità rimane molto lontana e i rapporti sono sempre segnati da una violenza strisciante che, non di rado, si manifesta in modo eloquente e spietato. La scrittura di Breece Dexter John Pancake è intuitiva, aspra, intrisa di blues, attenta al minuscolo del quotidiano, al particolare della frase e alla formazione di frangenti che si stagliano nei racconti, passo dopo passo, con tutta la fatica di arrivare a un’espressione compiuta: “Voglio parlare, ma le immagini non diventano parole. Mi vedo disintegrato, ogni cellula a miglia di distanza dalle altre. Le rimetto tutte insieme e mi inginocchio sull’erba scura. Mi sdraio a faccia in su e guardo a lungo nel vuoto prima chiudere gli occhi”. Trilobiti alimenta i fantasmi e al saldo delle celebrazioni di Kurt Vonnegut, Tom Waits, Joyce Carol Oates, Andre Dubus, mostra un talento chiarissimo, senza dubbio, anche se  la tormentata storia di Breece D’J Pancake risuona indissolubile e in tutto il suo peso dagli unici racconti che ha lasciato. E’ il limite di frammenti collezionati per sempre, che sappiamo meravigliosi e nello stesso tempo brutali e disperati perché né lui né la sua scrittura avranno modo di crescere. Il fatto che si sia sparato (in modo voluto o accidentale, non fa molta differenza) lo rende tale e quale uno dei disperati protagonisti di Trilobiti e il processo di identificazione passa persino attraverso attraverso la percezione che le sue paure possano allontanarsi “in cerchi concentrici attraverso il tempo, per un milione di anni”. Anche lui è partito: solo i Triboliti resteranno per sempre, proprio come fossili duri, secchi e compatti che lasciano aperta la porta a un’infinità di domande.

mercoledì 30 gennaio 2013

Don DeLillo

Se l’omicidio è l’espressione del potere, il terrorismo diventa la forma definitiva di arte e il complotto ordina tanto il matrimonio di seimilacinquecento coppie del reverendo Moon quanto il funerale funerale di massa di Khomeini: nei piani inclinati di Mao II, che portano da New York a Beirut, “il futuro appartiene alle masse” e il destino è deciso altrove. Nello spiraglio aperto sulla realtà del mondo moderno, Don DeLillo accetta, prima di tutto, una sorta di subalternità del narratore nel tracciare ipotetiche coordinate per comprendere le deviazioni e i fallimenti genere umano: “Anni fa credevo ancora che fosse possibile per un romanziere alterare la vita interiore della cultura. Adesso si sono impadroniti di quel territorio i fabbricanti di bombe e i terroristi. Ormai fanno delle vere e proprie incursioni nella coscienza umana. Era quanto solevano fare gli scrittori prima che fossimo tutti incorporati”. Ciò non toglie che possa essere ancora un validissimo e quanto mai ispirato testimone: Mao II ha visto il futuro con lucida visionarietà, una crepa nel tempo dalle linee nette, profili precisi e senza una sbavatura, tagliente come i bordi di un diamante (non a caso Thomas Pynchon ha detto che Mao II è un gioiello). Una percezione molto avanzata nel tempo e in tutti i sensi che, isolando un tratto in apparenza confuso e frenetico della storia occidentale, fugge dal tentativo di vedere una trama complessiva, anche nel romanzo stesso, e collima il mirino con un orizzonte molto lontano. Mao II è del 1991, nell’empty sky di New York del 2001 sarebbe stato poco meno di una parabola e all’alba del 2011 è ancora pericolosamente attuale, soprattutto dove Don De Lillo dice: “In società ridotte allo sperpero e alla sovrabbondanza, il terrore è l’unica azione significativa. C’è troppo di tutto, ci sono più cose e messaggi e significati di quanti ne possiamo usare in diecimila vite. Inerzia e isteria. E’ possibile la storia? C’è qualche persona seria? Chi dobbiamo prendere sul serio? Solo il credente letale, la persona che uccide e muore per la fede. Tutto il resto viene assorbito. L’artista viene assorbito. Il pazzo per strada viene assorbito, trasformato e incorporato. Gli dai un dollaro, lo metti in uno spot televisivo. Solo il terrorista resta fuori. La cultura non ha ancora trovato il modo di assimilarlo. E’ sconcertante quando uccido l’innocente. Ma questo è precisamente il linguaggio per essere notati, l’unico linguaggio che l’occidente comprenda. E poi il modo che hanno di determinare l’idea che ci facciamo sul loro conto. Il modo che hanno di dominare il flusso interminabile delle immagini”. Il ritmo che Don DeLillo impone alle parole è l’unico in grado di competere con quello che raccontano, ovvero l’impero dominante delle ultime notizie, il costante trasecolare di fronte alle novità che appaiono, che deflagrano, che turbano e che s’impongono ed è vero che “i libri non finiscono mai”, ma bisogna anche dire che Mao II è qualcosa in più di un romanzo, bellissimo e complesso. E’ un incubo a occhi aperti. La realtà. Una premonizione. 

lunedì 28 gennaio 2013

Guy Vanderhaeghe

Shorty McAdoo è il classico personaggio che ha visto e vissuto troppo. Ha attraversato in prima persona the real wild West, è stato guida perspicace in cerca di frontiere da superare e ha seguito i cacciatori nelle loro scorribande. E’ l’uomo che sta cercando Damon Ira Chance, produttore cinematografico con un’idea fissa: quella di realizzare un enorme colossal, il film definitivo sul West. Nella sua distorta percezione della realtà, Shorty McAdoo è il serbatoio infinito di tutte le storie e le identità che dovrebbero riempire i chilometri di pellicola del futuro capolavoro. Ovviamente il suo status gli impedisce di può occuparsene in prima persona, così incarica un giovane sceneggiatore, Harry Vincent, di rintracciarlo e di cavargli quanto più materiale utile si riesca. Non senza resistenze, Shorty McAdoo accetta infine di raccontare la sua storia e la differenza, il contrasto tra il suo West e quello che vorrebbe Hollywood, è il cardine su cui si regge il romanzo di Guy Vanderhaeghe. Una contraddizione che vede il tronfio Damon Ira Chance in prima linea, così certo e presuntuoso delle proprie idee da non accorgersi che La storia di Shorty, quella che Harry Vincent sta raccogliendo su sua commissione, non corrisponderà mai ai suoi progetti. Forse ha ragione quando dice: “Gli americani sono un popolo pratico, amano i fatti; i fatti sono solidi, reali. L’americano medio si sente sciocco quando si gode una storia inventata, si sente infantile, insicuro, un’acchiappaluna, un sognatore. Non vuole sentirsi imbrogliato o preso per i fondelli, non vuole sentirsi un sempliciotto che acquista merce da un ciarlatano. Preferisce credersi virtuoso perché ha imparato qualcosa di utile, si è informato e migliorato”. Nel West di Shorty, che Guy Vanderhaeghe descrive con un occhio di riguardo per Cormac McCarthy e con i ritmi serrati di Jim Harrison, i fatti sono troppo duri e crudeli per il cinema e se è vero che “la poesia dei fatti è la poesia dell’anima americana” non è detto che quest’ultima debba coincidere necessariamente con quella di Hollywood. “Il principio di un film è la rivelazione” scrive Guy Vanderhaeghe e la sua esistenza è tutto nel movimento, nella velocità, nell’impressione. Fa leva sulle emozioni, sui sentimenti e non lascia il tempo e il modo di osservare, discutere, riesaminare, pensare. Per chi ha scavalcato le montagne, cavalcato attraverso le praterie e assistito ai massacri di esseri viventi di ogni specie e forma “Hollywood è una tazza di latte acido, buono al massimo per attirare le mosche”. La diffidenza di Shorty McAdoo è contagiosa, tanto che mamma Reardon, sua ospite californiana dice, giusto per rendere l’idea: “La gente del cinema non entra nella mia casa, se posso farne a meno. Sono tutti ladri e puttane, a parte i cowboy; quelli magari sono maleducati, ma onesti”. Probabilmente soltanto un canadese, quale è Guy Vanderhaeghe, poteva camminare sul filo di rasoio tra due miti americani senza paura di cadere, cioè con quell’equilibrio che gli consente anche un finale ad effetto, proprio nel cuore di Hollywood.

mercoledì 23 gennaio 2013

Stephen King

Nella prolifica produzione di Stephen King, oltre ai fisiologici alti e bassi, ci sono romanzi che rivestono un significato particolare e resistono con maggiore decisione al passare degli anni, fino a diventare dei (suoi) classici. Misery è uno di quelli e lo stesso Stephen King si è dilungato in On Writing, raccontandone la genesi e la natura. Tutto nasce da un’appunto su un tovagliolo preso durante un volo verso Londra. Arrivato in albergo e in preda al jet lag (e ai postumi dei suoi abusi) a Stephen King ronzava in testa l’idea che si era segnato sull’aereo e chiese alla reception di trovargli un posto tranquillo dove poter scrivere. Gli diedero la scrivania dove, così sembra, lavorava (e morì) Ruyard Kipling e lì butto giù l’essenza di Misery, nella forma di un racconto con il working title di The Annie Wilkes Edition. E’ solo l’inizio perché i personaggi erano destinati a prendersi tutto quello che volevano e lo stesso Stephen King dice che “nessuno dei particolari e degli episodi di quella storia nasceva da una trama prestabilita; erano elementi organici, ciascuno di essi una parte ancora nascosta del fossile”. Una volta liberati avrebbero popolato un trama agghiacciante e claustrofobica, che vale la pena riassumere ancora una volta. Paul Sheldon è uno scrittore famoso e popolare (non sempre le due definizioni coincidono) soprattutto per la serie che ha come protagonista Misery Chastain. Viene salvato da un pauroso incidente stradale a Silver Creek, tra le nevi del Colorado, da Annie Wilkes. Quello che all’inizio sembra un miracolo (la sua salvatrice è un’ex infermiera che fa l’impossibile per guarirlo) diventa un incubo perché è anche la sua ammiratrice numero uno. Quando scopre che il suo amatissimo e curatissimo scrittore  ha deciso di concludere la serie di Misery, facendo morire l’eroina, Annie Wilkes si trasforma nella sua aguzzina. Il ritratto che ne fa Stephen King in On Writing è abbastanza credibile: “Annie Wilkes, l’infermiera che tiene prigioniero Paul Sheldon in Misery, può sembrare una psicopatica a noi, ma è importante ricordare che lei si vede perfettamente equilibrata e razionale; è, anzi, una donna minacciata che cerca di sopravvivere a un mondo ostile pieno di burbe e caccolicchi”. Misery è l’apologia delle ossessioni: l’ossessione per le storie che vivono di vita proprio l’ossessione dello scrittore per i suoi personaggi, l’ossessione dei fans per lo scrittore che secondo Stephen King partecipano insieme a una sorta di magia, e guai a chi la tocca. Ai primi tocca la costanza della lettura, agli altri rispettare la regola, secondo Stephen King, per cui “scrivere è tirarsi su, mettersi a posto e stare bene”. Per Paul Sheldon è un bel problema, visto che è finito nel maelström dell’ossessione, e in effetti è lì la soluzione di Misery. Anni dopo, così vuole il destino, toccherà anche a Stephen King, investito da un furgone senza controllo, finire come lui. Per fortuna, senza una Misery Chastain da tenere in vita e senza Annie Wilkes intorno.

martedì 15 gennaio 2013

Nathanael West

E’ sempre vero che “tutti hanno una storia da raccontare” e la Signorina Cuorinfranti, pseudonimo dietro il quale si nasconde un giornalista la cui carriera è finita in un vicolo cieco, raccoglie interi cahiers de doléances di tutta la città. Siamo a New York, subito dopo il crollo finanziario ed economico del 1929, una crisi che si protrae come un’epoca a sé stante, dove tutti vivono in un limbo grigio e cupo. La Signorina Cuorinfranti, che ha “una fissa per l’umanità”, non si limita a leggere confessioni e suppliche e resoconti di vite in pezzi che arrivano sulla sua scrivania in forma di lettere. Non gli basta nemmeno rispondere nello spazio della sua rubrica e fatica sempre di più ad arginare lo strazio con le parole finché “aizzato dalla sua coscienza, cominciò a generalizzare: gli uomini hanno sempre combattuto contro la loro misera condizione ricorrendo ai sogni. Anche se un tempo i sogni erano stati molto potenti, oggigiorno il cinema, i giornali e la radio li rendevano puerili. Tra i tanti tradimenti, questo era senz’altro il peggiore”. E’ allora che la Signorina Cuorinfranti decide di togliersi la maschera e di scoprire i volti, le vite che si nascondo dietro le storie che riceve ogni giorno. La linea di confine viene varcata in vari speakeasy dove bevono whisky (parecchio) e quando si incontrano per caso, per sbaglio o quando si danno un appuntamento è per confrontarsi (diciamo così) su livelli dove non è escluso nulla, dal sesso alla fede fino alla violenza. Il romanzo, spaccato in più episodi, in cui la Signorina Cuorinfranti è sempre protagonista è un’odissea negli inferi psicologici della solitudine non meno che in quelli della promiscuità, in cui la città (e nello specifico, New York) ha un ruolo determinante. Le condizioni storiche e metropolitane non sfuggono a Nathanael West dato che gli è ben chiaro che “gli americani avevano dissipitato la loro energia razziale in un’orgia di pietre spaccate. Nella loro breve esistenza avevano spaccato più pietre loro di quante ne avessero spaccate gli egiziani in tanti secoli. Per di più avevano compiuto questo lavoro con isterica disperazione, quasi si rendessero conto che quelle pietre un giorno li avrebbero spaccati a loro volta”. Il romanzo non è una lettura agevole, è pieno di spigoli e di angoli bui e lo slang di Nathanael West è grezzo e martellante perché pesca direttamente dalla disperazione di un’intera umanità imprigionata nelle proprie debolezze: Signorina Cuorinfranti, come il personaggio da cui prende il titolo, le riflette e come un medico trasportato più dall’emozione che dalla scienza alla fine si lascia contagiare, tanto che arriva ad ammettere che “aveva la sensazione che il suo cuore fosse una bomba, una bomba complicata che avrebbe finito per scoppiare in maniera molto semplice, devastando il mondo senza neanche farlo tremare”. E’ l’effetto primario di Signorina Cuorinfranti, che non concede alcun margine di trattativa ed è duro, aspro e bruciante, tutte doti che ne hanno fatto un classico.

mercoledì 9 gennaio 2013

Joseph Mitchell

Joe Gould è l’archetipo del bohémien inconcludente, sempre affetto dalle tre S (stomaco vuoto, sbornie e senzatetto) e da un sogno troppo grande e/o altrettanto confuso. Quello che Joe Gould insegue nelle backstreets del Village è “una storia orale del nostro tempo”, un’opera  destinata a essere lunga come undici Bibbie. Cominciata sei anni prima e mai finita è lo scopo supremo della sua vita e l’idea, come poi avrebbe confermato tra gli altri anche un intellettuale lucidissimo come Howard Zinn, ha un suo peso specifico perché “ciò che la gente dice è storia. Quello che un tempo pensavamo fosse storia, re e regine, trattati, invenzioni, grandi battaglie, decapitazioni, Cesare, Napoleone, Ponzio Pilato, Colombo, William Jennings Bryan, è solo storia ufficiale, in gran parte falsa. Io scriverò la storia alla buona delle moltitudini in maniche di camicia, quello che hanno da dire sul lavoro, sull’amore, sul vitto, sui bagordi, sui guai, sugli affanni, oppure perirò nello sforzo”. Per restare incollato alla sua utopia, Joe Gould vive “l’arte del fai a meno”, evita in modo accurato un lavoro decente o regolare che gli impedirebbe di pensare e rimane tutto il santo giorno in ascolto di “conversazioni prolisse e conversazioni brevi e vivaci, conversazioni brillanti e conversazioni sciocche, bestemmie, slogan, commenti grossolani, frammenti di litigi, borbottii di ubriachi e mentecatti, implorazioni di mendicanti e barboni, proposte di prostitute, imbonimenti di bancarellisti e venditori ambulanti, sermoni di predicatori di strada, urla nella notte, dicerie incontrollate, grida accorate”. La presenza stessa di Joe Gould diventa una parte di New York, in particolare nel Greenwich Village, ed è l’apologia dei bassifondi, di uno spirito libero e iconoclasta e insieme di tutto un universo di outsider, compresi “gli eccentrici, gli spostati, i tubercolotici, i falliti, le promesse mancate, le eterne nullità”, lui stesso in testa al variopinto corteo e poi “gli altri si sono persi per strada. Qualcuno è nella tomba, qualcuno in manicomio, e qualcuno nel mondo della pubblicità”. Se va a caccia di ketchup, di mozziconi di sigaretta, di frasi colte al volo e del momento giusto, quando tutto va a rotoli, per scriverle per sempre. E’ quello che ha fatto per lui Joseph Mitchell con una visuale sempre ravvicinata e misurata eppure coinvolgente: “Se proprio doveva recitare la parte dell’idiota, l’avrebbe fatto su una scena più grande, davanti a un pubblico più congeniale. Era venuto al Greenwich Village e si era trovato una maschera, l’aveva indossata e non se l’era più tolta”. In effetti,  vivendo sulla strada, open air, Joe Gould di segreti non ne ha molti, ed è una figura pubblica nel migliore dei sensi, cioè che appartiene a tutti, proprio come dovrebbe tutti dovrebbero percepire l’indiscutibile necessità di proteggere almeno l’idea, l’eventualità di una vita o anche di una porzione di vita con un minimo margine di eccentricità, fosse soltanto una fugace deviazione o una piccola, salutare fuga dalla realtà.

domenica 6 gennaio 2013

Kurt Vonnegut

Per capire di cosa si sta parlando, quando si parla di Cronosisma: “Il presupposto di Cronosisma Uno era che un terremoto, un improvviso difetto del continuum spazio-temporale, costringesse tutti e tutto a ripetere ciò che avevano fatto nel decennio precedente, buono o cattivo che fosse. Si trattava di un déjà vu della durata di dieci lunghi anni. Non potevi lamentarti del fatto che la vita fosse roba rifritta, né chiederti se stessi diventando scemo o se tutti stessero diventando scemi. Non c'era assolutamente niente che potessi dire durante la replica se già non l'avevi detto una prima volta nel corso del decennio precedente. Non potevi nemmeno salvarti la vita, o salvare quella di un tuo caro, se non eri riuscito a farlo nella prima occasione”. Protagonisti dei cronosismi (che in poco tempo diventano due) sono Kilgore Trout, scrittore di fantascienza (o fantascientifico) e il suo alter ego, Kurt Vonnegut. O (come si sa) viceversa, ma non è un grosso problema, perché una volta finiti tra i rami del folle albero genealogico che Kurt Vonnegut dipana tra le pieghe di Cronosisma o si è disposti ad accettare tutto e di tutto, o è meglio lasciar perdere. All’età di settant’anni e senza aver perso un filo della sua verva visionaria e sarcastica, Kurt Vonnegut poteva permettersi questo ed altro, compresa una sottile vena di ripetitività o, per dirla con l’ineffabile Kilgore Trout, persino di viaggiare con il pilota automatico. Difficile però andare a dirglielo perché proprio nel caos di Cronosima è facile vedere una rappresentazione paradossalmente realistica del mondo in cui viviamo, dove, “così come durante una replica conseguente a un cronosisma, la gente non cambia, non impara mai nulla dai propri sbagli, e non chiede scusa”. Nel Cronosisma il tempo fluttua nel disordine delle parole, nel florilegio  di citazioni degli altri scrittori (un piccolo saggio delle letture Kilgore Trout: Willa Cather, Saul Bellow, Heinrich Böll, Thornton Wilder, Jerzy Kosinski, Sinclair Lewis, John Steinbeck, Isaac Asimov, Hemingway e Thoreau, Shakespeare e Voltaire e, più di tutti, George Bernard Shaw e Vonnegut stesso) e con la riduzione temporale del cronosisma più pericoloso, quello della televisione perché “le battute per la TV debbono riguardare eventi che abbiano avuto a che fare con la TV, e molto recentemente. Se una battuta avesse riguardato qualcosa che non era passato in TV per un mese o più, gli spettatori non avrebbero avuto idea su cosa dover ridere, per quanto le risate registrate potessero essere contagiose. Capito? La TV è una gomma per cancellare”. Se c’è un’alternativa al cazzeggio di una vita, come lo chiama Kilgore Trout, lo può dire solo Kurt Vonnegut che infatti nelle prime pagine di Cronosisma spiega: “Nelle conferenze sostengo che una plausibile missione degli artisti sia quella di far sentire le persone almeno un po’ contente di essere vive. A quel punto c’è sempre qualcuno che mi chiede quale artista ci sia riuscito. Io rispondo: i Beatles”. Si può convenire, aggiungendo gli Stones.

venerdì 4 gennaio 2013

Charles T. Powers

C’è un villaggio polacco che è stato attraversato dalla storia e dove, anche se in pochi se ne sono accorti “c’è sempre stato qualcuno, c’è sempre stato un segno, un’orma lasciata nel dolce alternarsi delle stagioni, nelle generazioni di foglie cadute e marcite”. In quell’angolo freddo e sperduto i grandi cambiamenti umani e politici, le guerre, l’abominio del nazismo sono arrivati quasi come l’eco di una voce lontana, eppure provocano variazioni impercettibili, strani comportamenti, tradimenti, prove di forza perché “la nostra storia è come una forza alle nostre spalle, che ci incalza senza farsi riconoscere, ma che detta il modo in cui viviamo la nostra vita”. La piccola e ombrosa comunità viene scossa dalla scoperta del cadavere di un ragazzo, il primo passo di una spirale che per il protagonista de La memoria della foresta si sviluppa in modo esponenziale visto che “i fatti che sono successi qui, per piccoli che possano apparire, sono diventati per me, e forse per tutti noi, una lotta contro il passato e contro la profezia, contro la storia e contro il futuro”. A Jadowia, il tempo scandito dalle stagioni non è un’opinione è un campo magnetico a cui nulla può sfuggire e “così la storia non molla, e a volte torna indietro e ci assale all’improvviso”. Sembra che ogni singolo albero, carro o animale notturno possieda una propria memoria, tanto che Leszek Maleszewski arriva a dire: “Non sono sicuro di credere agli spiriti, ma credo senza dubbio in una sorta di coscienza, di consapevolezza, che in parte è immaginazione, estrapolazione, o forse un origliare dovuto all’intuizione”. Su questo tessuto umano, in apparenza inpenetrabile, bucolico e gonfio di vodka, in realtà ipersensibile e attentissimo, s’innesta un omicidio che è un buco della serratura attraverso il quale s’intravedono altri mondi, altre epoche intrise di ricordi ingombranti e lancinanti. “Un tempo nuovo ci incalza. Molti di noi devono fare del loro meglio per crederci, e molti non vogliono, molti non possono” dice Leszek Maleszewski e lui stesso prova a farlo con tutto quel poco che ha. Jadowia diventa una terra di nessuno tra due differenti e opposte necessità, quelle dell’oblìo e della memoria, che si confrontano schierando falangi di fantasmi. Emergono tra gli alberi, sui sentieri, dalla nebbia e più di tutto nelle parole che svelano e nascondono segreti avvolgendo, increspando e imprigionando le vite dei personaggi. E’ sufficiente una pagina di prologo e in un baleno si è avvolti dalla storia, che “per metà è tutta una bugia, mentre l’altra metà si regge sul tentativo di non ricordarne la parte peggiore”: la scrittura di Charles T. Powers (che è stato inviato del Los Angeles Times a Varsavia per più di vent’anni ed è scomparso nel 1996), è un flusso inarrestabile che si dipana senza esplosioni o fragrori, ma con una certosina attenzione al tono e all’atmosfera e un  ritmo costante, metodico e a lungo andare ipnotico, che rende speciale La memoria della foresta un romanzo unico e singolare. 

giovedì 3 gennaio 2013

James Sallis

Le Vite difficili indagate da James Sallis, narratore con una spiccata propensione per la musica e i profili dei territori americani, e altrettanto efficace biografo e saggista, sono uno con cui lo scrittore scavalca il tema esplicito, arrivando a scoprire, in fondo, che “Più di ogni altra cosa, forse, l’argomento di questo mio libro è stato l’insuccesso. Ma mi accorgo di aver finito per scrivere anche di come le nostre vite di lettori, e soprattutto di scrittori, abbiano un’imperfetta redenzione attraverso la letteratura. E di aver parlato di un genio tutto americano per l’astuzia, l’eccentricità e la perversità, per riuscire a portare in fondo le cose a dispetto di noi stessi. Come specie, come nazione, come individui vediamo le nostre forze sorgere spesso dalle nostre debolezze”. Una bella definizione e James Sallis non deve ripassare per presentare con la giusta temperatura gli identikit di Jim Thompson, David Goodis e Chester Himes, i tre scrittori che ha scelto per rappresentare “quella pietra angolare della letteratura americana” che è il romanzo poliziesco (o noir, o hard boiled o con ogni altra declinazione lo si voglia identificare). La chiarezza con cui James Sallis delinea l’esistenza delle tre Vite difficili gli permette di convocare attorno a loro uno spettro significativo di narratori, utile a scoprire “l’anima nera di una nazione”. En passant, l’elenco comprende James M. Cain, Horace McCoy, Ross MacDonald, Mickey Spillane, Cornell Woolrich, Dashiel Hammett, con cui comincia tutto e infine, va da sé, Raymond Chandler. Gli aspetti biografici si avvinghiano a quelli letterari e James Sallis è molto abile nell’evidenziare i tratti principali di ciascuno di loro, in modo breve, coinciso eppure esauriente. Già la scelta dovrebbe essere indicativa perché, pur con le dovute differenze, Jim Thompson, David Goodis e Chester Himes hanno scritto, rappresentato (e vissuto) mondi marginali e violenti, fallimentari e oscuri che sapevano far diventare, nella definizione dello stesso James Sallis “oggetti rari e meravigliosi: diamanti di seconda scelta, forse, ma pur sempre diamanti. Fatti per essere usati, e non ammirati, hanno i loro grossi difetti. Eppure, messi controluce riflettono le nuove prospettive di un mondo che credevamo di conoscere. E sanno penetrare a fondo oltre lo schermo dietro il quale la vita svolge il suo corso”. La distinzione non è relativa perché Vite difficili si apre con un illuminante (ed importante) squarcio sull’ascesa e sulla caduta dei paperback, quei romanzi “mondi portatili” che costituirono una parte fondamentale della cultura popolare che, come scriveva D.H. Lawrence altro non è “se non una caricatura della storia, capace di mettere in estremo rilievo i sentimenti e il modo di pensare di una nazione”. Per questo Vite difficili, oltre a leggersi come un romanzo e a introdurre tre grandi scrittori, è anche una testimonianza di rilievo per tutto un immaginario (rock’n’roll compreso) che prende forma dalle pagine nere di un’intera nazione. 

mercoledì 2 gennaio 2013

Bret Easton Ellis

Trent’anni dopo, Meno di zero è un bizzarro reperto archeologico, intenso e fluorescente, che parla ancora del futuro. Il suo è un tempo immobile, un eterno presente, artificiale e ambiguo come è Los Angeles con i suoi deserti, immaginari o reali che siano. L’elogio dell’evanescenza di Bret Easton Ellis ha il ritmo feroce di un videoclip perché si ingozza delle due principali attrazioni cittadine, la finzione continua e suprema del cinema e la feroce velocità della musica pop. Il senso della prospettiva permette di seguire e di comprendere con maggiore precisione quegli indizi musicali che sono determinanti nel formare il ritmo di Meno di zero e nello svelarne i temi fondamentali. A scanso degli equivoci generati dal titolo, i riferimenti musicali appartengono ben poco alla caustica ironia di Elvis Costello: fin dall’esordio, Bret Easton Ellis è sempre stato molto abile nella sottile arte del depistaggio, disseminando tracce e indicazioni contrastanti. In realtà, la colonna sonora di Meno di zero appartiene alla generazione dei genitori ed è da lì che forse bisogna partire. Quando, all’inizio del romanzo, Clay sale sulla macchina del padre che gli mette un cassetta di Bob Seger “nell’assurdo tentativo di stabilire una comunicazione”, è già chiaro l’abisso. Bret Easton Ellis non lo dice, ma le coordinate temporali suggeriscono che quel nastro sia The Distance e se la frattura è evidente perché Bob Seger è più vicino agli Eagles che agli X, bisogna ammettere che genitori e figli vivono tutti nell’atmosfera vacua e decadente di Hotel California. Nel colmo delle reaganomics non ci ci si chiede da dove provengono i soldi, e non serve chiedersi dove vanno a finire: Mercedes, Porsche, Ferrari, cocaina, champagne, psichiatri e lifting (un’associazione da tenere ben presente) in cerca di un’identità che non c’è perché la promiscuità di Los Angeles è una somma infinita di solitudini e, come dice Clay alias Bret Easton Ellis “qui si può sparire senza saperlo”. Non a caso, il simbolo ricorrente, il punto focale su cui si concentrano tutti gli sguardi, l’elemento che ritorna come un loop elettronico o un artificio della sceneggiatura di un film, è la piscina. E’ il gadget che definisce la noia, l’indifferenza, la disperazione, persino il colore e l’atmosfera dominanti in Meno di zero, svelati poi dallo stesso Clay quando dice: “Penso alla gente che ha paura di buttarsi, e alla piscina di notte, con l’acqua luminosa che brilla in giardino”. E’ lì che il riferimento musicale più intenso diventa la citazione Straight Into Darkness di Tom Petty perché tutti i personaggi di Meno di zero stanno andando verso il fondo, buio e senza fine, e Bret Easton Ellis usa una scrittura arida, cinica e meccanica, per scrivere un doppelgänger alterato e pop di Mentre morivo di William Faulkner, a sua volta buttato lì, tra una striscia e l’altra. I coyote scendono affamati dalle colline. John Doe e Exene Cervenka cantano Los Angeles. Tutti portano occhiali scuri, come Elvis Costello sulla copertina di Trust. C’è sempre il rischio di restare abbagliati da una grande sole nero.