domenica 22 novembre 2020

Sam Shepard

Dentro, fuori. Prima, dopo. Inizio, fine. Spiare la prima persona è un ultimo saluto, un testamento, una breve pièce e tutto insieme per confezionare un addio: due uomini si osservano, ma forse sono soltanto due metà della stessa persona, perché “qualche volta la gente appare così, dal nulla. Appaiono e scompaiono. Molto in fretta. Come una foto emerge da un bagno chimico”. Va messo in conto. Uno sta in una veranda accudito dalla famiglia, adagiato su una sedia a dondolo o incastrato in una sedia a rotelle. Sam Shepard non fa eccezioni, neanche per se stesso: “Un anno più o meno giusto fa poteva camminare a testa alta. Vedere attraverso l’aria. Poteva pulirsi il sedere”. Ogni riferimento non è proprio casuale, anzi. L’altro è a distanza di sicurezza nei cespugli, con un binocolo, molto potente. Per entrambi, l’immobilità, è una condizione inderogabile e Sam Shepard riassume i loro pensieri chiedendosi “cos’è che ti trascina in basso, che ti fa sentire che non ce la farai mai, non ce la farai mai a superare qualcosa. Io non so cosa sia. La monotonia. La ripetizione”. È necessario tenere d’occhio i dettagli. Al crepuscolo, Sam Shepard è più rarefatto che mai: ogni parola pesa come una pietra nel deserto, ogni frase è un concentrato denso e asciutto nello stesso tempo, i ricordi rimbalzano nella memoria e “a un certo punto nel passato, a un certo punto nel passato, andava tutto bene. Non c’era disperazione. Funzionava tutto. Quindi qual è la cura. C’è qualche modo per curare il presente? Possiamo fare qualcosa di semplice, tipo un bagno caldo nelle acque termali. O dobbiamo ricominciare tutto da capo. Dev’esserci una cura. Siamo figli dei miracoli. Lunga pausa. Pausa. Nessuno si sofferma sulle sue parole. Nessuno si sofferma nel momento. Nessuno si sofferma per nessuno”. Il richiamo del passato è guarnito da una sottile sensazione di nostalgia, compresa l’impressione che andasse tutto bene, o almeno meglio di adesso, ma non era proprio così: c’erano la guerra in Vietnam, Nixon, il Watergate, e direi che bastano e avanzano. È Sam Shepard che prova a rielaborare i ricordi, ma sono soltanto piccoli appunti rubati alla memoria. Alcatraz, Pancho Villa, il Messico e il confine sono echi che arrivano da lontano, e che si ritrovano spiazzati nelle istantanee di oggi, quando si domanda se “li capiamo, gli uomini sull’angolo che parlano una lingua straniera? Capiamo da dove potrebbero essere venuti? Forse è il vento che li ha portati qui”. Eccoci qui. Il presente è laconico: “Noti la natura progressiva delle cose. Le cose decadono. Noti come sono diverse. Non vuoi crederci”, e allora le due figure si misurano, si tengono d’occhio, si scrutano nell’aria tersa della prateria, ma non si incontrano e rimangono agli estremi della prospettiva almeno finché non appare un serpente a sonagli verde del Mojave e, quasi come un segnale ancestrale nell’aria, la vena autobiografica li fa collimare. A quel punto i due contorni si sovrappongono in una sola ombra, quella di Sam Shepard, che prende il sopravvento e che commenta: “C’è questo fatto, nel dopo. Che non sai cosa verrà. Non sia come andranno a posto tutti i sospesi. Qualcosa succederà di certo, ma non sai cosa. Per esempio, io sono fuori, per esempio”. Resta il tempo di un’accorata dedica ai figli: “Ho fatto degli errori ma non ho idea di quali siano stati. E non ho mai desiderato ricominciare da capo. Non ho il desiderio di eliminare delle parti di me stesso. Non ho desiderio. Forse dovremmo incontrarci come completi estranei e parlare fino a notte fonda come se non ci fossimo mai visti prima. Sappiamo solo che c’è reminiscenza, c’è qualche misteriosa connessione. A volte”. Spiare la prima persona è l’apoteosi finale di Sam Shepard, osservatore e osservato che “in altre parole, non sempre, ma a volte”, confeziona il memoriale definitivo di un fuggitivo costretto a guardare l’orizzonte con gli occhi di qualcun altro.

lunedì 16 novembre 2020

Jessica Bruder

Pur contenendo i germogli di una critica alla società americana così come è diventata, con un divario economico e sociale che è ormai un abisso, e una fonte continua di ingiustizie, Nomadland è soprattutto la constatazione dell’esistenza di un’America fuori dai radar. L’attitudine a levare le tende, a cercare nel movimento e in un possibile altrove le soluzioni ideali a una nuova esistenza è un riflesso condizionato degli americani e Nomadland lo fotografa in un momento di ripiegamenti drastici, seguiti alla crisi del 2008. L’elemento sociologico è ricorrente perché i protagonisti di Nomadland lottano in cerca di un’identità e di una libertà rarefatte dall’aria del deserto, dove il viaggio è anche una forma di avventura e adrenalina perché “vivere in nessun luogo, pare, significa poter vivere ovunque, almeno sulla carta”. Nei tre anni che ha seguito quest’esodo senza meta, l’immedesimarsi di Jessica Bruder l’ha portata ad adeguarsi con un suo van, chiamato Halen in onore della rock’n’roll band e dei calembour amati dai nomadi del ventunesimo secolo. Hanno alle spalle storie di separazioni, alcolismo, disperazione, ma soprattutto conti che non riuscivano più a saldare, a partire dai mutui immobiliari. Si ritrovano in cerca di una “famiglia logica”, visto che quella naturale l’hanno persa per strada, fanno i campeggiatori o si adeguano a lavori stagionali da Amazon o nella raccolta delle barbabietole da zucchero, descritta da Jessica Bruder come un girone dantesco. L’esperienza della solitudine condivisa nelle comunità viaggianti di Nomadland passa attraverso città fantasma dove il processo di deindustrializzazione si è fatto particolarmente cruento. Le storie personali sono tante, ma tendono a somigliarsi. Sono piuttosto i limiti del decantato sogno americano, ovvero di un modello economico che vede in Amazon la sua massima espressione a diventare evidenti, una volta di più, nelle testimonianze raccolte da Jessica Bruder, che identifica così l’essenza di Nomadland: “Complessivamente erano una subcultura: costruivano il proprio insieme di convenzioni, sperimentavano strategie di sopravvivenza e diffondevano le migliori, formulavano dei piani per vivere sull’altra faccia dell’economia”. I mezzi vengono riscattati a poco prezzo, rattoppati e sistemati quel tanto che basta da poterli mettere in strada. Come li descrive la canzone dei Bottle Rockets, sono 1000 Dollar Car alla seconda o terza vita, le cui disavventure sono garantite. Ma gli abitanti girovaghi di Nomadland non possono permettersi di più. Quando partono, si accorgono di quante cianfrusaglie hanno accumulato, e quanto hanno pesato nelle loro vite e sulle loro finanze. Paradossalmente, si ritrovano a lavorare nei magazzini di Amazon, che dispensano in gran parte gli stessi ammennicoli. Diventano workamper e come dice David Roderick (settantasette anni): “Amano noi pensionati perché siamo affidabili. Ci presentiamo, sgobbiamo, e siamo fondamentalmente degli schiavi”. Un sistema che procede a senso unico: lavorano con i diritti ridotti al minimo, scontrandosi con il futuro, ovvero i robot, viaggiano in riserva (la benzina serve anche per scaldarsi), lottano con pensioni e sussidi miserevoli e con un’assistenza sanitaria limitata. Non solo: devono stare attenti a dove parcheggiare per evitare la polizia perché spesso non sono i benvenuti. Eppure, anche nella vastità degli spazi americani sembrano non avere altra alternativa se non continuare a muoversi e a ritrovarsi. Il reportage di Jessica Bruder è asciutto, concreto, limitato all’essenziale ed evidentemente non serviva altro perché il fondo di amarezza di Nomadland è come la ruggine sui furgoni o la stanchezza dopo un turno di lavoro ad Amazon: non se ne va più.

giovedì 12 novembre 2020

Ta-Nehisi Coates

Hiram Walker è figlio un rapporto “oltraggioso” tra il signore della piantagione di Lockless, un nome ambiguo, ma significativo, e la madre Rose, poi venduta all’asta degli schiavi. Fin da piccolo, Hiram possiede “il portentoso potere della memoria, sapendo come possa aprire una porta azzurra fra un mondo e l’altro, come possa spostarci dalle montagne ai prati, dai boschi verdi ai campi coperti di neve, sapendo che la memoria può piegare la terra come un panno”, che è parallelo all’elemento soprannaturale e spiritico a cui fanno appello uomini e donne costretti incatene. Se “nella schiavitù non c’era pace, perché ogni giorno sotto il dominio di un altro è un giorno di guerra”, la rivelazione ha luogo quando Hiram finisce nel fiume con il giovane fratellastro Maynard Walker: si salva nei contorni di un miracolo, mentre l’erede diventa ben presto “un rimpianto”. L’incidente apre uno squarcio in più direzioni nella realtà di Lockless: Il danzatore dell’acqua riconosce la schiavitù come un continuo e sistematico saccheggio e non solo nello sfruttamento del lavoro su cui è stata edificata la ricchezza di un’intera nazione, ma anche nella devastazione dei legami, degli affetti, dei sentimenti. Come dice Robert Ross parlandone con Hiram: “C’è sempre qualcosa non va. Quelle storie di cavalieri e donzelle… Non è roba per noi. Noi non possiamo permetterci la purezza. Non possiamo permetterci la pulizia”. Il possesso delle persone, e delle donne in particolare attraverso la sordida pratica degli stupri (per chiamare le cose con il loro nome), è uno degli argomenti che toccano le famiglie, ed è al centro di un dialogo tra Hiram e l’amata Sophie, uno dei passaggi più lirici e intensi che offre Il danzatore dell’acqua. Il ricordo diventa funzionale, quando, essendo depredati i corpi, diventa imperativo “conservare le storie. Tenere pulito il sangue” ed è solo così che in “una notte interminabile” si intravede una luce, e una prospettiva. Hiram resta combattuto tra la fuga e i vincoli e questo è evidente nei suoi rapporti, con Thena (che l’ha adottato), con Corrine Quinn (che lo guida), con Sophia, ma quando diventa agente della Sotterranea, ovvero la rete segreta che spingeva gli schiavi all’emancipazione, qui rivista in modo più realistico e articolato che nel romanzo di Colson Whitehead, La ferrovia sotterranea, capisce il suo ruolo, anche se non risolve il suo intimo conflitto, su cui pesa “la natura grave ed escrementizia del vero mondo in cui tutti viviamo”. L’unica certezza di Hiram è che “dimenticare significa diventare davvero schiavi” e che è adatto alla Conduzione verso la libertà. Nasce con “l’evocazione di una storia, l’acqua, e un oggetto che rendesse il ricordo reale come un mattone” ed è grazie al racconto, e a una visione, se sui fiumi si aprono ponti e passaggi. Un compito che passa attraverso la consapevolezza di “avere tutta quella bellezza e non trasmetterla”, ed è per quello che Il danzatore dell’acqua si avvale dei canti e delle danze e, sottinteso, del blues, ovvero, per estensione, di “una biblioteca non scritta piena zeppa di conoscenze su questo tragico mondo, conoscenze che il linguaggio verbale non riesce a esprimere”. È uno dei tratti persistenti visto che Ta-Nehisi Coates impegna il lettore a un duello con le parole, perché si sovrappongono molte correnti sotto Il danzatore dell’acqua. Comprese le maiuscole usate come simboli identificativi per distinguere la Servitù (alias la schiavitù), la Qualità, ovvero i padroni, la Conduzione, i Segugi e la Feccia, la Sotterranea. Ogni nome è ambivalente, e merita di essere indagato, in proprio, prima che i movimenti di Hiram aprano il sipario finale. Nella decadenza di Lockess, perché “il suo mondo, il mondo della Virginia, era un castello di menzogne” e al suo signore è rimasto soltanto “un miscuglio di futilità e nostalgia, una vecchia ferita che con l’umidità ricomincia a dolere, il fantasma di una passione ormai ridotta alla vaga reminiscenza di quella che ormai sembra un’altra vita”. Quando la coltivazione del tabacco non rende più, perché la terra è stata prosciugata, non meno di chi l’ha lavorata, il commercio degli schiavi è l’ultima alternativa economica, ma è anche il segnale che un’epoca è giunta alla fine. L’arrivo della Sotterranea, che ha diffuso agenti su tutto il territorio della Elm County, l’area in cui si trova Lockless, lascia intravedere, nel passaggio conclusivo, e almeno a livello simbolico e in forma narrativa, quello che Ta-Nehisi Coates ha ribadito spesso nei suoi saggi: la necessità di una riparazione della ferita della schiavitù passa necessariamente attraverso un risarcimento. 

lunedì 9 novembre 2020

Ernest J. Gaines

L’ombra di Angola, il più terribile tra i penitenziari americani, è lo sfondo cupo su cui prende forma La tragedia di Brady Sims. Lo storico Adam Jay Hirsch citato da Angela Davis in Aboliamo le prigioni? diceva che “si avvertono nel penitenziario molti riflessi della schiavitù così com’era praticata al Sud”. Sorto sul terreno di una piantagione ad Angola c’era qualcosa di peggio, un microcosmo spietato, violento e atroce, che andava ben oltre l’esecuzione della pena. Lavoratore instancabile e rispettato, Brady Sims conosce a fondo quella presenza spettrale e non esista a usare la frusta o metodi educativi anche più drastici, con l’idea che qualsiasi dolore è meglio che finire ad Angola. La tragedia di Brady Sims, che si colloca in un momento indefinito del ventesimo secolo a Bayonne, in Louisiana, è che il suo senso della giustizia lo porta alle estreme conseguenze, a sparare al figlio in un’aula del tribunale, decidendo la condanna per lui e, in fondo, per sé stesso. Ma è solo l’inizio: la travagliata esistenza di Brady Sims è ricomposta dallo storytelling popolano e popolare degli ospiti del barbiere. Sul muro ci sono le fotografie di Martin Luter King, Mahalia Jackson, Malcolm X e Duke Ellington e soltanto i nomi dei personaggi (Sweet Sidney, Lucas Felix, Joe Celestin, Jean Lebouef, Sam Herbert, Oscar Gray alias Tato, Frank Jamison, Louis Guerin,  Lloyd Zeno e Will Ferdinand) formano una litania ipnotica, ma è proprio attraverso le loro chiacchiere che prende forma La tragedia di Brady Sims. In effetti potrebbe essere una pièce teatrale, tutta concentrata nella cornice del negozio, solo che Ernest J. Gaines è uno di quegli scrittori che, parafrasando gli oratori lì parcheggiati, “ti buttano l’esca, cominciano a raccontarti una storia e sanno che non te ne andrai finché non sentirai la fine”. Nel ruolo di testimone e narratore, Jack Burnet, un giovane reporter incaricato di scrivere un pezzo di “vita vissuta”, come si dice in gergo, non deve far altro che ascoltare, in questo riflettendo uno spunto autobiografico dello stesso Ernest J. Gaines che diceva: “Credo di essere più un ascoltatore che un narratore, in realtà. Ascolto. Mi piace ascoltare il modo di parlare della gente e le loro storie. Poi appena posso, vado alla mia scrivania e cerco di buttare giù qualcosa. Ma non sono uno storyteller, sono uno che ascolta”. La tragedia di Brady Sims viene ricostruita proprio come una somma di racconti orali: è un uomo che si è guadagnato il suo posto sulla terra, e un angolo tutto suo dove vivere ed “era un uomo che alcune persone avrebbero definito troppo difficile. Ha vissuto in tempi difficili.... E il fardello che gli abbiamo messo addosso non era leggero. Sì, noi. Tutti, incluso me. Se avessimo fatto di più, il suo carico non sarebbe stato così pesante”. Sono parole dello sceriffo Mapes che è il contraltare di Brady Simes e a cui tocca definirne l’epilogo: “Il cielo è blu, il fiume è calmo. Guarda come si salutano l’un l’altro, mentre fanno sci d’acqua. Liberi, liberi, senza preoccupazioni al mondo. È un bella giornata, soleggiata e luminosa, tranne nel mio cuore. Nel mio cuore c’è buio. La sua pelle è nera, la mia è bianca e lui è mio amico. Non ho mai conosciuto un uomo, bianco o nero che fosse, migliore di lui. Perché? Perché l’hai fatto? Al diavolo, so perché. Lo so maledettamente bene perché”. Diceva ancora Ernest J. Gaines che “la buona arte non deve essere arrabbiata o militante per essere politica, ma semplicemente creativa, accurata e precisa” e la riprova è La tragedia di Brady Sims dove la densità della sua scrittura, risponde alla concreta idea che “l’artista è il solo uomo libero rimasto. Non deve nulla a nessuno, nemmeno a se stesso. Dovrebbe scrivere quello che vuole, quando vuole e come vuole. E se è sincero, le persone rivedranno loro stesse nei suoi libri”. Ben detto, ed è molto probabile che succeda anche con La tragedia di Brady Sims.

lunedì 2 novembre 2020

David James Poissant

Il lago è uno specchio implacabile e per la famiglia Starling è l’ultimo week-end in North Carolina. Ci hanno passato una vita, lì, nella wilderness dove  sta arrivando la speculazione edilizia, ma Lisa e Richard hanno deciso di ritirarsi (lui è già in pensione da un mese) e di vendere la casa. Si ritrovano insieme ai figli Michael (e la moglie Diane), e Thad (con il fidanzato Jake). Ben presto le apparenze vengono turbate da una tragedia e scostate bruscamente come un vecchio sipario, rivelano “un caleidoscopio di sofferenza” che si propaga con le vibrazioni di una subdola corrente sotterranea tra genitori e figli. È interessante notare come il processo di trasformazione nello scenario ideale che offre La casa sul lago parta dalla generazione più anziana, che continua a progettare l’avvenire, mentre Michael e Thad sono imprigionati in vicoli ciechi conditi da alcol, erba, pillole, terapie. Non sono abbastanza sereni da “contrapporre la logica alla nostalgia ai ricordi, agli addii”, e paradossalmente sono più intimoriti da quello che gli può riservare il domani. La vendita della casa di villeggiatura, una libera scelta di Lisa e Richard, è l’elemento che accende una reazione a catena. La tensione cresce partendo da piccole, irrilevanti questioni, per poi deflagrare secondo un meccanismo atavico che David James Poissant riconosce alla perfezione perché “è così che funzionano le famiglie: l’insignificante elevato a imperativo”. Invece di ospitare gli ultimi scampoli dell’estate, La casa sul lago diventa il capolinea di una nevrosi strisciante, un’angoscia che non cede nemmeno per sbaglio: la famiglia  si impantana in una gabbia di scelte, di rimpianti, di errori e di segreti, di timori e di speranze. Il nesso tra promesse e rimpianti, ambizioni e prospettive è sfuggente quanto le trote che sfrecciano nella corrente. Nell’incomunicabilità maturano le ansie e le paure che restano nascoste come i serpenti  nell’erba e lungo le rive del lago. Non si vedono, ma sono lì, un pericolo imponderabile e velenoso. David James Poissant non lascia via di scampo ai suoi personaggi: li incolla alle frustrazioni, a quell’ipersensibilità che li vede sempre sull’orlo di una crisi di nervi, anche nella loro natura colta, liberal, tollerante e, in definitiva, borghese. La scrittura è tesa come la superficie del lago: non c’è un vezzo, uno svolazzo, un abbellimento, niente che non sia strettamente necessario. Ci sono sei personaggi che non hanno bisogno di trovare un autore: si distinguono nettamente, anche se sono tutti coinvolti da una tristezza profonda, irrisolta, che scava solchi tra le vite e che David James affronta con partecipazione, ma anche con rispetto. Un osservatore molto esperto nel mimetizzarsi, capace di restare vicinissimo, senza farsi notare. Gli eventi attraversano il week-end degli Starling (e Jake e Diane) come folate di vento sulla superficie del lago che David James Poissant riesce a catturare grazie a un’esplorazione scrupolosa e un tatto singolare nel saper decifrare momenti delicati, fragili, eppure, nello stesso tempo, brutali. Gli episodi toccano un po’ tutti, anche i personaggi sullo sfondo, e non è un caso che siano gli estremi della famiglia Starling, Diane e Jake, a occuparsi di pittura, visto che i colori si mischiano come le vite, con le stesse gradazioni di caos e di bellezza. Non essendoci via di fuga, La casa sul lago è un laboratorio di sentimenti e di emozioni, di riflessi condizionati e compromessi necessari, pesche miracolose e X-Men, ma non ci sono supereroi, persino la fede e la politica (o quello che ne resta) sono travolte dall’attrito quotidiano con la realtà. Con notevole lucidità, David James Poissant non risolve nulla, li lascia lì ancora incerti, sulle sponde del lago, e se “il futuro è davanti a loro, sconosciuto, invisibile. E forse non sapere è un dono”, la famiglia resta un’equazione con tante incognite, poche soluzioni, molti silenzi, ma, in fondo a tutto, è ancora l’ultima spiaggia.