lunedì 31 agosto 2020

Stephen King

Nel ringraziamento “dulcis in fundo” di Stephen King ai “fedeli lettori”, per averlo “accompagnato ancora una volta”, c’è un po’ il senso ultimo dei racconti di Se scorre il sangue. Siamo nell’ambito del fanclub, dove pare legittimo che le storie vadano dove vogliono, ma che alla fine tornino e rimbalzino in confini già conosciuti ed esplorati in lungo e in largo. Nel breve romanzo che è al centro della raccolta (e gli presta il titolo), torna con prepotenza Holly Gibney, la tormentata detective di Mr Mercedes (e poi di Chi perde paga e Fine Turno) e soprattutto di The Outsider, alle prese con un’altra “creatura”, che ha il volto di un anchorman, con una particolare ed eccessiva vocazione per stragi e disastri. È il primo ad arrivare e, non di rado, diventa l’eroe tra la polvere e le lacrime. Non sfugge l’attenzione critica rivolta da Stephen King all’universo parallelo dei media in Se scorre il sangue (“si vende”, è la parte sottintesa), con la fredda ironia quando dice che “ci sono tante cose che non sappiamo su queste creature, e credo che non le sapremo mai”, ma la storia è, nei fatti, una coda di The Outsider e si regge in gran parte sulla figura di Holly Gibney che almeno giunge a una conclusione dei complessi e delle nevrosi che si portava dietro da tempo: “Non puoi avere tutto, pensa; tutti, nella vita, devono beccarsi la propria dose di merda. Ma a volte ti capita di ottenere proprio ciò di cui hai bisogno. Ed è tutto quello che una persona sana di mente può desiderare”. Non ce la toglieremo di torno tanto facilmente. Anche perché la sua percezione di “una seconda dimensione” che “esiste proprio perché la gente si rifiuta di credere che ci sia”, è il paradosso che è alla base di tutta la narrativa di Stephen King che ritrova tra Il telefono del signor Harrigan e La vita di Chuck uno dei temi ricorrenti, l’associazione tra apocalisse e tecnologia. Anche qui Stephen King si limita all’ordinaria amministrazione. Se i presupposti che alimentano Il telefono del signor Harrigan restano validissimi (il potere dei cellulari già esplorato in Cell), lo sviluppo (in particolare il finale) della ghost story è monco. Nello stesso modo, i tre atti con cui dipana La vita di Chuck contengono senza dubbio una premonizione, quanto mai attuale, con quel mondo che si sta spegnendo, ma la vicenda resta incompiuta. Stephen King si limita all’applicazione degli standard e dei cliché, C’è molto esercizio di stile e di mestiere, con accurate ripetizioni, nonché una discreta percentuale di autocitazioni nel corso della narrazione. Va da sé che nel “secondo mondo” Stephen King si muove con disinvoltura e che il suo senso per l’ignoto resta intatto, restando convinto che “anche le cose più folli possono sembrarti sensate, quando sei al buio e da solo”, ma l’impressione è abbiamo viaggiato un po’ in automatico. I personaggi sono concatenati da piccole abitudini e da consuetudini, anche datate, i nomi si intrecciano, le voci tendono a somigliarsi. Anche in Ratto, l’arte del riciclo è esercitata all’ennesima potenza: lo scrittore in crisi che si rifugia nella wilderness ricorda Jack Torrance, il topo suggeritore è la versione roditrice del fornit che animava La ballata della pallottola flessibile e l’isolamento forzato dalla tempesta ricorda un po’ anche Misery. Insomma tutti i temi di Stephen King smontati pezzo per pezzo, aggiornati e riassemblati per l’occasione. Consigliato soltanto ai fans, che si ritroveranno a casa, ma non molto di più.

sabato 29 agosto 2020

Valeria Luiselli

La prospettiva iniziale è allettante e l’eleganza della forma già evidente nelle prime pagine è un bel biglietto da visita: due ricercatori, che si sono conosciuti nello sviluppare un progetto sulle voci e sui rumori di New York, si sposano, con un figlio ciascuno dai precedenti matrimoni, per poi partire verso il West. Il viaggio ha due motivazioni dichiarate. Per lui (il marito, il padre) è una ricerca sugli apache. Per lei (la moglie, la madre e la voce della prima metà del romanzo) è un tentativo di realizzare un’indagine sui bambini abbandonati nel corso delle migrazioni verso gli Stati Uniti. Dall’alveo sicuro di New York alla vastità della frontiera, la famiglia è sollecitata dalle fatiche e dalle difficoltà della strada e dal fatto che l’inseguimento una voce diventa qualcosa di più di un esercizio antropologico, perché “le nostre madri ci insegnano a parlare, mentre il mondo ci insegna a star zitte”. L’Archivio dei bambini perduti aveva così tutti i presupposti per diventare una grande storia, ma Valeria Luiselli è stata fin troppo precisa, puntigliosa e didascalica fino allo sfinimento, con quel tono da prima della classe a ripetere più e più volte gli stessi concetti. Tutto, dai personaggi ai paesaggi, dalle interazioni alle suggestioni, è costruito fin troppo bene, ma pur sempre artefatto. È inevitabile accorgersene, perché l’Archivio dei bambini perduti sovrappone alla trama un fitto ordito richiami, rimandi, citazioni, a volte implicite, altrimenti esplicite, tra le quali spiccano, per la frequenza, gli echi di Space Oddity e i frammenti pescati da Il signore delle mosche. Un lavoro con tutte le buone intenzioni del caso, ma che si perde nello stesso labirinto che si è costruita Valeria Luiselli: l’Archivio dei bambini perduti non tiene conto del lettore, se non in modo passivo perché è tutto descritto ed elencato in modo ridondante. Seguendo un mood introspettivo, lo stile è elegante, erudito, raffinato ma anche monotono e senza particolari exploit, se non quegli artifici che lo rendono ancora più ambiguo. Proprio a metà del romanzo il narratore diventa il figlio (maschio, che sembra molto più maturo di quello che è) che si rivolge alla figlia (femmina). Nel corso del viaggio non succede molto, ma nella parte conclusiva c’è un (molto prevedibile) cambio di registro. La storia, a quel punto, risulta forzata e Valeria Luiselli diventa prolissa: fioccano i luoghi comuni, e le capita di inserire due, tre aggettivi quando uno sarebbe già abbastanza. Di conseguenza spiega, più che raccontare. Il tutto sempre in prima persona cercando con insistenza di dare una consistenza a quel continuo evidenziare le mutazioni degli umori, le piccole avventure, le discussioni e la generale fragilità emotiva di una  famiglia in cerca di un’identità. Anche l’America sullo sfondo sembra una cartolina sfocata, come se la desolazione delle ghost town, dei motel e delle highway che non portano a nulla, fosse stata ricondotta in una cornice edulcorata e politically correct. L’Archivio dei bambini perduti si gonfia così di un prestigio che non ha, e che non era necessario vista la natura in sé della storia. Per soprammercato, Valeria Luiselli ci aggiunge anche un’appendice di fotografie del viaggio, come se le parole non fossero sufficienti. Un’occasione mancata.

martedì 11 agosto 2020

Charles Bukowski

In un certo senso, per Bukowski è una sorta di ritorno a casa essendo nato ad Andernach, sul Reno. L’occasione è un tour promozionale in Germania tra reading, interviste, incontri e scoperte locali. Bukowski parte con tanta buona volontà, proclamando: “Ho letto tutti i dannati libri e adesso sono uno scrittore col bicchiere in mano e sto attraversando il grande Atlantico con Sherwood, Ernie, Ezra e Linda Lee”. Lei è il vero punto fermo di una liaison movimentata (“Continuavamo a incontrarci ogni giorno, e ogni notte, senza risolvere nulla e senza alcuna speranza di risolverlo. La perfezione”) e di un viaggio picaresco che vede Bukowski in compagnia dei  suoi editori nonché dal fotografo Michael Monfort, che lo ritrae in tutti i momenti della giornata. Le immagini in bianco e nero svelano molto dell’uomo Bukowski. Lui e Linda avvolti in una coperta. Gerry and The Pacemakers in un cartellone accanto al suo. Bukowski che se ne va in giro a visitare le cattedrali, prende un battello, fa shopping comprando “un bel po’ di vino” e anche “due impermeabili, perché pioveva sempre”. Scorrono le tappe di Colonia, Amburgo, Mannheim. È il 1978, in Germania le misure di sicurezza comprendono l’esercito negli aeroporti, il clima è uggioso e un velo di malinconia si cela dietro l’irruenza naturale di Bukowski. Negli incontri, gioca con il suo personaggio, che gli riesce sempre bene, e le fotografie di Michael Monfort lo trovano con puntualità. Ad Amburgo, dove le puttane “erano bellissime quel giorno”, l’introduzione è questa: “Sopravvivenza per mezzo di stronzate. Avevo vagabondato per l’America dieci anni su quindici nelle peggiori condizioni possibili, vale a dire inedia, prigioni, donne ignobili o senza donne, lavori ignobili o senza lavoro. Mi ero seduto nei bar più schifosi immaginabili per tutto il paese, avevo fatto piccole commissioni, un sacco di scazzottate, alcune le avevo prese (la maggior parte), alcune le avevo vinte. Posso averne persa la maggior parte perché ero denutrito e ubriaco oltre a non provare alcun interesse nel combattere, ma a volte non c’era nient’altro da fare. Ero l’intrattenitore da due soldi, il pagliaccio e dovevo escogitare trucchetti per bere gratis”. Nelle interviste, dove è piuttosto evasive, si concede qualche divertissement e rispondendo a una domanda molto generica sui suoi gusti, risponde: “Mi piace Thomas Carlyle, la Madama Butterfly e la spremuta d’arancia con dentro le bucce. Mi piacciono le radioline rosse, gli autolavaggi, i pacchetti di sigarette schiacciati e Carson McCullers”. Nel turbinio degli appuntamenti, che disorienterebbe chiunque, Bukowski trova comunque un modo per difendersi, e non gli riesce difficile enunciarlo: “La gente mi ha sempre detto che non dovrei mai fidarmi delle mie impressioni, quindi ho chiamato con un cenno la cameriera e le ho fatto segno di portarcene ancora tre e sono ritornato popolare, vero e molto umano”. Tutto comincia e finisce, inevitabilmente, a Parigi, dove Bukowski sembra ritrovarsi, per quanto nutra sentimenti ambivalenti, sia verso la città che verso se stesso in versione turista per caso: “Che scrittore del cazzo ero stato, non avevo annotato i nomi delle città e dei posti, le vedute, le sensazioni e i sentimenti grandiosi. Quel genere di cose era in ogni caso spazzatura. Perfino i contemporanei ammettevano che Parigi non era più come una volta. Ma a me sembrava un posto come qualsiasi altro dove ammattire”. Al momento di tirare le somme, non si fanno sconti, e probabilmente non li avrebbe fatti nemmeno Shakespeare, ma Bukowski sa sfoderare ancora una volta tutta la sua verve e dalla sua trasferta europea manda una cartolina molto esplicita: “Parigi beveva e mangiava tutta la notte; a differenza degli americani i francesi non pensavano mai al giorno seguente. O almeno a me sembrava così. E, come sempre, il cameriere francese era gentile ed efficiente. Ero ancora alla ricerca del cameriere francese snob. Suppongo che avrei dovuto fare un altro viaggio. Ricordo poco della serata, abbiamo bevuto e mangiato e bevuto e bevuto. Sembrava come se tutti vivessero bene, come se l’esistenza fosse tutta una farsa”. Irriducibile.

venerdì 7 agosto 2020

Hunter S. Thompson

Il regno della paura è un’estesa attraversata nel mare tempestoso di Hunter Thompson, che è infestato di ogni genere di squali. Non è un caso, perché il più delle volte i guai se li va a cercare, visto che Hunter Thompson colleziona deliri che usa come diversivi per depistare il lettore e, con ogni probabilità, anche i suoi nemici, ma nel centro della sua scrittura c’è sempre un’opposizione al potere in tutte le sue forme ed espressioni, prima fra tutte la censura. Del resto, il primo rilievo che distingue Il regno della paura è che “viviamo in un’epoca pericolosa. Abbiamo eserciti potenti e spendiamo miliardi di dollari per nuove prigioni, eppure le nostre vite continuano a essere dominate dalla paura. Siamo pigmei smarriti in un labirinto. Non siamo in guerra, stiamo per avere un crollo nervoso”. All’inizio ha le sembianze di un memoir, dove il Doc si dilunga nel retroterra dell’infanzia, in cui già mostrava un carattere indomito, poi si allarga a macchia d’olio, accelerando nelle divagazioni con una prima ammissione dell’adesione alle gesta dei suoi eroi: “Sissignore, ecco il mio mito. Sono partito da Mitchum, Burroughs, Marlon Brando, James Dean e Jack Kerouac che non avevo ancora vent’anni e non sono più tornato indietro. Se compri il biglietto, devi farti il viaggio”. Più avanti non mancano le occasioni per scontrarsi con le istituzioni, prima fra tutte la fragorosa candidatura a sceriffo di Aspen, Colorado. La cronaca della bizzarra campagna elettorale occupa Il regno della paura nella sua parte centrale ed è in quel frangente che Hunter Thompson riesce a convincerci che “miti assurdi e leggende bizzarre sono moneta corrente nella nostra cultura, come password o chiavi per la sopravvivenza”. Ed è lì che nonostante una lunga teoria di passioni smodate (le armi, l’alcol, gli additivi chimici e naturali, le polemiche, gli scherzi, le auto e le moto, il rock’n’roll), il Doc si concede come non mai a dissertare sull’origine della propria scrittura. A suo modo, la prima ammissione è sorprendente: “Non ho ancora trovato una droga che si avvicini allo sballo che dà stare seduti alla scrivania cercando di immaginare una storia, non importa quanto bizzarra, entrano e uscendo dall’assurdità del reale”. In un secondo tempo, è ancora più esplicito nel confessare lo stupore di fronte all’unica forza che può convivere con Il regno della paura: “Di tanto in tanto, ma non spesso, ci si mette al tavolino e si riesce a scrivere qualcosa che farà venire la pelle d’oca alle persone per il resto della loro vita; un ricordo perfetto, come una visione, e le parole scivolano via dalle dita rimbalzando in giro come perline, poi vanno finalmente a posto e si allineano come volevi tu... Wow! Guarda che roba! Ma chi l’ha scritta?”. Non è l’unica epifania, anche perché Hunter Thompson si concede spesso e volentieri alle lusinghe del rock’n’roll e si lascia trascinare dalle canzoni. Scrive un intero capitolo ascoltando i R.E.M. alla radio (e rubandogli i ritornelli), richiama Bob Dylan, e Lou Reed con l’immancabile Walk On The Wild Side, nonché i Los Lobos con One Night One Time In America, ma arriva ad affermare che “certe notti sono ancora convinto che se anche la lancetta del serbatoio indica che la benzina è finita la macchina può fare altri cento chilometri se alla radio c’è la musica giusta ad alto volume. Una Cadillac di lusso, nuova, fa anche o trenta chilometri in più con una dose di Carmelita. È stato ampiamente dimostrato”. Lo sapeva Warren Zevon, che l’ha scritta, e l’aveva capito anche Willy De Ville, uno che se ne intendeva di certe cose. D’altra parte “la vita è una graduale liberazione dall’ignoranza” e se “ci sono giorni in cui hai ciò che vuoi e altri ciò che ti serve”, conoscere quei due o tre modi per schivare Il regno della paura è pur sempre utile. Qui Hunter Thompson suggerisce metodi e follie, con una tale nonchalance che lo rendono il suo primo libro da avere. Tutti gli altri verranno di conseguenza, è inevitabile.

giovedì 6 agosto 2020

Gil Scott-Heron

Quello di Gil Scott-Heron è un memoir atipico che ruota attorno al tour con Stevie Wonder tra il 1980 e il 1981 nel periodo di Hotter Than July, ma si fa carico di raccontare l’infanzia, il rapporto con l’istruzione, la scoperta del valore delle parole e la loro applicazione nella scrittura, sia nella narrativa che nella musica. Con il tono confidenziale che distingue tutta L’ultima vacanza, Gil Scott-Heron spiega già nel prologo la sua iniziazione: “Ciò che mi ha aiutato a mantenere un certo ordine è stato il mio interesse per la scrittura da quando avevo dieci anni. Scrivevo racconti. Il problema era che non ne sapevo molto di nulla. E non facevo delle foto né collezionavo souvenir. C’erano alcune cose a cui davo importanza, ma pensavo che ci sarebbero state per sempre. E pensavo che io sarei vissuto per sempre”. Mentre si susseguono i ricordi, gli incontri con Langston Hughes e i Last Poets, il primo romanzo, The Vulture, scritto all’università e poi La fabbrica dei negri, Gil Scott-Heron riporta, in parallelo, l’esperienza sui palchi con Stevie Wonder, a partire dal naturale stupore di fronte al suo talento: “Non avevo mai attribuito a Stevie alcun potere soprannaturale né avevo avuto la sensazione che gli avessero fatto visita gli alieni o fosse stato toccato da qualche strega che sventolava una bacchetta magica, ma dopo aver visto un paio delle sue esibizioni, sono rimasto definitivamente incantato dall’energia che ha sempre prodotto sul palco”. Come è intuibile, la vita di Gil Scott-Heron si intreccia con gli eventi principali legati alle battaglie del popolo afroamericano ed essere con Stevie Wonder in un tour dedicato a istituire una ricorrenza nazionale per Martin Luther King (come poi avverrà qualche anno dopo) è già uno spunto decisivo che indirizza il memoir in modo netto, senza particolari pretese letterarie, almeno nello stile: è un racconto fluido, sincopato e veemente delle sue esperienze. Spiegando quanto sia importante “la conoscenza e la reale comprensione dei dettagli”, Gil Scott-Heron distingue tra la storytelling (“Scrivevo racconti da quando ero piccolo, ma dovetti arrivare a diciannove o vent’anni prima di mettere insieme i pensieri e scrivere un romanzo; allo stesso modo scrivevo canzoni da una vita, ma non erano buonissime. Ma continuavo a lavorarci su”) e songwriting (“Quando lavori sulle canzoni devi raccontare storie con un numero limitato di parole, solo qualche riga. Devi fare economia. E quando la maggior parte della gente parla di buona scrittura, parla di economia”), si concede una moltitudine di aneddoti e persino qualche divagazione astrologica, riportando tutto alla natura stessa delle parole (“Per me le parole sono sempre state importanti, fin da quando mi è possibile ricordare. Il loro suono, la loro costruzione”). L’alternarsi alla vita on the road con Stevie Wonder lo vede annotare, sul finire del 1980, due notizie dal peso specifico schiacciante. La scoperta della malattia di Bob Marley e l’assassinio di John Lennon sono eventi angosciosi che riescono a filtrare attraverso la cortina protettiva e autoreferenziale del tour. Al di là del fatto che “tutti apprezzano le star del cinema e le icone musicali, persino le persone che ne condividono la professione. Siamo tutti fan, ci meravigliamo della padronanza del loro mezzo di espressione e rimaniamo affascinati dal loro successo”, il contrasto tra la loro brutalità (soprattutto nel caso di Lennon) e il messaggio implicito ed esplicito dei concerti di Hotter Than July spinge Gil Scott-Heron a riflettere su quello che sta vivendo con una prospettiva più ampia dell’esperienza autobiografica. Lo spunto viene ancora da Stevie Wonder, come è logico che sia. Se “la struttura della voce e l’estensione rendevano ogni sua singola proposta in qualità di cantante una realizzazione individuale”, Gil Scott-Heron si accorge anche che “i nostri codici e i termini gergali che facilmente diventano di moda e svaniscono vanno dalla dipendenza agli eloquenti scambi di vuoto e impotenza piuttosto velocemente, così come le persone, la musica, i film e ciò-che-significa-qualcosa per noi e per gli altri va e passa di moda in un batter d’occhio”. Con questo, L’ultima vacanza è qualcosa in più di un memoir: è la confessione lucida e coraggiosa di un artista davanti ai limiti, alle possibilità e alle promesse della scrittura, e al cospetto della genialità svelata show dopo show da Stevie Wonder. Da tenere in considerazione.

mercoledì 5 agosto 2020

George Prochnik

Con l’avvento del nazismo, Vienna si svuota. Fuggono tutti e della città cosmopolita, festosa, effervescente restano solo ombre e rimpianti sotto la lugubre egida della svastica. Si defilano, appena possono, gli scrittori, i drammaturghi, i musicisti, gli intellettuali perché, come scriveva Heinrich Mann (il fratello di Thomas Mann) “coloro che scompaiono sono i primi a scoprire cosa ha in serbo la storia”. Goebbels, con la consueta sagacia, li avrebbe definiti “cadaveri in congedo”. L’esilio era un effetto collaterale del suicidio dell’Europa e la fuga l’unica prospettiva umanamente comprensibile. Anche la famiglia di George Prochnik scappò da Vienna nel 1938 e per vie rocambolesche, passando prima dalla Svizzera, poi dall’Italia, raggiunse New York. Il tragitto si sovrappone, in parte, a quello seguito da Stefan Zweig ed è uno dei motivi che ha spinto George Prochnik a indagare sul suo esilio, come su quello della sua famiglia: “Mi ci è voluto parecchio tempo per capire quanto sia andato irrimediabilmente perduto nel corso della tormentata fuga della mia famiglia. Se appena un terzo degli ebrei europei è riuscito a sopravvivere a Hitler, solo una minima parte dei fuggitivi è riuscita a mantenere intatte la propria identità e la propria umanità. La vita di Zweig in esilio mi attrae proprio perché presenta, come in un tableau vivant, tutti gli stadi tipici dell’esperienza del profugo, condivisa da tutti coloro che tentavano di sfuggire a uno Stato divenuto assassino. La sua storia, poi, getta nuova luce sulle difficoltà personali causate dall’esilio, che non si risolvono una volta guadagnata la libertà”. Stefan Zweig cerca rifugio “dagli ingranaggi impazziti della storia mondiale” prima a Bath, nel Regno Unito, poi a New York e infine in Brasile, dove è accolto e accudito con tutti gli onori, come una celebrità. Ma qualcosa non va: la ricerca di una nuova identità si scontra con la tensione, l’insicurezza, il dubbio al punto che Stefan Zweig dice che “c’è un misterioso piacere nel trattenere il proprio intelletto e la propria indipendenza spirituale, soprattutto in un periodo in cui dilagano confusione e follia”. La sensazione di essere comunque fuori posto, di appartenere soltanto a un mutevole caos di bisogni e urgenze rivela che “l’esilio non è una condizione stabile, ma un processo”. Nella raffinata e documentatissima ricostruzione di George Prochnik risaltano i tentativi di Stefan Zweig di adattarsi alla nuova realtà, che diventano evidenti quando riflette quello che diceva Friedrich Schiller: “Scrivo da cittadino del mondo. Ho presto scambiato la mia patria con l’umanità intera”. Ben presto, quell’intenzione si risolve si risolve in un’assidua routine, destinata a consolidare la dignità dello scrittore, ma con ben poche speranze da inseguire, al punto che scrive al suo editore americano, Ben Huebsch: “Non ho niente da riferire se non che qui è tutto molto tranquillo e che lavoro intensamente, quasi senza interruzioni”. L’esilio impossibile si regge sull’eleganza di un equilibrio che George Prochnik sviluppa con grande attenzione e uno spiccato senso della misura (soprattutto nei confronti del lettore) nel cercare con insistenza di rendere intellegibile la convivenza tra il mondo coltissimo di Stefan Zweig e le dure conseguenze dell’esilio. Compreso il tragico finale, dato che, secondo George Prochnik, “non riusciva a liberarsi dalla sensazione di non appartenere più a nessun luogo e di non aver più un posto dove andare. Ogni cosa che faceva, ora, pareva contenere allusioni alla fine di tutto. L’attrazione del nulla. Erano rimasti il tutto o il niente, senza più vie di mezzo”. In effetti, l’ultima lezione diStefan Zweig suona come un monito e un appello allo stesso tempo: “Non amo i vincitori, coloro che trionfano, ma gli sconfitti, e penso che sia compito dell’artista rappresentare i personaggi che hanno resistito alle tendenze del loro tempo e sono caduti vittima delle proprie convinzioni”. È un lungo viaggio, un efficace vademecum sulla natura dell’esilio, ma anche una testimonianza indelebile degli effetti delle peggiori follie del ventesimo secolo.

martedì 4 agosto 2020

Gina Berriault

Nel periodo tra la seconda guerra mondiale e il conflitto in Corea, un segmento storico segnato da profonde trasformazioni sociali ed economiche, Vivian Carpentier e Paul Cardoni si sposano. Hanno poco più di vent’anni: lei si è appena laureata, lui fa il cameriere sognando Hollywood. Per quanto inconcludente e destinato a durare ben poco, il matrimonio produce un bel bambino che Vivian “chiamò David, non in onore di un qualche parente o amico, ma perché quel nome l’aveva sempre affascinata, ricordandole il ragazzo che era riuscito a uccidere il gigante e da adulto era diventato re; un nome che le richiamava un’eterna giovinezza”. Il figlio mette subito in evidenza la distanza tra le persone e anche nel rapporto con i genitori, Vivian si accorge che “le madri facevano sempre parte del passato e non del futuro”. Essendo diventa a sua volta una madre, dopo il primo marito, nel frattempo disperso da qualche parte in America, Vivian acconsente soltanto a legami con una data di scadenza, per quanto appassionanti e, non di rado, dolorosi, come la relazione con Max Laurie. I personaggi sono tormentati e disorientati, la felicità è preclusa e Gina Berriault è un’osservatrice estrema, che non si permette una distrazione (e non ne concede al lettore), con scelte singolari. Su tutte, il tono descrittivo che privilegia il dettaglio, l’atmosfera, la scena e le immagini rispetto all’inseguimento della voce dei personaggi. Con i dialoghi ridotti ai minimi termini, come se le parole fossero una fonte di equivoci e quindi un limite imprevedibile, Il figlio è un romanzo denso che distilla il tormenti dei protagonisti, in particolare di Vivian. L’ossessione per il figlio è costante, e la divora, e lo sguardo di Gina Berriault, che osserva le gesta e le emozioni dei personaggi con un particolare microscopio, porta a condividerla in tutte le sue sfumature. I legami sfuggenti con gli altri uomini scandiscono lo scorrere delle giornate di Vivian, ma in un modo o nell’altro lei ritorna comunque al figlio, l’unico punto fermo della sua vita. Un polo magnetico che la attrae ben oltre il rapporto naturale tra madre e figlio e nello stesso tempo è un ostacolo impraticabile per gli uomini che sono disordinati, affaticati, rallentati dall’alcol e dalla noia, incapaci di vedere un legame più concreto di una scorribanda al club. La trama ruota attorno a questi cambi e il bilancio è decisamente limitato: “Ogni volta che un uomo scompariva dalla sua vita, era come se il tempo con lui l’avesse privata della possibilità di trovare altro tempo per altre persone. Una sua possibile vita era andata perduta”. Mentre svaniscono personaggi sono stratificati uno accanto all’altro ed è come se Gina Berriault li usasse per dissimulare il vero baricentro dell’esistenza di Vivian. A Gina Berriault sfugge un ossimoro quando dice che “sarebbero stati soli insieme”, un’ammissione che rivela come Vivian si sia accorta che “nella solitudine del figlio vedeva un ragazzo in procinto di diventare un uomo ricercato, un uomo che avrebbe fatto della solitudine un modo di vivere, desiderato e bramato a causa di essa”. È in quel momento che il passo della scrittura di Gina Berriault si mostra in tutta la sua efficacia: Il figlio impone un finale drastico, in gran parte prevedibile, ma non meno disturbante. Gina Berriault ci arriva dopo aver costruito un’impalcatura raffinata, che tocca gli abissi più intimi e oscuri dei personaggi. Il corto circuito è cominciato per tempo  quando, rispetto a David, “Vivian sapeva che riusciva a capirla meglio di chiunque altro. Nessuno la conosceva così bene, tanto vicino da poter violare il suo privato, sapendo che questo non avrebbe mai potuto sminuire o negare l’amore che lei provava per lui”. Ci sarà solo un modo per sciogliere questa tensione e Gina Berriault si astiene da ogni valutazione morale, come del resto aveva fatto con Vivian e i suoi maldestri amanti. Lo racconta con una raffinatezza seducente, tale da rendere affascinante anche un’esperienza che non può avere assoluzione.