martedì 29 luglio 2014

John Williams

L’esordio di John Williams è imperniato sulla figura di Arthur Maxley, giovane dissoluto e malinconico che vive “un equilibrio troppo precario”. Il più delle volte si rifugia nei ricordi e i momenti più belli restano sempre “il tempo perduto. Il tempo dell’estate, quando le foglie degli alberi si intrecciano nella luce iridescente del sole” e, di conseguenza, “quando sei molto giovane, quando la vita è una semplice, perfetta successione di giorni dorati”. La sua esistenza, scandita da una routine di alcol, noia e fantasmi è “una nuvola appiccicosa di squallore quasi tangibile” fino a quando non si avventura nell’incontro con l’altro. Nulla, solo la notte diventa la progressione esponenziale di “un incubo del presente”, di cui Arthur Maxley ha consapevolezza solo perché “mentre camminava lungo la strada traboccante di gente in quella sera d’estate inoltrata, lo colse quella solitudine particolare che si prova solo in mezzo a una moltitudine mostruosamente anonima, quell’incomparabile sensazione di puro isolamento che non si può avvertire in altre circostanze. Una figura solitaria, nella distesa immutabile del deserto, appare meno isolata di un uomo che si perde nell’infinità di una città affollata. Chi è solo nel deserto resta comunque consapevole del proprio peso, per quanto minimo, e della relazione che mantiene con lo spazio circostante. Ma chi è isolato in mezzo a uno sciame di gente perde coscienza di se stesso come individuo”. Quasi per un’ineffabile reazione chimica, il contatto con il prossimo genera una serie di esplosioni imbarazzanti negli incontri con l’amico Stafford Long, con il padre e, infine, con l’avvenente Claire Hegsic. In particolare, è un dialogo con lei ad essere eloquente, nella sua perfezione. Lui le dice: “Sono un parassita”. Claire Hegsic gli risponde: “Sono sicura che lo fai bene”. Sono tutti personaggi che prendono forma all’improvviso come apparizioni: una congrega di fantasmi e miraggi avvolti in un’atmosfera onirica, sonnolenta, una nebbia di emozioni che si gonfia in Arthur Maxley come “la somma di tutte le sue emozioni represse, amore, odio, pietà, paura e orrore, appagamento, noia, bramosia, tedio, passione, tutto, e quell’ondata torrenziale era troppo orribile perché potesse arginarla”. Già a vent’anni, John Williams mostrava una straordinaria capacità di raffinare la scrittura attorno ai personaggi e non è difficile trovare nell’immobilità emotiva di Arthur Maxley quelle caratteristiche che lo porteranno poi alla definizione superiore di Stoner. La distanza da Nulla, solo la notte è palese e naturale (ci sono più di vent’anni tra i due romanzi), ma John Williams aveva già intuito che “la peculiarità del sogno è che il sognatore è privo di potere”. E’ l’inizio di Nulla, solo la notte e rivela, persino con un certo candore, il limite estremo e insieme una delle più grandi opportunità della scrittura in sé. Essere al servizio di un sogno, che resta una materia fluttuante e disordinata come l’anima di Arthur Maxley.

mercoledì 23 luglio 2014

Joe Boyd

Le biciclette bianche affronta, attraversa e racconta gli anni sessanta e la musica, che li ha distinti per sempre e come nessun altro momento nella storia della civiltà moderna, con il tatto, la premura e l’ironia di Joe Boyd. Manager, produttore, discografico, testimone colto, appassionato, raffinato e (più di tutto) partecipe, Joe Boyd era lì, sul luogo del delitto, durante la rivoluzione copernicana di Bob Dylan a Newport nel 1965 o mentre i Pink Floyd emergevano come una visione lisergica all’UFO di Londra ed era ancora lì quando, ormai al crepuscolo degli anni sessanta, prese per mano un fragile e geniale songwriter destinato a diventare (per sempre) Nick Drake. Il periodo potrebbe indurre a immaginare un retrogusto di nostalgie, di rimpianti o di celebrazioni, invece Joe Boyd si rivela un narratore abbastanza accorto e con quel minimo sindacale di consapevolezza (anche qualcosa in più) per non lasciarsi trascinare dagli eventi e dalla naturale inclinazione a deformare i ricordi e le biografie, compresa la propria. Le biclette bianche è più vicino a uno stralcio di narrativa che a un saggio o a memoir e se la musica è l’elemento principale, Joe Boyd ricorda che il terremoto è arrivato perché “c’era la percezione che nulla fosse stato definito, che un presupposto si potesse sfidare. I miti affrontavano regolarmente i potenti e spesso vincevano, o almeno ci provavano. Studenti senza debiti con tempo a disposizione costrinsero il Pentagono a smettere di impiegare i ragazzi di leva americani come carne da cannone e cambiarono il paesaggio politico della Francia”. Le biciclette bianche partono da questo magma e Joe Boyd comincia la sua carriera proprio in Europa, dove si trova ad accompagnare Coleman Hawkins poi, tra il 1966 e il 1974, produce tra gli altri l’Incredible String Band, il primo singolo dei Pink Floyd, Nick Drake, Desertshore di Nico e John Martyn fino a Dueling Banjos ovvero la colonna sonora di Un tranquillo week-end di paura, a suo modo un ritorno alle radici. Attorno a questi dischi e a questi nomi Le biciclette bianche prendono forma come istantanee di un momento analogico, scandito da conversazioni logorroiche, assegni in bianco, tumulti personali e collettivi. Sono anni di grandi movimenti ideali e Joe Boyd non perde l’occasione per un’analisi approfondita rivelando, da suo punto di vista, che “sotto la superficie, gli anni sessanta progressisti nascondevano molti aspetti di sgradevolezza: il sessismo, il conservatorismo, il razzismo e il conflitto fra diverse fazioni. In realtà, nulla di stupefacente. L’idea che le droghe, il sesso e la musica potessero trasformare il mondo fu sempre un sogno molto ingenuo”. Una visione molto lucida, corroborata da una lunga teoria di missing in action che Le biciclette bianche non dimentica perché, come scrive ancora Joe Boyd, “ottenemmo molto, prima che le autorità capissero come capitalizzare la nostra autodistruttività”. Con grande sincerità, Le biciclette bianche dice che finita la rivoluzione, è rimasta la musica: non è poco, non c’è molto altro. Indispensabile.

venerdì 18 luglio 2014

Wallace Stevens

Anche in un minuscolo libro che raccoglie piccole frasi, versi sparsi e altri frammenti di scrittura, Wallace Stevens si rivela un poeta in grado di elevare il suo ruolo, il suo lavoro a un livello superiore. Le schegge raccolte in Aforismi e prose sono indicazioni per prendere le misure alla realtà attraverso la poesia e come interpretare la poesia guardando gli effetti della realtà e Wallace Stevens è esplicito nell’indicare le direzioni e il senso di marcia: “Noi abbandoniamo il reale e vi torniamo, torniamo a quanto vogliamo che sia reale, non a quanto è stato, non a quanto troppo spesso è stato”. In pochi, nel ventesimo secolo, hanno saputo scrivere e, soprattutto, leggere la poesia come Wallace Stevens con l’idea, convinta, che “la vita è il riflesso della letteratura”, piuttosto che del contrario. Le interpretazioni di quell’entità chiamata poesia sono parecchie e tutte convergono perché “le parole sono l’unico armonium” (a parte la musica, s’intende) e le definizioni di Wallace Stevens si susseguono senza soluzione di continuità perché la poesia “è qualcosa di più che un concetto della mente. E’ una rivelazione della natura. I concetti sono artificiali. Le percezioni, essenziali”, ed “è realtà e pensiero oppure emozione”, e anche se “non tutti i giorni il mondo si accomoda in una poesia” è sempre “la vita che cerchiamo di raggiungere nella poesia”. Aforismi e prose rivela “quel ronzio di pensieri elusivi”, per quello che dovrebbe essere, come scriveva Owen Barfield, “un cambiamento avvertito nella coscienza”, ed è ciò si avverte di più che nella scrittura di Wallace Stevens. Non a caso, il suo profilo combacia con ideale tracciato da Cesare Pavese: “Il poeta, creatore di favole, è geloso e studioso di questi luccichii aurorali che di ogni bella favola sono l’avvio e l’alimento. Far poesia significa portare a evidenza e compiutezza fantastica un germe mitico. Ma significa anche, dando una corposa figura a questo germe, ridurlo a materia contemplativa, staccarlo dalla materna penombra della memoria, e in definitiva abituarsi a non crederci piú, come a un mistero che non è piú tale. Allora comincia la vera sofferenza dell’artista: quando un suo mito s’è ormai fatto figura, e lui, disoccupato, non può piú crederci ma non sa ancora rassegnarsi alla perdita di quel bene, di quell’autentica fede che lo teneva in vita, e la ritenta, la tormenta, se ne disgusta. Il possesso finisce cosí, come ogni possesso, salvo che la ricca costituzione umana dell'artista non fosse tale da fargli trascurare o addirittura ignorare lo scopo puramente contemplativo del suo lavoro e indurlo a rivolgere le sue mire a uno scopo pratico (pedagogico, parenetico, culturale o sperimentale) per cui il suo interesse nell'opera sopravviva alla realizzazione”. In più, i propositi dichiarati in Aforismi e prose da Wallace Stevens concordano in gran parte con l’analisi di Pavese: “Il mio intento poetico è scrivere poesia: senza una particolare definizione, raggiungere ed esprimere quanto ognuno riconosce come poesia, e farlo perché lo sento necessario”. Un piccolo compendio di una straordinaria grandezza.

sabato 12 luglio 2014

Charles Jackson

Don Birnam non è un barfly qualsiasi ed è molto distante dalle interpretazioni alcoliche mostrate nelle infinite versioni dal cinema o della letteratura. Mentre procede con il suo piano, (il suo unico piano: “Aveva raggiunto il punto in cui c’era sempre un sola cosa da fare: bere, e bere ancora, fino a che non arrivava l’amnistia; e il giorno dopo, bere ancora) nella sua mente si affolla tutta una congregazione di idee, propositi, fantasie, illusioni e miraggi partoriti e guidati dall’euforia etilica. Una visione autoindulgente, a dir poco, in cui domande e risposte coincidono: “Sono in grado, loro, di immaginare la struttura di una storia come quella, anche solo la struttura, non la stesura? Sono in grado, loro, di immaginare come qualcuno, pur essendo capace di pensare alla struttura, pur essendo capace di padroneggiare sia la struttura che la stesura, sono in grado di capire come qualcuno possa fallire, come possa fallire semplicemente perché non riesce a scrivere, perché, come? Non c’era una risposta, c’era solo il whisky”. Avvolto in queste considerazioni, il suo volto si scontra con quello che vede nel liquore, nel bicchiere, in uno schermo ed è sempre “un uomo dentro un bar della Seconda Avenue in un pomeriggio di ottobre uguale a questo, un uomo uguale a lui, che beve un bicchiere di whisky, molti bicchieri di whisky, e guarda il suo riflesso nello specchio del bancone”. Charles Jackson è impietoso nel posizionare tutti i contrasti possibili davanti e/o dietro Don Birnam, compresa la rettilinea ragnatela di New York, come se fossero quinte ingannatrici di un moderno aggiornamento del dramma shakespeariano. Fondali da cui non c’è scampo, non c’è soluzione, se non arrivare in fondo: la stagione all’inferno di Don Birnam è una spirale in cui l’alcolismo è causa ed effetto perché “ogni giorno che aveva bevuto cancellava quello precedente, andava sempre così, sempre”. E’ il significato stesso del titolo ed è tutto nel senso della sconfitta, del fallimento, della condanna che matura con il tempo. La reiterazione diventa il ritmo della scrittura e della vita, indissolubili e schiacciate l’una dentro l’altra in un’illusione che è il distillato dei Giorni perduti: “A forza di creare cose che non esistevano la sua immaginazione lo stava portando sull’orlo del delirio, e lui avrebbe fatto meglio a rassegnarsi a questa situazione. Stava cominciando a sentire e a vedere ciò che di solito semplicemente pensava”. Ispirato, in parti uguali, come in un cocktail, da “un terzo della storia era basato su esperienze che aveva vissuto lui stesso, un terzo sulle esperienze vissute da un suo amico di cui aveva seguito da vicino la carriera di alcolizzato e un terzo era pura invenzione”, Giorni perduti è un avviso di garanzia per tutti “gli inadempienti, gli inaffidabili, gli immaturi, i nostalgici, gli eterni bambini” ed è immacolato, fin troppo esplicito, nel raccontare la pericolosissima storia d’amore con “una bella bottiglia da un litro. Grande come la vita e due volte più vuota”. Con gli omaggi del fantasma di Francis Scott Fitzgerald, che aleggia sornione su tutti i Giorni perduti di Don Birnam alias Charles Jackson.

martedì 8 luglio 2014

Stuart Nadler

Il quadro generale dei rapporti umani che emerge Nel libro della vita non è molto edificante. Le coordinate che saldano un racconto all’altro sono quelle quelle di una borghesia sull’orlo del fallimento, che ricorda molto la decadenza del citatissimo Francis Scott Fitzgerald e la rappresentazione di Stuart Nadler è impietosa, per quanto mitigata da un’ironia sottile e pungente. Un umorismo che ricorda il miglior Woody Allen, più di quello dei narratori ebrei a cui attinge Stuart Nadler (Saul Bellow su tutti), compreso il protagonista di Il nostro destino, la nostra roccia quando dice che essere ebrei, “non è una taglia unica che va bene per tutti”. La cifra è chiarissima fin dal primo racconto della raccolta. Nel libro della vita è una spirale di sotterfugi e di ricatti perché un adulterio ne rivela un altro in un gioco a incastri cinico nella sostanza eppure formale nell’apparenza. L’arte del mimetismo psicologico attraversa tutti i racconti, serve per il tradimento o per (salvare) il matrimonio, lo usano i figli per sopportare i genitori e gli adulti, uomini e donne, quando ricordano di averne appreso i rudimenti nelle rispettive infanzie. E’, più di tutto, una forma di autodifesa dalla vita, dall’alcol, dalla noia, dalle abitudini coltivate troppo a lungo, dalle comunicazioni interrotte o lasciate in sospeso. Come la protagonista di Lo sbarco sulla luna, un racconto bellissimo, che chiede: “Vuoi che ti dica che ti amo? Ti farebbe sentire meglio?”, ed è inutile dire che non c’è seguito perché “quelle parole piacciono a tutti” e sono in pochi a pronunciarle tra l’intrigo di Catherine e Henry e la dolorosa visione di La visita. E’ il vuoto tra una metà e l’altra perché i personaggi sono tutti associati in coppie, un sistema binario fatto di parallele divergenti, in tutte le versioni: marito e moglie, amante e amante, padre e figlio, fratello e fratello, amica e amica. Legami destinati a implodere fino a Oltre ogni benedizione che già lambisce una forma che va oltre il racconto. Fin lì, Stuart Nadler riesce a mantenersi lineare quanto basta, mostrando tormenti e fatiche delle storie d’amore e/o delle relative visissitudini famigliari. L’ossessione ricorrente per l’ambito domestico, l’altro tratto costante e comune a tutti i racconti di Nel libro della vita, è sentito attraverso diverse tonalità perché sembra di capire che all’interno della famiglia certe maschere psicologiche non reggono e anzi tendono a rivelarsi come riflessi, fin troppo sinceri. Stuart Nadler insegue con convinzione “una debole traccia di lealtà”, facendo lo slalom tra “una serie di silenzi punteggiati da preghiere, canzoni e risate”. Mantiene quel tanto di distacco da vedere con chiarezza le metamorfosi dei suoi personaggi e abbastanza partecipazione da risultare coinvolgente, almeno per quanto riguarda i primi racconti della raccolta. Più ci si inoltra Nel libro della vita e più è chiaro che con queste premesse la dimensione della short story gli risulta limitata, come poi si è visto  nell’evoluzione di La fortuna dei Wise, il primo (notevole) romanzo di Stuart Nadler. 

giovedì 3 luglio 2014

Evan Eisenberg

Il presupposto è decisamente ambizioso: capire cosa succede quando un evento musicale diventa oggetto, cioè viene riprodotto, distribuito e consumato in tutto il mondo. Un tema di scottante e rilevante attualità vista l’involuzione globale del mercato discografico e soprattutto la sua frammentazione che porta a limitare il significato di ogni singolo disco riducendolo ad un puro e semplice dato statistico, quale che sia la forma assunta. Evan Eisenberg, critico musicale americano dai molteplici interessi (dall’economia alla medicina alla filosofia), ha affrontato il problema, meglio specificato nel brillante sottotitolo di L’angelo con il fonografo, Musica, dischi e cultura da Aristotele a Frank Zappa, in due saggi che con eccellente lungimiranza e altrettanta precisione ha riunito in un unico, sostanzioso volume. Una scelta coraggiosa, in tempi di piagnistei editoriali e discografici, perché propone una visione approfondita ed erudita del consumo musicale senza per questo incappare in ipotesi intellettualoidi o in assurdi voli pindarici. Ovviamente, però, L’angelo con il fonografo non si presta ad una lettura casuale perché scandire il tempo della musica e della sua fruizione da Teognide a Chuck Berry presuppone una conoscenza dettagliata non solo dell'argomento specifico ma anche di tutte le tematiche che in un modo o nell'altro gli sono strettamente collegate. “La musica è solo suono” scrive all’inizio di L’angelo con il fonografo Evan Eisenberg ma poi, pagina dopo pagina, si accorge (e il lettore con lui) che questa misteriosa vibrazione ha raccolto nel corso degli anni e dei secoli l’attenzione di filosofi, poeti, narratori, scienziati, artisti e commercianti. Il lavoro di Evan Eisemberg è stato essenzialmente di raccordo, un’operazione molto postmoderna capace di realizzare un puzzle in cui si inseriscono senza particolari strappi opinioni di Platone (“La musica agisce sull'anima imprimendo direttamente sull'ascoltatore le proprie qualità spirituali, qualità a loro volta ispirate dall'anima che la musica imita”) fino a un più prosaico Jim Miller (“Fuggivo da scuola per rifugiarmi nel santuario della mia stanza dove scegliendo un singolo potevo evocare un mondo. Il rock’n’roll per me era questo”). Tra questi estremi corrono quattrocento pagine e un tale numero di domande e di risposte, di suggerimenti e di proposte che è persino difficile dare un quadro complessivo di cosa rappresenti effettivamente L’angelo con il fonografo. Un dato certo è che Evan Eisenberg ha costruito la più completa storia della discografia e per molti versi anche il più eccellente saggio sul consumo musicale che sia mai stato pubblicato. In particolare per un motivo che fa pensare più di ogni altra citazione filosofica (e ce ne sono parecchie) ed perché Evan Eisenberg tratta con pari dignità e con eguale competenza e riportandoli al centro dell’attenzione Otis Redding e Edgar Varèse, Robert Johnson e Johann Sebastian Bach, classica e rock’n’roll, blues e cacofonia, Bob Dylan e Glenn Gould.