martedì 23 novembre 2021

Joy Williams

A un certo punto, tra le numerose storie che L’ospite d’onore raduna, Joy Williams ammette, in maiuscolo, che “i presupposti di amore e autoconservazione sono inconciliabili”. Da questo nocciolo ineluttabile, i suoi racconti toccano corde sensibili, sfiorano la mutevole sensazione del tempo che scorre inesorabile e la consapevolezza che “il mondo non distingue tra un tipo di dolore e l’altro. È la tentazione di credere che sia così a tenerci incatenati”. È  il motivo per cui le short story di Joy Williams sono pervase da “una squisita sensazione di irrequietezza”, come capita alla protagonista di Diritto di visita. Una condizione determinata dal termine delle stagioni, dallo sfumare dell’infanzia e dell’adolescenza o da una transizione, spesso violenta e repentina, che porta le vite dei protagonisti ad arenarsi, come balene sulle spiagge. Gradualmente, i meccanismi abituali di Joy Williams risalgono in superficie e si notano nello scorrere dei nomi, nei gesti, nelle case e degli ambienti, mentre tutto intorno le cose prendono pieghe impreviste, si spezzano o semplicemente si consumano. Lo stile è fatto di brevi frasi che scattano a raffica, passando dalla prima alla terza persona, senza distinzione nel tono, che resta secco e incisivo, e non disperde una parola che sia una. Con un gusto un po’ da voyeur, Joy Williams intercetta frasi e dialoghi per strada con un orecchio allenato, ma le colloca in una dimensione speciale, descritta così in Ossa di balena: “Esiste un certo tipo di conversazione che si sente solo da ubriachi ed è come un sogno, impregnato di umorismo, senso di minaccia e valore, un valore profondo. Ed è diverso anche il modo in cui si assiste a qualcosa, da ubriachi. È come indossare una maschera da sub, infilare la testa sott’acqua e osservare cosa c’è sul fondo, il cuore confuso e innocente delle cose”. L’ospite d’onore lascia sentire le voci intrappolate “in un mondo di caos e sentimenti contrastanti” (Il matrimonio), arrivando a considerare il fatto che “forse la comprensione era più importante dell’amore, e forse la forma più alta di comprensione era la comprensione di se stessi, delle proprie motivazioni, dei propri desideri delle proprie capacità”. Con l’amara certezza, come succede in Chimica invernale, che “l’amore poteva avere molti inizi, ma una sola fine. Qualcuno era destinato a farsi male”. Nell’insieme L’ospite d’onore condensa l’intera fragilità dei uomini e donne, e quando i personaggi piangono, piangono davvero. Detto questo, Joy Williams mostra tutta una particolare empatia per loro, anche se non gli risparmia nulla: “bevono troppo”, sono ipersensibili, spesso indifesi o semplicemente sconfitti. Eppure in ogni singola storia si può trovare uno scampolo di umanità, una piccola scintilla, non fosse altro che una felicità “spuntata fuori dal nulla, per caso” (Fughe). Secondo Joy Williams, un racconto è “una superficie chiara con molto disagio sotto” e il mood malinconico comprende alcuni temi ricorrenti che punteggiano L’ospite d’onore in tutti i suoi episodi: il legame tra madre e figlia e i rapporti coppia (per qualche motivo i personaggi di Joy Williams procedono sempre a due a due), gli aspetti surreali, notturni e onirici (L’escursione, Congresso o Lu-lu, quasi una sequenza di un film di David Lynch), l’onnipresente oceano sul versante atlantico  (“Non vedevamo il mare, ma eravamo consapevoli della sua presenza perché ovviamente era tutto intorno”) e il dolore in tutte le sue declinazioni, a partire da perdite tragiche e irrimediabili (Marabù). I racconti di Joy Williams hanno qualcosa di speciale, pur non avendo niente di particolare: sarà il taglio delle storie (che non fanno sconti a nessuno), saranno i dialoghi o le parole che assumono “la forma di animali pazienti, minacciosi” o quella luce crepuscolare che li sottolinea, ma alla fin fine con il mare, la madre, la notte, la morte bisogna tornare ancora all’illuminazione di Harold Bloom, che concentra tutta la letteratura americana in questi quattro elementi. Per Joy Williams sono una costante matematica e così è vero che L’ospite d’onore (un libro prezioso) contiene “la quintessenza del racconto americano”, parola di Don DeLillo.

venerdì 19 novembre 2021

John Irving

La storia dell’amicizia tra John Wheelwright e Owen Meany si dipana tra il 1953 e 1987, con un continuo saltare attraverso gli anni, perché “la memoria è un mostro: tu dimentichi, essa no. Archivia le cose, ecco tutto. Le conserva per te, o te le nasconde, e le richiama, per fartele ricordare, a sua volontà. Credi di avere una memoria. Ma è la memoria che ha te”. Il presupposto, “brillante ma assurdo” è che Owen Meany, minuscolo rappresentante di una famiglia di cavatori di granito (un dettaglio da non dimenticare, fino in fondo), con una voce altisonante (parla in maiuscolo), con un colpo sfortunato inferto a una palla da baseball uccide la madre di John Wheelwright. Tutto Preghiera per un amico è un gioco a incastri dove, aneddoto dopo aneddoto,   dilaga un mondo di personaggi in ebollizione. Owen Meany è l’outsider per eccellenza, fuori misura, fuori posto, eccessivo, da un certo punto di vista coerente alla storia, ma assolutamente eccentrico nello sviluppo, dove scortica la rappresentazione di Canto di Natale, si scontra con le autorità del college (viene espulso per via delle sue cartoline precetto false, utili per farsi servire da bere), si arruola nell’esercito dove sogna la data e circostanze precise della propria morte. Roba sufficiente per tre romanzi. Sullo sfondo, la società americana è proiettata con somma e irriverente ironia su uno schermo credibile nel conflitto con tutte l’autorità delle scolastiche ed ecclesiastiche e, infine, militari. Va da sé che, una dopo l’altra, vengono messe alla berlina. Come una voce della coscienza incontrollabile, Owen Meany ha comunque le parole giuste e il legame con John è un rapporto che va oltre il tempo e l’amicizia. Insieme scoprono il passato misterioso della madre e vivono gli “anni vietnamiti”, un’epoca di divisioni e fratture per tutti, anche per loro. Mentre John Wheelwright si trasferisce in Canada per proseguire gli studi e diventare a sua volta professore di lettere, Owen Meany si arruola con l’intenzione di andare a combattere in Vietnam. Prende forma così una storia americana parallela, con l’aggiornamento quotidiano delle truppe inviate e dei caduti tornati in un sacco di plastica, con il ruolo via via più invadente e determinante della televisione che John Irving non teme di segnalare più volte: “È quando ti fa assistere al massacro di eroi nel pieno del loro fulgore, a una strage di innocenti, che la televisione assurge alla sua deplorevole grandezza”. In quei frangenti, all’interno dell’amicizia di John e Owen si inserisce anche Hester a rappresentare l’altra parte, quella che cantava Four Strong Winds e  coltivava l’idea illusoria di “rifare il mondo” che invece porterà, di nuovo e ancora e ancora agli anni di Reagan, delle guerre spaziali e della proliferazione nucleare e dello scandalo Iran-contras, perché cambiano i tempi ma resta qualcosa che  “è tipico della politica americana: non essere chiaro, sii deciso”. Lo stile sfrenato di John Irving è torrenziale e pare non avere limiti. Di sicuro, non ha alcun timore a compiere balzi senza rete sapendo che “un buon libro è sempre in moto: dal generale al particolare, dalle parti al tutto e viceversa, avanti e indietro”. È proprio quello che succede in Preghiera per un amico dove soggetti inanimati (persino un manichino) valgono quanto le persone e i loro pensieri perché “la logica è relativa” e nella miriade di riferimenti letterari sparsi, da Graham Greene a Robert Frost, passando per Il grande Gatsby e nel continuo infilarsi in digressioni immaginifiche, la scrittura è avvolgente, ipnotica, tanto che la trama (fittissima ed elaborata, si sarà capito) tende spesso a sfuggire. Al contrario il finale, in puro John Irving style, è pirotecnico, per quanto previsto nei minimi dettagli da Owen Meany. E ha ragione Stephen King quando dice che Preghiera per un amico “è una rara creazione dell’universo ormai esausto del romanzo di fine Novecento”. Notevole.

giovedì 4 novembre 2021

Rachel Carson

Lo studio di Rachel Carson risale al 1962 e, anche se alcuni aspetti da allora sono radicalmente cambiati, proprio grazie alla sua pubblicazione, le conclusioni rimangono solidissime e sempre attuali. L’uso delle sostanze chimiche, non soltanto nel campo dell’agricoltura ma in tutto lo spettro della vita umana, è “un problema di ecologia, di correlazione e di interdipendenza”. È l’assunto principale di Primavera silenziosa a cui segue, puntuale e necessaria, la precisazione sulle decisioni che impongono il loro utilizzo e contiene inevitabilmente una critica al potere costituito perché, come spiega Rachel Carson, “tale arbitrio denuncia la temporanea intrusione di un principio autoritario nell’esercizio del potere. Essa tradisce la buona fede di milioni di cittadini, per i quali la bellezza e l’ordine del mondo naturale hanno ancora un significato profondo e inalienabile”. L’analisi è condotta su rigorose basi scientifiche e spesso e volentieri per affrontare Primavera silenziosa bisogna districarsi in un trattato di chimica industriale, tenendo a portata di mano la tavola periodica degli elementi: Rachel Carson è meticolosa nel provare l’incidenza delle sostanze chimiche sulla “natura reale della vita” attraverso l’inquinamento del suolo e delle acque. La terra è il primo fattore a subire le conseguenze dell’uso sistematico di composti chimici, a partire dall’irrorazione degli insetticidi. I danni ambientali, documentati da Primavera silenziosa con atti ed esami provenienti da tutti gli Stati Uniti, rimangono impressionanti, ma è ancora più grave l’incidenza sulla percezione stessa del territorio. Dice infatti Rachel Carson: “Se è vero che la nostra esistenza basata sull’agricoltura dipende dal suolo, non è meno vero che il suolo dipende a sua volta dalle forme viventi, dato che la sua origine e la conservazione della sua reale natura hanno un’intima connessione con la vita delle piante e degli animali. Il suolo, infatti, è stato parzialmente creato dalla vita, e la sua nascita può considerarsi il frutto di una sorprendente interazioni, in epoche remotissime, tra viventi e cose inanimate”. Lo stesso discorso vale per l’acqua: sia nel suo scorrere superficiale che in quello sotterraneo, quando viene avvelenata dai residui chimici si trasforma da fluido vitale nella catena alimentare degli esseri viventi, dal plancton ai mammiferi, a veicolo di morte e distruzione. Qui, la riflessione di Rachel Carson si estende a una considerazione più ampia e approfondita, che merita di essere affrontata per esteso: “Per le sorti del genere umano, ciò che più importa non è la vita dei singoli individui, ma il retaggio genetico, questo vincolo che ci lega al passato e al futuro. Plasmati attraverso millenni di evoluzione, i nostri geni non soltanto fanno di noi quello che siamo, ma racchiudono nella loro minuscola natura ogni prospettiva dell’avvenire, ricca di promesse o gravida di minacce”. La destinazione a cui giunge Primavera silenziosa, partendo dall’abuso delle sostanze chimiche, comprende una paio di considerazioni insindacabili nella complessità della presenza umana sulla terra: 1) “Il controllo della natura è una frase piena di presunzione, nata in un periodo della biologia e della filosofia che potremmo definire l’età di Neanderthal, quando ancora si riteneva che la natura esistesse per l’esclusivo vantaggio dell’uomo”; 2) “La vita è un miracolo che va oltre i limiti della comprensione umana ed esige rispetto anche quando ci troviamo costretti a combattere contro di essa”. Diretta conseguenza di questi due postulati, la conclusione di Rachel Carson è in effetti il richiamo a un’assunzione di responsabilità, che non è più rimandabile: “Spetta dunque a noi decidere. Se, dopo aver tanto sopportato, abbiamo finalmente rivendicato il nostro diritto di sapere, e ci siamo accorti allora che ci viene richiesto di affrontare rischi insensati e spaventevoli, perché mai dovremmo dare ancora ascolto a chi ci esorta a cospargere il nostro mondo di veleni chimici? Guardiamoci piuttosto attorno e cerchiamo di vedere se esiste un’altra soluzione”. Per cui più degli slogan e dei proclami servono “migliaia di piccole battaglie destinate a far trionfare il buon senso e la ragionevolezza nel nostro adattamento al mondo che ci circonda”. Impegnativo, ma necessario.

mercoledì 3 novembre 2021

Johnny Cash

Ebreo, fariseo, cittadino romano, sarto e studioso, persecutore e martire, la figura di Paolo alias Saulo di Tarso è ancora oggi discussa dagli esegeti sia per il mutevole contesto, sia per numerosi dettagli storici e biografici. Dal canto suo, Johnny Cash la racconta collocando in una cornice necessariamente semplificata l’occupazione romana, il Sinedrio, e poi Gamaliele, Pietro, Giacomo, Barnaba, Sara e tutta una pletora di personaggi che, nella dimensione del sogno, delle visioni e dei miracoli, corroborano la trasformazione dell’apostolo Paolo. Nella sostanza, la forma è quella di un romanzo storico che Johnny Cash in modo molto pragmatico riesce a trasformare in una ballata districandosi tra tre lingue (ebraico, greco, latino) e estrapolando dalla Bibbia le frasi, i versetti, i salmi che finiscono accanto alle sue parole, senza timori reverenziali e senza soluzione di continuità. Un’operazione di equilibrismo, tra teologia e narrativa, che rende l’interpretazione della conversione di Paolo secondo Johnny Cash quasi un western, almeno nella scenografia e nella descrizione dei paesaggi e delle azioni, che risultano avvincenti. Attorno alla figura di Paolo, che troverà compimento a sua volta con il martirio, scatta un processo di identificazione, in gran parte irrisolto, perché come diceva Johnny Cash nella sua autobiografia: “Avrei voluto avere la sua stessa forza”. Non di meno, Paolo si adatta benissimo alla visione di Johnny Cash che, secondo uno dei biografi più accreditati, Steve Turner, “scriveva del peccato non in modo astratto, ma come qualcosa che aveva conosciuto intimamente”. Anche la storia di Paolo, in fondo, è ispirata dalla ricerca della redenzione, che diventa il leitmotiv inseguito con ostinazione da Johnny Cash. All’inizio della metamorfosi siamo ancora a Gerusalemme ed è nell’affermazione dell’illustre Nicodemo che vanno percepiti i primi segnali: “Questi occhi hanno visto molta morte e, dopo aver riflettuto, devo dire che gli uomini farebbero meglio a smetterla di assumersi la responsabilità di causare la sofferenza e la morte di altri uomini”. Nella ricostruzione di Johnny Cash, Paolo, che all’epoca aveva ancora il suo nome originale, Saulo, si rende complice del martirio di Stefano e il suo eccesso di zelo nel condannare e perseguire le comunità protocristiane, ovvero “i seguaci del nazareno”, lo conduce verso Damasco. Sulla strada, in una scena raccontata da Johnny Cash senza fare economia di effetti speciali, giunge, come è noto, la proverbiale conversione in un tripudio di luce, da cui discende anche il titolo, L’uomo in bianco. Nella fede, ecco, c’è il comune afflato verso gli ultimi: come diceva nella prima lettera ai Corinzi “siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi”. È una condizione familiare per Johnny Cash che riesce a vedere in Paolo un modello: “Era un uomo con una missione precisa, incapace di stare fermo, sempre preso da nuovi progetti, e in questo gli assomiglio molto. Il suo modo di fare è diventato il mio. Mentre sono in viaggio e devo affrontare nuove strade, cerco di fare leva sulla stessa forza che Paolo aveva trovato”. Poi nella costruzione pratica del romanzo, Johnny Cash si concede qualche libertà, che generano piccole sviste, e un paio di situazioni curiose. In un passaggio parla di fare le valigie, un termine che avrebbe senso giusto all’inizio del ventesimo secolo, e in un altro della forza di gravità, che sarebbe stata scoperta soltanto millecinquecento anni dopo, ma come direbbe Sant’Agostino “il tempo non è inoperoso né oziosamente trascorre sui nostri sentimenti e produce nell’animo meravigliosi effetti”. Interessante.