martedì 26 luglio 2016

Joan Didion

E’ come se L’anno del pensiero magico si fosse allungato a dismisura, dando forma compiuta alle impercettibili variazioni delle Blue Nights, quando, secondo Joan Didion, diventano evidenti “la fine della promessa, l’affievolirsi dei giorni, l’inevitabilità della dissolvenza”. Se, nella sostanza, si tratta di un memoriale dedicato alla figlia Quintana Roo, a tutti gli effetti Joan Didion usa l’introspezione per ricollocare il dolore (immane) e quei ricordi che “sono tutto ciò che non vuoi più ricordare”. Il paradosso è alla fonte nella frattura delle Blue Nights nel momento in cui, dice Joan Didion, “qualcosa che ha alterato la prospettiva delle mie possibilità, ha ristretto, per così dire, l’orizzonte”. La confessione è sempre esplicita e l’unico palliativo è lo stile irreprensibile. La rivelazione di particolari (autobiografici) intimi, anche molto vividi e laceranti, ancora carichi di interrogativi (nello specifico, tutto quello che riguarda l’adozione di Quintana Roo) non sorprende per l’accuratezza e la minuziosa elaborazione di Joan Didion che misura parola per parola, spesso ripetendosi, per essere certa di trasmettere una ricostruzione efficiente. Stupisce l’immediatezza e la lucidità con cui momenti delicati e appartenenti a una sfera riservatissima delle emozioni nelle Blue Nights si associano con naturalezza a fatti di cronaca e/o storici (la guerra in Vietnam o l’invasione di Panama, tra gli altri) che filtrano per osmosi e si vanno a incastrare nel tessuto narrativo nel tentativo, lungimirante e ammirevole, di definire il mestiere indefinibile di madre, di padre, di genitore. Un ruolo molto privato, una funzione molto pubblica. La differenza generazionale, tra madre e figlia, è anche una frattura epocale su cui Joan Didion riflette a lungo: “C’era una guerra in corso. Quella guerra non ruotava intorno ai desideri dei figli, né dipendeva in alcun modo da essi. In cambio dell’accettazione di queste semplici verità, ai figli era concesso di inventarsi la propria vita. L’idea che potevano essere abbandonati a se stessi, che anzi fosse la cosa migliore per loro, non veniva messa in discussione”. I dettagli vengono usati come chiodi per fissare quegli istanti, “un periodo, un decennio, durante il quale tutto sembrava corrispondere”, così come schegge e frammenti che si perdono perché “il tempo passa. Il ricordo sbiadisce, il ricordo si adatta, il ricordo si adegua a ciò che pensiamo di ricordare”. Joan Didion non si sofferma mai né alle mutevoli ragioni della memoria né al bisogno di consolazione ed è estrema nel sottolineare le asperità della perdita, della mancanza, ma la tensione nella confessione delle Blue Nights è continua, inalterata, va oltre il lutto e la sua condivisione. Lo ribadisce, con grande coraggio: “Vi racconto questa storia vera solo per dimostrare che posso farlo. Che la mia fragilità non è ancora arrivata al punto di impedirmi di poter raccontare una storia vera”. La realtà delle Blue Nights ricorda che “quando perdiamo quel senso di possibilità, lo perdiamo in fretta. Un giorno siamo tutti presi a vestirci bene, a seguire le notizie, a tenerci al passo, a essere all’altezza, in sostanza a restare vivi; il giorno dopo non più”. L’inadeguatezza è fisiologica l’incongruenza inevitabile, visto che “per ogni cosa c’è una stagione”, dicono le sacre scritture, ma Joan Didion pensa ancora e prima di tutto a Turn, Turn, Turn dei Byrds, a non dimenticare che, a saldo di tutte le ferite, c’è quel sogno, magico, di volare via, anche nell’implacabile luce del crepuscolo.

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