sabato 31 dicembre 2011

Hubert Selby Jr.

Disturbati, malati, combattuti, diseredati, disperati i personaggi di Canto della neve silenziosa non sentono e non vedono più niente, anzi “il nulla e basta”. Folli, jazzisti, animali notturni, un tiro di dadi, la fugacità di incontri che non si trasformano in legami perché non ne hanno il tempo e di rapporti che si consumano perché ne hanno avuto troppo. Tutti soffrono “la buia notte dell’anima” e sono invischiati nella fitta rete di New York: i racconti di Canto della neve silenziosa sono i cantos di Hubert Selby Jr. ed è quell’umanità a formare la linea della sua scrittura, come se fosse una sorta di anfitrione dei bassifondi, un geografo delle backstreets. Come il protagonista di Pubertà, “qualcosa dentro di lui esigeva che la strada, gli edifici, la gente fossero diversi, e invece erano gli stessi, solo che lui non vi s’identificava più. Le impronte, le tracce che lui aveva lasciato in quelle strade tutte le migliaia di volte che l’aveva percorse erano scomparse, non gli sembravano più strade eppure lui continuava a percorrerle cercando evidentemente qualcosa senza avere la minima idea di cosa potesse essere, senza essere neppure sicuro se andava cercando qualcosa oppure in realtà cercava solo di fuggire”. E’ naturale e insieme logico che tragga ispirazione dalla metropolitana perché c’è movimento, linguaggio, volti, azione e lo stesso vale per lo spazio magico del cinema. Entrambi i luoghi, ricorrenti nel Canto della neve silenziosa portano nella direzione ostinata di Hubert Selby Jr., nell’oscurità e verso il basso dove scava e recupera la materia prima da plasmare “e poi, quando mi metto a scrivere, cerco e trovo la parola perfetta che descriverà perfettamente qualsiasi cosa io senta, veda o ascolti. Dunque, è un genere di cosa con forti caratteristiche visive. Voglio dire che vedo tutto molto chiaramente”. Se il linguaggio è sempre aspro, gergale, sanguinante, sono le immagini, “immagini che aiutano a passare i giorni” la vera risposta di Huberty Selby Jr. perché vuole portare il lettore più a vedere, che a leggere, a vivere un’esperienza sensoriale che lo porterà fuori dalla pagina bianca, piuttosto che dentro. Sembra un paradosso, ma è proprio così: funziona in tutti i racconti, diventa evidente in Canto della neve silenziosa, l’ultimo capitolo che offre anche il titolo alla raccolta. Alla fine la “neve silenziosa” è la sola, piccola consolazione che prende forma, a tempo ormai scaduto, quando Harry, l’alter ego metropolitano di Hubert Selby Jr. per un istante sembra intuire un senso della vita: “Si rese conto che sorrideva nell’ascoltare le loro voci e ch’era invaso dal calore della felicità. Non era la gioia di qualche attimo prima ma una felicità che non provava da quelli che sembravano moltissimi anni, anche se qualcosa gli diceva che si trattava poi solo di mesi; una felicità che aveva vissuto a lungo, una felicità che credeva finita per sempre”. E’ l’istantanea di un momento: l’eco della città è muto, il dono migliore è il silenzio di una pagina bianca.

Henry Miller

Tropico del Capricorno è un flusso inesorabile, un fiume di idee travolgente, rivelatorio e per niente autoindulgente, a partire dal suo memorabile incipit: “Una volta mollata l’anima, tutto segue con assoluta certezza, anche nel pieno del caos. Dal principio non fui mai altro che caos: un fluido che mi avviluppava, e io vi respiravo per branchie. Nei substrati, dove la luna brillava ferma e opaca, era liscio e fecondo; sopra era frastuono e discordanza. In tutte le cose io vedevo subito l’opposto, la contraddizione, e fra il reale e l’irreale, il paradosso. Ero io il peggior nemico di me stesso”. Come già in Tropico del Cancro, perché in realtà sono due metà dello stesso libro, Tropico del Capricorno permette a Henry Miller di vedere con chiarezza, guardando dalla distanza e in prospettiva, esiliato a Parigi e capace di distinguere con maggior sicurezza le interruzioni dell’arte, tutto quello che succede nel frattempo, ovvero la vita. Nonostante l’appariscente celebrazione delle rocambolesche avventure nella Ville Lumière e la voluttuosità della sua scrittura il tono è sempre coerente perché, come scrive all’inizio dell’Interludio, “confusione è parola inventata per indicare un ordine che non si capisce”. Nel suo personalissimo disordine, che d’altra parte ha parecchie ragioni d’essere, Henry Miller apre molte porte della percezione: riesce a far notare come “gli uomini son soli e senza comunicazione fra di loro perché tutte le loro invenzioni parlano solo di morte”, così come non concede nulla di glorioso all’arte perché è “l’insoddisfazione che ti porta da un parola all’altra, da una creazione all’altra, è solo una protesta contro la futilità del rinvio. Più ti desti, in quanto microbo artistico, meno desiderio hai di far qualcosa”. Duro ed esigente con se stesso, “sintomatico” come ebbe a definirlo Geroge Orwell, Henry Miller lo è altrettanto con la sua origine, l’America, quando la vede all’orizzonte del suo rientro e la identifica, “giusto o no” con New York: “Questa è l’America, bufali o non bufali, America la ruota smerigliata della speranza e della disillusione. Tutto quello che ha contribuito a fare l’America ha fatto anche lei: ossa, sangue, muscoli, occhi, passo, ritmo; portamento; sicurezza; faccia tosta e budella vuote”. Eloquente, eccessivo, geniale e nello stesso tempo puntuale e preciso Tropico del Capricorno è e rimane un’esperienza dall’inizio alla coda finale dove Henry Miller si congeda a modo suo, una volta tornato nelle strade di Broadway: “Sino ad oggi ho viaggiato in direzione opposta al sole; d’ora in poi viaggerò in due sensi, come sole e come luna. D’ora in poi assumo due sessi, due emisferi, due cieli, due serie di tutto. D’ora in poi avrò doppia articolazione, doppio sesso. tutto quel che accade accadrà due volte. Sarò un ospite di questa terra, parteciperò delle sue benedizioni, porterò via i suoi doni. Non servirò né mi farò servire. Cercherò il fine in me”. E’ l’unico obbligo che tocca allo scrittore, il suo lavoro. 

Tom Robbins

Anche se risale ormai a una ventina di anni fa, Beati come rane su una foglia di ninfea potrebbe essere stato scritto ieri o oggi: la crisi economica, le fluttuazioni degli indici, gli intrecci tra informazioni e emozioni determinano i tempi, i linguaggi, le visioni di un mondo instabile e ipersensibile in cui “tutti recitano. Siamo noi a pensare che si realtà”. E’ una cacofonia che Tom Robbins sviluppa in un vortice psichedelico, ma non è surreale Beati come rane su una foglia di ninfea, è bizzarro il modo in cui viviamo, che rimane ostaggio delle paure che alimentano “il caos controllato dei mercati finanziari, e quello assai meno prevedibile, delle strade”. Premesso Tom Robbins è anche profetico quando scrive che “ci saranno altri giorni, altri catastrofi, forse in un futuro quanto mai prossimo”, seguire le peripezie di Gwendalyn Mati, la volubile protagonista di Beati come rane su una foglia di ninfea vuol dire leggere attraverso la filigrana dei nostri tempi, schivando il riflesso dei cicli economici a cui affida la fortuna. Essendo una broker, con il sogno di pagarsi tutta la sua Porsche, l’illusione dei mercati azionari, una roulette dove vincono sempre i soliti, diventa il bersaglio dello sberleffo di Tom Robbins che non ci mette molto a spiegare cosa sta succedendo, a lei così come a tutti noi: “Ahimé, il denaro se ne sta andando. Sta lasciando l’America con tutta la velocità che le sue tozze gambe gli consentono. L’America che tanto lo amava. Ha già abbandonato i pigri e gli stupidi e ora sta per lasciare te”. Va da sé, poi, che Beati come rane su una foglia di ninfea si evolve seguendo vie misteriose e connessioni tutte da decifrare perché Tom Robbins è irriverente, sprezzante e caleidoscopico. Per quanto caotico, comunque, in Beati come rane su una foglia di ninfea emerge sempre un tono molto lucido e altrettanto polemico nei confronti dell’american dream e della natura stessa dell’America: “Per la verità l’America è sempre stata multiculturale, ma fino a tempi piuttosto recenti la nazione era un crogiolo simbolico in cui vari popoli venivano metaforicamente fusi per mescolarsi in una lega ricca, ed era quella fusione di talenti, filosofie, attributi e inclinazioni, rinnovabili e adattabili, a dare agli Stati Uniti il loro vigore e il loro sapore. Al giorno d’oggi, invece, sembra che pochi immigrati siano inclini ad assimilarsi. Portano con sé le loro culture natie, praticamente intatte, e a quelle si aggrappano, rifiutando perfino di imparare a parlare inglese e irritandosi quando le istituzioni sociali della loro patria adottiva non si rivolgono loro nelle lingue d’origine. Il che li tiene fuori dalla forza lavoro, naturalmente, e in uno stato di eterno vittimismo; lo stato egoistico di chi non fa che commiserarsi, insidiosamente sfruttato dai sinistroidi per i loro personali fini politici. Così, invece di un brodo denso e sostanzioso, l’America è divenuta una melma di piccoli grumi separati di sostanze indigeste”. Molto acuto, molto brillante, molto Tom Robbins.

venerdì 30 dicembre 2011

Cormac McCarthy

Questa breve pièce o “romanzo in forma drammatica” è un caso più unico che raro nella storia di Cormac McCarthy, anche se in realtà con Sunset Limited era la seconda volta che scriveva per il teatro. Due personaggi, una stanza, fine. Fuori c’è New York, un treno che ormai è passato, un giorno che si sta spegnendo. Per una volta, Cormac McCarthy concentra tutto sul dialogo: è la scena, crea i personaggi, sviluppa la storia ed è sorprendente per un grande creatore di volti e movimenti. Ancora di più se si pensa che Sunset Limited è tutto meno che il frutto di un dialogo: la discussione tra i due protagonisti è un confronto che non prevede punti d’incontro. Sono opposti che si sono trovati per caso. Nero e bianco, credente (“Credere non è come non credere. Uno che crede alla fine arriva alla fonte della fede e non deve più cercare altro. Non c’è un altro. Ma chi non crede ha un problema. Si è messo in testa di sviscerare il mondo, ma ogni volta che becca una cosa falsa ce ne trova sotto altre due da spiegare”) e dubbioso (“Ci siamo nati, in un casino del genere. La sofferenza e il destino umano sono la stessa cosa. L’una è la descrizione dell’altro”), povero e agiato, grezzo e colto, luce e ombra si dividono un modesto vano di New York. Il nero ha trovato l’altro, il bianco, sulle rotaie in attesa dell’arrivo del Sunset Limited, un treno che non fa distinzioni. Lo salva dai propositi suicidi e lo porta nella sua umile dimora ma non riesce a scalfire la sua cupa visione della vita e del mondo. Seduti al tavolo della sua cucina discutono senza soluzioni di continuità, finendo uno le frasi dell’altro: un battibecco fitto, sincopato, dall’impostazione jazzistica come se i due, uno davanti all’altro, fossero in realtà le due facce di uno stesso pianeta. Anche gli unici due nomi citati nell’evoluzione della discussione sono lì a distinguerli. Uno definisce John Coltrane il più grande tra i compositori (si può anche essere d’accordo) e tornano a galla le parole che diceva a Nat Hentoff: “Voglio essere una forza del bene. In altre parole so che esistono forze del male, forze che arrecano sofferenza agli altri e miseria al mondo, ma io voglio essere una forza opposta. Io voglio essere la forza con la quale fare veramente del bene”. L’altro lascia scivolare il nome di Franz Kafka ed è inevitabile ricordare quell’esclamazione in cui sosteneva: “Quante fatiche per mantenersi in vita! Nessun monumento richiede un tale impiego di forze per essere eretto”. Non di meno, fatte salve le sue caratteristiche drammatiche, Sunset Limited apre una visione filosofica sull’esistenza e sulla fede, mettendo in risalto tutta l’impotenza e i limiti delle parole e del pensiero umano. Davanti a un piatto e a una tazza di caffé, l’imprevisto rendez-vous si risolve nell’amarezza finché il generoso ospite non chiede “a che servono idee del genere se poi non riescono a farti tenere i piedi incollati per terra quando arriva il Sunset Limited a centotrenta all’ora?”, ed è la domanda su cui cala, inevitabile, il sipario.

giovedì 29 dicembre 2011

William Burroughs

“Lieto di averti a bordo lettore, ma ricordati che questa sotterranea ha soltanto un capitano”: la precisazione è quanto mai utile, visto che il comandante si chiama William Burroughs. Sono passati soltanto due anni dalla pubblicazione del Pasto nudo, un romanzo rivoluzionario e infinitoe con La macchina morbida William Burroughs inaugura la cosiddetta Nova Trilogy (che coprende anche Il biglietto che è esploso e Nova Express) dopo sublima la sua stessa visione della scrittura con un altro balzo visionario nel tempo e nello spazio. Ricordava Gregory Corso: “William (Burroughs) si serviva del suo materiale altamente volatile, dei suoi testi inimitabili che sottoponeva a tagli implacabili. Era sempre il più deciso della compagnia. Nulla riusciva a turbarlo”. Difficile dargli torto: la trama poliziesca e il detective protagonista in La macchina morbida sono falsi nel senso che sono immagini in “una città di film in bianco e nero strade che sbiadiscono con migliaia di volti corrosi dal fumo. Figure del mondo rallentano fino ad essere catatonico calcare”. L’apocalittico panorama serve a spiegare perché “la parola non viene usata per il suo significato, ma come immagine” in un vortice spietato dove l’idea geniale del cut-up, alla base del Pasto nudo, si completa con il fold-in. Tagliare le connessioni tra le parole per scoprire la verità. Piegarle per viaggiare nel tempo, come spiega lo stesso William Burroghs: “Quando si scorre un giornale come fa la maggior parte di noi si vede assai più di quanto non si creda. Per essere esatti si vede tutto ad un livello subliminale. Quando ripiego il giornale di oggi con quello di ieri e sistemo le immagini in modo da formare un montaggio del tempo, ritorno letteralmente indietro al momento in cui ho letto il giornale di ieri, cioè viaggio a ritroso nel tempo verso ieri”. Il processo è tanto semplice da sembrare banale, se letto in una prospettiva convenzionale. Anche Norman Mailer subì l’abbaglio, pensando ancora alla scrittura e alla letteratura in termini lineari e temporali. William Burroughs vedeva invece le sue applicazioni secondo coordinate spaziali, più istintive che razionali, più legate alla percezione che alla cognizione. Non è un caso, anzi è la prova tangibile, che La macchina morbida e tutta la Nova Trilogy ispireranno plotoni di musicisti più che di scrittori: da Patti Smith fino a David Bowie che ne recupererà tecniche e idee ancora sul finire del ventesimo secolo (nonché i Soft Machine, che dal romanzo prenderanno persino il nome) le intuizioni di William Burroughs si sono evolute in strumenti di composizione adattabili a tutti i processi creativi, dal songwriting ai videoclip. Chissà cosa sarebbe successo, se avesse avuto a disposizione il mondo digitale di oggi all’epoca della Nova Trilogy visto che diceva: “Sono un agente pubblico e non so per chi lavoro, prendo istruzioni da segnali stradali, da giornali e da brani di conversazioni che strappo dall’aria come un avvoltoio che porti via interiora da un’altra bocca”. Un classico che è ancora un rivelazione.

Sandra Cisneros

La casa di Mango Street vede e mostra la formazione di una bambina che diventa donna che cresce nelle strade e sopravvive e diventa grande sfidando, lottando e confrontandosi con la durezza della vita urbana, le fatiche di una famiglia intera e le difficoltà di quello che è a tutti gli effetti un esilio. La scrittura per Esperanza alias Sandra Cisneros nella casa di Mango Street non è un gioco e non è una velleità artistica: è un bisogno urgente e un’arma per rispondere colpo su colpo nella lotta quotidiana. “Non smettere di scrivere. Così resterai libera”: come gli dirà la zia Guadalupe, “una piccola ostrica, un pezzetto di carne in una conchiglia aperta sotto i nostri occhi”, la scrittura serve a scegliersi un nome tra mille possibilità, una lingua, a sopportare “canzoni che sembrano singhiozzi” e credere che “i libri sono una cosa meravigliosa”. La casa di Mango Street è un posto di osservazione privilegiato, pur essendo confinato in una zona circondata dalle frontiere invisibili dell’ignoranza e della diffidenza. Scrive Esperanza: “Quelli che non sanno un accidenti entrano nel nostro quartiere spaventati. Pensano che siamo pericolosi. Pensano che li attaccheremo con coltelli scintillanti. Sono solo degli stupidi che si sono persi e sono capitati qui per sbaglio”. Lei e la sua famiglia non ci sono arrivati per errore: La casa in Mango Street è soltanto l’ultima tappa di una lunga serie di viaggi e traslochi attraverso l’America in cerca di un lavoro, di un posto, di una vita. Una condizione riassunta così: “Non si può mai avere troppo cielo. Ci si può addormentare e svegliare ubriachi di cielo e il cielo ci può far sentire al sicuro quando si è tristi. Qui di tristezza ce n’è troppa e di cielo non abbastanza. Le farfalle sono scarse come pure i fiori e la maggior parte delle cose belle. Eppure, ci accontentiamo di quello che ci tocca e cerchiamo di arrangiarci”. La casa di Mango Street racconta i modi di rendere semplici “le cose”, in un posto dove niente è semplice. In effetti è un romanzo dal formato strano, costruito attorno a schegge preziose e cristalline: scorrono come brevi e illuminanti flash, fotogrammi che sembrano incisi, pagina dopo pagina, nella memoria e trascritti con uno stile essenziale, e comunque coloratissimo e potente perché Sandra Cisneros racconta “storie del pensiero”, trasforma la metamorfosi di un’adolescente (“Voglio essere tutta nuova e brillante. Voglio sedermi scomposta di sera, con un ragazzo avvinghiato al collo e il vento sotto la gonna. Non come adesso, a parlare con gli alberi tutte le sere, affacciata alla finestra a immaginare quello che non vedo”) nella ribellione di una donna (“Ho cominciato la mia silenziosa guerra personale. E’ semplice e sicura. Io sono quella che si alza da tavola come un uomo, senza sparecchiare o rimettere la sedia a posto”). La casa di Mango Street resterà un ricordo perché Esperanza sogna “solo un casa silenziosa come la neve, uno spazio in cui rifugiarmi, pulita come la carta prima di scriverci una poesia” e la troverà proprio così, passando per lo spazio bianco in cui inventarsi una vita.

mercoledì 28 dicembre 2011

William Faulkner

C’è sempre un “noi” nei racconti di William Faulkner che sottolinea l’esistenza di un’entità  superiore e incontrollabile che vigila sopra tutto e tutti. E’ il “noi” che anche in Fumo definisce i valori, lo stile, le regole di vita di una cittadina e della sua comunità e William Faulkner conosce benissimo le dinamiche di una smalltown anche perché è nella sua natura circoscrivere realtà ben definite, microcosmi in cui si muovono e vivono i suoi personaggi. In Fumo, fin dall’inizio e più che altrove, è la distanza tra il “noi” e Anselm Holland, “uno che veniva da fuori e da chissà quale famiglia”. Mai accettato, guardato con sufficienza e sospetto, Anselm Holland muore in circostanze misteriose che portano ben presto a pensare a un’omicidio. Dopo la lettura delle sue ultime volontà, indirizzate ai due figli gemelli Anselm Jr. e Virginius e molto sibilline, anche il giudice Dukinfield, l’esecutore testamentario, verrà assassinato da un killer venuto da Memphis, e tra i due crimini si snoda tutta la storia di Fumo. L’oggetto del contendere, l’eredità, è la terra (è sempre la terra) anche se Gerald Parks nell’introduzione spiega molto bene che: “il meccanismo del racconto poliziesco serve a Faulkner per riproporre antichi dilemmi e risolverli con l’atto del narrare; poiché il vero detective non è altri che lo scrittore stesso, colui che indaga i segreti moventi degli uomini e porta alla luce le verità celate, per ristabilire nella poesia una giustizia ideale e rendere inoffensivo il ghigno della morte”. La maestria è tutta lì, anche in una cinquantina di pagine, quanto dura Fumo, “in quel tono semplice, aneddotico” che è poi lo stesso che usa il procuratore Gavin Stevens per imprimere una svolta nel corso dell’arringa che occupa la parte finale del racconto. Per arrivare alla conclusione e alla soluzione del caso, William Faulkner raduna tutti i protagonisti in una cornice sempre più piccola e precisa: parte dalla contea e dai suoi confini, passa al centro del villaggio, sulla main street, entra nell’aula del tribunale e poi nella stanza del giudice Dukinfield per concludere in una dimensione ancora più minuscola, dove, non a caso, si trova la soluzione del caso. La progressione è geometrica, concentrica, senza via di scampo perché come scrive William Faulkner “non sono i dati della realtà o le circostanze a colpirci; è l’impatto con le cose che avremmo dovuto già sapere”. E’ come se in quell’angolo delimitato e ristretto la dimensione della conoscenza fosse legata alla antura stessa della terra e della città, a quel “noi” che è il vero deus ex machina della storia: “Noi che tendevamo occhi e orecchie restammo come sospesi nel vuoto, in uno stato simile al sogno nel quale ci sembrava di sapere in anticipo ciò che stava per accadere, ed eravamo al contempo consapevoli che non bisognava tenerne conto perché presto ci saremmo svegliati. Era come se fossimo fuori dal tempo, a guardare gli eventi da lontano; immobili, fuori e oltre il tempo”. Un racconto esemplare. 

martedì 27 dicembre 2011

Jennifer Egan

Nel frenetico sovrapporsi di personaggi e storie che  formano i segmenti narrativi in apparenza divisi gli uni dagli altri, eppure tutti collegati da una corrente sotterranea alimentata a colpi di flashback, i volti ricorrenti e in qualche modo centrali sono quelli di Bennie e Sasha. Un produttore discografico e una cleptomane (talenti che sono molto compatibili) sono i due fuochi attorno ai quali si sviluppa un’ellisse di musicisti travolti dalla vita, ingrassati, incupiti, devastati, qualche morto, qualcuno che sparisce, un sacco di bambini che sembrano più adulti degli adulti, carriere traballanti, molti legami invischiati con i ricordi d’infanzia, i momenti selvaggi e innocenti e felici nelle strade di New York o della California che si sono consumati in fretta e furia, le nuove nevrosi che s’impilano una dopo l’altra. Il tempo è un bastardo è la risposta alla domanda che c’è alla base di (quasi) tutti i social network: che fine avrà fatto (lui o lei)? “Anche quando non ci conosceremo più”, come dice qualcuno, l’argomento sarà ancora quello perché si può diffidare dei propri ricordi e ci si può dimenticare di essere felici (come dice Sasha: “Io sono sempre felice. E’ che a volte me ne dimentico”), ma l’urgenza di costruire e, più spesso, ricostruire il proprio mondo passa sempre attraverso gli inferni degli altri. Frenetico, insesorabile, scoppiettante di colpi di scena e rivelazioni concatenate, veloce e abbagliante nel continuo sovrapporsi di tempi e cronologie diverse, Il tempo è un bastardo riproduce la complessità a cui sono messe a dura prova le relazioni, in particolare quando sono soggette alle pulsazioni della tecnologia, delle ambizioni, degli standard, della farmaceutica (legale e non) e dall’ignoto perché a differenza di tutti gli aggeggi miracolosi che ci circondanto nel tempo, quello reale, non esiste lo stand by. In modo molto più esplicito lo dice anche uno dei protagonisti, Bosco, un musicista ormai distrutto e prossimo al pubblico suicidio: “Riempimi la vita di roba. Documentiamo ogni cazzo di umiliazione. Perché in fondo la realtà è questa, no? In vent’anni non diventi più bello, specie se nel frattempo ti hanno tolto metà dell’intestino. Il tempo è un bastardo, giusto? Non si dice così?”. Il tempo è un bastardo perché non conclude niente e consuma tutto, il tempo è quel mistero che si staglia sopra le nostre vite, in bilico nel nulla ed è dove siamo diretti, un mulinare di sentimenti ed emozioni superficiali come gli schermi digitali, monchi e ambigui come il linguaggio degli SMS che alimenta il finale, reportage dell’organizzazione e della celebrazione di un concerto in un futuro prossimo venturo, protagonista uno spiritato bluesman metropolitano. Coraggioso e imperfetto, Il tempo è un bastardo è romanzo che permette a Jennifer Egan di annodare la coda di un secolo con la cima di un altro e non è un mistero che siano il rock’n’roll e lo showbiz gli scenari e le cornici ricorrenti. Di tutti i fallimenti umani, rimangono i più brillanti. 

Gustav Hasford

Quello di Nato per uccidere è uno di quei casi fortunati in cui la riduzione cinematografica ha saputo leggere con precisione e fedeltà lo spirito originario della storia. Il merito va senza dubbio a Stanley Kubrick (e a Michael Herr) che nel trasformare Nato per uccidere in Full Metal Jacket ha accentuato la divisione e insieme il collegamento tra i due tempi, un passagio in cui diventa evidente che la deformazione del linguaggio prelude alla rarefazione dell’umanità. Nella prima parte di Nato per uccidere la violenza è compressa nella sintassi sgranata, nel continuo battibecco di volgarità. E’ quasi espressionista, con quel gergo militare che contagia e corrompe tutte le comunicazioni, deforma le parole, traccia un confine preciso verso un altro mondo con una lingua monca, gutturale, crudele. A Parris Island, il campo di addestramento dove tutto comincia, non serve molto altro perché “i marines muoiono, siamo qui per questo” e l’identità omicida e suicida comincia proprio da lì, da un linguaggio che è una forma estrema di esclusione ed emarginazione. Per questo Nato per uccidere non ha alcuna bellezza stilistica, almeno secondo i canoni e le consuetudini normali: la sua forma è un patois gorgogliante che la sua massima espressione in frasi che sono pugni sferrati nell’aria. “Il Vietnam mi può ammazzare, ma non può appassionarmi. Non me ne fregherà mai niente. Voglio solo tornarmene a casa tutto d’un pezzo. E’ il minimo che devo a me stesso” dice uno dei protagonisti di Nato per uccidere, la cui forza è tutto in quello che vede e mostra. Nella seconda metà, è un’esplosione di ferocia incisa a tratti vividi e spietati nell’elencare le mutilazioni, le viscere, le esplosioni, i corpi che è “impossibile determinare a quale esercito appartenessero”. E’ con un distacco quasi impressionista che Gustav Hasford descrive i macelli quotidiani, ovvero dove le aberrazioni linguistiche trovano un’applicazione pratica. I marines la usano per affrontare i duri giorni del Tet nel 1968 e così raccontano come hanno affrontato una delle più dure battaglie di quei giorni: “Con saggezza salomonica, abbiamo fatto di Hué un ammasso di macerie, al fine di salvarla”, paradosso che tornerà con una certa frequenza nelle guerre americane da lì in poi. La disperazione non serve soltanto a giustificare qualcosa che non si può giustificare. E’ anche un modo per accorgersi in quale valle di tenebre si è trasformato il Vietnam, un posto dove le parole diventano persino imbarazzanti perché rivolte in una direzione impossibile, come confessa Joker: “Parlare ai morti non è sensato e a un vivo gli conviene non prenderci il vizio. Ma ultimamente a me capita spesso di parlare ai morti. Mi sa che ci parlo, coi morti, fin da quando compii la mia prima uccisione accertata. Confirmed kill è il termine che usiamo. Ebbene, dopo la mia prima uccisione accertata, parlare ai cadaveri ha cominciato a essere più logico, per me, che non parlare con chi non è ancora stato fatto secco”. “Nowhere to run, nowhere to go”: nessuno tornerà più a casa.

sabato 24 dicembre 2011

John Cheever

C’è un’aria decadente e insieme voluttuosa nei Racconti italiani di John Cheever. Dipenderà dalla scelta dei luoghi e dei volti, ma tutto richiama una civiltà che ha visto tempi migliori, ormai lontani e perduti. La villa decrepita di Montraldo, splendida e decadente, è la metafora più sincera per tutta l’Italia raccontata da John Cheever. E’ sempre una scoperta: le variazioni del clima (“I presagi non hanno alcun significato, ma la verità è che quando in Italia un viaggio inizia con un tuono e un cielo quasi nero di rondini siamo molto più coinvolti emotivamente dallo spettacolo di quanto ne saremmo se fossimo a casa”), come quelle dell’umore sono più vivide e repentine vissute in viaggio e i Racconti italiani mostrano i segni a ogni occasione. John Cheever vede a fondo e molto in là nel futuro dell’Italia: un paese di bizzarri poeti ed eroi mancati, di hotel, grandi nel nome e cadenti nella forma, di smisurate ambizioni e disperate abitudini, travolte da un’inedita realtà: “Ciò che è stato tenuto lontano dalle strade sconnesse è arrivato attraverso l’etere. La luce verde-bluastra del televisore nel bar, infatti, ha cominciato a trasformarli da marinai a cowboy, da pescatori a gangster, da pastori a giovani delinquenti e presentatori televisivi, gente con la vescica gonfia di Coca-Cola. Agli americani tutto questo sembra molto triste. I suoi viaggiatori, non di meno, sono altrettanto ingombranti e confusi: “Sono americani. Non c’è niente che possano fare per cercare di camuffare la commovente ridicolaggine e la goffagine del viaggiatore”. Racconti italiani è una selezione intensa e crepuscolare di visioni di nobiltà giunte al tramonto sotto il peso della loro stessa storia, di famiglie spezzate dall’istinto, o corrotte da rapporti e legami consunti dalla consuetudine, posaceneri rubati negli  e whisky bevuti da barattoli di marmellata dal cui fondo emerge sempre la stessa domanda: “Ma cos’era successo, e perché quel desiderio così semplice si era trasformato in un disastro?”. L’età dell’oro è finita per sempre e la sua conclusione è rappresentata in modo eloquente nello svolgimento di La duchessa, dove un’infelice feudataria romana risolve la dolorosa svolta storica della famiglia con una soluzione francescana. Alla duchessa tocca, in fondo, una sorte se non proprio felice, almeno dignitosa e coerente nella rinuncia. Ad altri non resta che l’esperienza disorientante dell’alienazione, che John Cheever traduce in particolare così: “Non conoscevo nessun altro che avesse intrapreso una simile strada nella vita se non come espressione di inadeguatezza, una scioccante e ripugnante mancanza di volontà a collaborare con le generose forze della vita”. Il riscontro, fin troppo evidente è l’elevata densità di fantasmi che popola i Racconti italiani: una presenza che, insieme all’ondeggiare ritmico del mare (sempre all’orizzonte), costituisce la fitta trama che lega tutte le storie, cucite insieme con mirabile precisione dalla scrittura, lirica ed essenziale, di John Cheever. Da riscoprire.

giovedì 22 dicembre 2011

Robert Olen Butler

I cento figli del Drago è il ritratto dell’altra faccia della sconfitta della guerra del Vietnam: il disorientamento, l’alienazione, la disperazione dei profughi che si sono dovuti trasferire in America, sparsi in particolare tra le coste del Texas e della Louisiana. Le loro storie sono più legate ai fantasmi che alla realtà, molto simile tra America e Vietnam: gli affari sono affari, la famiglia è la famiglia, la fede è la fede. Quello che cambia è quella sensazione di vuoto, il buio alle spalle, il debito della memoria che non sarà mai saldato, l’incubo di un presente infinito e di un futuro che rimane un’incognita. E’ il protagonista di Fiaba, affascinato dalla parola upon a comprendere la vacua dimensione del tempo, con l’idea salirci sopra e “cavalcarlo senza sapere dove di porta, né se ti farà cadere dalla groppa”. Il tono, colto alla perfezione da Robert Olen Butler, è un pericolante equilibrio tra il mondo incantato delle leggende, servite da una lingua che bada più all’intonazione che alla grammatica, e gli eventi drammatici della guerra, vissuti in Vietnam o riportati in America. I cento figli del Drago sono l’ultimo lascito del conflitto, veterani senza aver combattuto, reduci da un fronte lontano, su un altro continente, divisi dalla propria terra da un oceano. Vivono da fantasmi e con il ricordo di fantasmi perché come scrive uno dei protagonisti di Lettere da mio padre “il mondo intero è stato tradito”. Sono stranieri e lo sarebbero anche nella loro terra, dopo la guerra. Una condizione di esilio che li obbliga a sprofondare nei propri pensieri, come succede al protagonista di A braccia aperte: “Tanto il desiderio quanto una forte fede possono portare all’infelicità. Io riesco a stare seduto per ore e ore, dal tardo pomeriggio fino a notte fonda, senza sentirmi obbligato a guardare, ascoltare o fare qualcosa”. Vale anche la storia di Amore, dove un marito tradito si vendica degli amanti spacciandoli per bersagli all’aviazione americana. Questo in Vietnam, dove la guerra permetteva tutto, in America è diverso e lui stesso si trasforma in una vittima della sua gelosia. E’ la stessa condizione che si ritrova nella confessione del protagonista in Il viaggio di ritorno: “Quando infine qualcosa mi si ripresenterà alla memoria, si tratterà magari di un’auto di lusso appesa a una gru o del muro appena ridipinto di una nuova lavanderia o del tenue ronzio di una sveglia accanto al letto. Dentro di me, in segreto, potrei essere disposto a tradire tutto ciò che sono convinto di amare di più”. Caso più unico che raro, I cento figli del Drago riesce a trasformare le sofferenze e le inquietudini dell’esilio in temi affascinanti, come sintetizza il protagonista di Metà autunno: “Ho avuto la mia notte sulla luna e, quando sono ridiscesa lungo l’arcobaleno, anche il mondo che ho trovato era buono. Purtroppo non c’è ritorno, ma possiamo sempre accendere una lanterna e, guardando nel cielo della notte, ricordare”. E’ l’ultimo appiglio e, in fondo, l’unica nota di speranza.

lunedì 19 dicembre 2011

Kurt Vonnegut

Di tutti i romanzi di Kurt Vonnegut, Ghiaccio nove è quello che risente di più della sua formazione scientifica. Alla base c’è, riletta, come è naturale, in modo del tutto originale, un’analisi delle responsabilità nelle scoperte scientifiche, come in tutte le scoperte: il Ghiaccio nove è un’altra visione dell’arma assoluta, in cui si cela e insieme si svela il terrore dell’incubo nucleare. Ghiaccio nove non si può sciogliere dal suo legame storico, visto che risale al 1963: soltanto l’anno prima il mondo era arrivato a un passo da quella che gli strateghi militari avevano definito, con il consueto gusto per gli acronimi, “MAD”, ovvero “mutual assured destruction”, distruzione mutua assicurata. Non sfuggirà la cupa ironia della sigla, che tradotta in una lingua comprensibile sta per “folle”. Questa è l’atmosfera in cui sono fiorite le gesta di Felix Hoenniker, premio Nobel che ha fornito la bomba atomica e che, non soddisfatto, ha scoperto il Ghiaccio nove. La trama parte proprio da questo scienziato old school che sembra ossessionato dalle sue ricerche. Come lo descrive lo stesso Kurt Vonnegut “questo vecchio a cui non frega niente delle persone, scopre una forma di ghiaccio che è stabile a temperatura ambiente. Lui muore e alcuni idioti entrano in possesso della sostanza, che io chiamo Ghiaccio nove. Gli idioti finiscono per versare qualche goccia di questa roba nel mare, le acque di tutto il mondo gelano: e questa è la fine della vita sulla terra come la conosciamo noi”. Trattandosi di Kurt Vonnegut la storia non sarà così semplice perché si articola in spirali di disgressioni continue tra frammenti di canzoni popolari e brani swing, culture tribali inventate dal nulla e dialettiche famigliari frustranti, un linguaggio scoppiettante e paragrafi con titoli come La capitale mondiale dei barracuda o Un pesce scagliato da un mare infuriato. Sempre sorprendente, sornione e imprevedibile, Kurt Vonnegut è un giocoliere delle parole, un eccentrico affabulatore e un raffinato provocatore. Tutte qualità che non gli impediscono di arrivare al centro del bersaglio, in Ghiaccio nove più che altrove, come diceva commentandolo: “Un fisico virtuoso è un fisico umanista. Tra l’altro, essere un fisico umanista è un buon modo per vincere due premi Nobel anziché uno solo. Cosa fa un fisico umanista? Dunque osserva le persone, le ascolta, pensa a loro, augura tutto il bene sia a loro sia al pianeta in cui vivono. Non farebbe mai consapevolmente del male alle persone. Se scopre una tecnica la cui dannosità per le persone è evidente, se la tiene per sé. Egli sa bene che uno scienziato può rendersi complice di delitti, e di quelli più efferrati. E’ senza dubbio un concetto piuttosto semplice, mi pare e indubbiamente chiaro”. E’ altrettanto preciso quando dice che si muore per “pietrificazione del cuore o per atrofia del sistema nervoso”, se si viene privati della “consolazione della letteratura”, che, dal nostro punto di vista, è un disastro peggiore della distruzione mutua assicurata. 

lunedì 12 dicembre 2011

Jim Harrison

C’è un’intervista di Jim Harrison in un libro che è utilissimo a capire il mondo degli scrittori (si tratta di L’arte dello scrivere, a cura di Sybil Steinberg) in cui dice: “Il romanziere che rifiuta i sentimenti rifiuta l'intero spettro del comportamento umano, e alla fine si inaridisce. Io preferisco dare voce a tutti gli amori e le delusioni umane e correre il rischio di essere sdolcinato, piuttosto che morire come un fottuto intelligentone”. In questo è stato coerente, perché avendo scoperto un personaggio affascinante come quello di Dalva, sembrava logico andare fino in fondo, raccontando con La strada di casa tutta la sua storia, fino alle più lontane personalità della sua vasta e composita famiglia. Ne è uscito un romanzo corposo dove, più che in altre storie di Jim Harrison, ha per protagonisti il paesaggio del Nebraska e una miriade di racconti che in fondo non sono altro se non il tentativo di rappresentare la vita e la morte, e di dare un senso al tempo. Il termine di paragone è con la saga di Leggende d’autunno anche se qui la scrittura di Jim Harrison raggiunge un lirismo assoluto, soprattutto offrendo a Dalva la possibilità di parlare in prima persona e di raccontare un albero genealogico lungo un secolo, di cui lei è uno degli ultimi rami. Ciò non toglie che Jim Harrison non infili qualche suo commento sullo stato dell’America, magari a partire dall'osservazione di una lussuosa BMW, oggetto non identificato nelle campagne del Nebraska: “I soldi sono un problema terrificante. La gente che ne ha tanti cerca sempre di farne di più e quando glielo chiedi non sono sicuri di saperne il perché. Quando non hanno più niente da comprare esigono addirittura che i loro figli sembrino ricchi. Ma d’altra parte il paese non è affatto quello che in gran parte pensa di essere. I soldi sono troppo pochi e sono distribuiti in maniera disuguale. La gente desidera essere quello che alla televisione vede che dovrebbe essere ma pochi ci riescono”. Non è soltanto per questo che i suoi personaggi sono vulnerabili, a partire dal protagonista di La strada di casa, ovvero John Wesley Northridge: è il loro conflitto con i ricordi e con le continue suggestioni del paesaggio rurale, mai visto con tanta lucidità, con cui è sempre in corso uno strisciante processo di identificazione. Come dice uno dei personaggi di La strada di casa proprio nel cuore del romanzo (con la colonna sonora di Merle Haggard): “Un’altra ora di viaggio lungo la strada e mi sono reso conto che non sapevo dove fossi diretto. Questo mi ha lasciato confuso nel crepuscolo e mi sono fermato per controllare la mappa come se volessi confermare la mia esistenza”. Avviso ai lettori: La strada di casa è un romanzo notevole e di autori che riescono a raccontare i sentimenti come fa lui non ne sono rimasti moltissimi e non è un libro da leggere distrattamente o a metà, perché la storia di Dalva si compie fino in fondo e per riuscire a coglierla bisogna arrivare fino al finale, dove si capisce che per Jim Harrison la scrittura è qualcosa in più di un (bellissimo) mestiere.

venerdì 9 dicembre 2011

Seymour Hersh


Il 16 marzo 1968 una compagnia di soldati americani irruppe nel villaggio sudvietnamita di My Lai e massacrò centinaia di persone inermi, in gran parte donne e bambini. Per ironia del destino o per una fatale coincidenza la compagnia Charlie, guidata dal capitano Medina e dal tenente Calley, portava lo stesso nome che gli americani davano ai vietcong. Sarà un lapsus, ma è stato anche il momento in cui andò persa la connotazione del nemico e, con quella, tutta la guerra. La notizia della strage rimarrà vaga e nascosta per oltre un anno fino a quando uno dei soldati, tormentato dal rimorso non cominciò a scriverne. Si chiamava Ronald Ridenhour e la lettera che spediva ai suoi rappresentanti nell’esercito e nelle istituzioni era, parole sue, “una profonda riflessione su me stesso, su ogni singolo americano e sugli ideali che dovremmo rappresentare. Era un terribile sfregio inferto all’immagine dell’America”. A sua volta Herbert Carter, un soldato che si sparò in un piede piuttosto di partecipare al massacro, disse: “La gente non sapeva perché moriva e noi non sapevamo perché li uccidevamo”. Di colpo l’America diventava una nazione di reduci disturbati dallo stress post traumatico. L’avvocato di un altro soldato, cercando di difenderlo, disse: “Quella guerra è solo una serie di massacri quotidiani, uno dopo l’altro, e non posso concepire l’idea che dei soldati semplici siano ritenuti responsabili di azioni che l’esercito degli Stati Uniti li obbliga a fare quando si trovano in Vietnam”. Solo il tenente Calley scontò la sua pena (agli arresti domiciliari), nessuno dei suoi superiori venne indagato, e così va la storia. La ricostruzione di Seymour Hersh è metodica, precisa, matematica: non mette insieme frammenti di notizie, voci, comunicati ufficiali, propaganda e altre fonti cercando di dargli una forma, un senso compiuto. Il suo lavoro è più accurato: ritorna con metodo, costante e continuo, sulle notizie, le verifica usando fonti diverse e distanti ed evita sempre la tentazione di collegarle in funzione di una tesi o di una prospettiva. Anche quando diventa evidente che si tratta di un massacro di vecchi, donne e bambini del tutto innocenti, il suo punto di vista non è di condanna (che è sacrosanto, e implicito): è aderente ai fatti e abbracciato, incollato alla ricerca della verità. Seymour Hersh tira fuori la notizia come uno scultore con la statua da un blocco di marmo. E’ un lavoro che procede per esclusione: concentrico, meticoloso, certosino è sempre teso a raffinare, passaggio dopo passaggio, le parti più grezze della storia, le note false, le dichiarazioni di circostanza, le acrobazie linguistiche e lessicali dei comunicati e delle versioni ufficiali. Una cernita immane perché Seymour Hersh deve affrontare prima la terminologia della burocrazia militare (che già è un ostacolo sufficiente a scoraggiare chiunque), poi il contraddittorio e strumentale uso della parola degli uomini politici e infine la complessità delle forme del vocabolario giudiziario. Seymour Hersh gestisce tutte queste impossibili lingue con grande destrezza e delinea quanto di più credibile possa produrre un giornalismo sensibile alla formazione dell’opinione pubblica, che non teme il potere e le sue congenite deformazioni. 

lunedì 5 dicembre 2011

Flannery O’Connor

Quello che affronta Flannery O’Connor è un territorio marcato da punti di domanda affilati come filo spinato, una zona di frontiera che viene riassunta con queste mirabili parole: “Quando parliamo della terra dello scrittore, siamo inclini a dimenticarci che, qualunque terra sia, essa è dentro come fuori di lui. L’arte richiede un delicato adattamento tra il mondo esteriore e quello interiore, in modo che, senza snaturarsi, possano essere l’uno il riflesso dell’altro. Conoscere se stessi è conoscere la propria regione. E’ anche conoscere il mondo ed è altresì, paradossalmente, una forma di esilio dal mondo. Il valore dello scrittore si perde, per sé e per la sua terra, non appena cessa di considerarla come una parte di sé, e conoscere se stessi è, soprattutto, conoscere quello che manca”. Non è un territorio facile, non lo è mai stato, in più Flannery O’Connor ci aggiunge una meticolosità tutta sua nell’affrontare l’arte della scrittura e le sue evoluzioni, senza nascondersi nulla: “Le forme artistiche si evolvono fino a raggiungere la perfezione ultima, o uno stato di fossilizzazione, oppure finché non viene innestato un nuovo elemento e creata una nuova forma artistica. Ma qualunque sia stato il passato della narrativa o quale sarà il suo futuro, allo stato presente un brano di narrativa deve essere un’unità drammatica autosufficiente”. Se queste sono le fondamenta, e dovrebbero esserle sempre, Flannery O’Connor ha una concezione particolare del rigore che non è fatto di imposizioni formali, di costruzioni e di norme. E’ una sorta di assoluto morale che si traduce in una continua sfida con la scrittura, un confronto ideale serrato e mai pedante che non lascia niente al caso. E’ lapidaria e intransigente sulla prima e unica linea di demarcazione: “Base dell’arte è la verità, nella sostanza come nella forma. Chi nella propria opera persegue l’arte, persegue la verità. In senso immaginativo, né più né meno”. E’ la disposizione nei confronti della scrittura e della lettura, ancora prima dell’atto in sé, a formare l’identità di uno scrittore e di un lettore e Nel territorio del diavolo, Flannery O’Connor la rende evidente in modo progressivo e convincente: “La mente che sa capire la buona narrativa non è di necessità quella istruita, ma la mente sempre disposta ad approfondire il proprio senso del mistero attraverso il contatto con la realtà, e il proprio senso della realtà attraverso il contatto con il mistero. La narrativa dovrebbe essere oculata e occulta”. Nel territorio del diavolo ha il sorprendente pregio di rendere limpida la visione di Flannery O’Connor. E’ l’accettazione di un mistero che ha sempre del prodigioso perché “chi è senza speranza non solo non scrive romanzi ma, quel che più conta, non ne legge. Non ferma a lungo lo sguardo su nulla, perché gliene manca il coraggio. Il miglior modo per piombare nella disperazione è rifiutare ogni tipo di esperienza, e il romanzo è senz’altro un modo di fare esperienza”. Un manuale di sopravvivenza.