Quello di Gil Scott-Heron è un memoir atipico che ruota attorno al tour con Stevie Wonder tra il 1980 e il 1981 nel periodo di Hotter Than July, ma si fa carico di raccontare l’infanzia, il rapporto con l’istruzione, la scoperta del valore delle parole e la loro applicazione nella scrittura, sia nella narrativa che nella musica. Con il tono confidenziale che distingue tutta L’ultima vacanza, Gil Scott-Heron spiega già nel prologo la sua iniziazione: “Ciò che mi ha aiutato a mantenere un certo ordine è stato il mio interesse per la scrittura da quando avevo dieci anni. Scrivevo racconti. Il problema era che non ne sapevo molto di nulla. E non facevo delle foto né collezionavo souvenir. C’erano alcune cose a cui davo importanza, ma pensavo che ci sarebbero state per sempre. E pensavo che io sarei vissuto per sempre”. Mentre si susseguono i ricordi, gli incontri con Langston Hughes e i Last Poets, il primo romanzo, The Vulture, scritto all’università e poi La fabbrica dei negri, Gil Scott-Heron riporta, in parallelo, l’esperienza sui palchi con Stevie Wonder, a partire dal naturale stupore di fronte al suo talento: “Non avevo mai attribuito a Stevie alcun potere soprannaturale né avevo avuto la sensazione che gli avessero fatto visita gli alieni o fosse stato toccato da qualche strega che sventolava una bacchetta magica, ma dopo aver visto un paio delle sue esibizioni, sono rimasto definitivamente incantato dall’energia che ha sempre prodotto sul palco”. Come è intuibile, la vita di Gil Scott-Heron si intreccia con gli eventi principali legati alle battaglie del popolo afroamericano ed essere con Stevie Wonder in un tour dedicato a istituire una ricorrenza nazionale per Martin Luther King (come poi avverrà qualche anno dopo) è già uno spunto decisivo che indirizza il memoir in modo netto, senza particolari pretese letterarie, almeno nello stile: è un racconto fluido, sincopato e veemente delle sue esperienze. Spiegando quanto sia importante “la conoscenza e la reale comprensione dei dettagli”, Gil Scott-Heron distingue tra la storytelling (“Scrivevo racconti da quando ero piccolo, ma dovetti arrivare a diciannove o vent’anni prima di mettere insieme i pensieri e scrivere un romanzo; allo stesso modo scrivevo canzoni da una vita, ma non erano buonissime. Ma continuavo a lavorarci su”) e songwriting (“Quando lavori sulle canzoni devi raccontare storie con un numero limitato di parole, solo qualche riga. Devi fare economia. E quando la maggior parte della gente parla di buona scrittura, parla di economia”), si concede una moltitudine di aneddoti e persino qualche divagazione astrologica, riportando tutto alla natura stessa delle parole (“Per me le parole sono sempre state importanti, fin da quando mi è possibile ricordare. Il loro suono, la loro costruzione”). L’alternarsi alla vita on the road con Stevie Wonder lo vede annotare, sul finire del 1980, due notizie dal peso specifico schiacciante. La scoperta della malattia di Bob Marley e l’assassinio di John Lennon sono eventi angosciosi che riescono a filtrare attraverso la cortina protettiva e autoreferenziale del tour. Al di là del fatto che “tutti apprezzano le star del cinema e le icone musicali, persino le persone che ne condividono la professione. Siamo tutti fan, ci meravigliamo della padronanza del loro mezzo di espressione e rimaniamo affascinati dal loro successo”, il contrasto tra la loro brutalità (soprattutto nel caso di Lennon) e il messaggio implicito ed esplicito dei concerti di Hotter Than July spinge Gil Scott-Heron a riflettere su quello che sta vivendo con una prospettiva più ampia dell’esperienza autobiografica. Lo spunto viene ancora da Stevie Wonder, come è logico che sia. Se “la struttura della voce e l’estensione rendevano ogni sua singola proposta in qualità di cantante una realizzazione individuale”, Gil Scott-Heron si accorge anche che “i nostri codici e i termini gergali che facilmente diventano di moda e svaniscono vanno dalla dipendenza agli eloquenti scambi di vuoto e impotenza piuttosto velocemente, così come le persone, la musica, i film e ciò-che-significa-qualcosa per noi e per gli altri va e passa di moda in un batter d’occhio”. Con questo, L’ultima vacanza è qualcosa in più di un memoir: è la confessione lucida e coraggiosa di un artista davanti ai limiti, alle possibilità e alle promesse della scrittura, e al cospetto della genialità svelata show dopo show da Stevie Wonder. Da tenere in considerazione.
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