domenica 28 giugno 2015

Mark Oliver Everett

La sincerità che filtra dalle pagine di Mark Oliver Everett non si trova spesso nelle testimonianze autobiografiche, in particolare quelle di artisti e/o musicisti che arrivano alla scrittura come ultima chance. Con il nome ridotto in E, Mark Oliver Everett guida da anni uno degli ensemble più creativi ed eccentrici della storia recente del rock'n'roll, gli Eels, e questo potrebbe già essere sufficiente a giustificare il diario delle difficoltà, della fatica e delle incomprensioni necessarie a mantenere accesa una scintilla, un barlume d'idea. Una delle prime confessioni, esplicita, non lascia dubbi in questo campo: “Quando sei un ragazzino e guardi il tuo gruppo preferito in televisione, ti sembra che sia soltanto divertimento. Entusiasmo. Ma poi scopri che, in realtà, per farlo e per provare a farlo bene, se ti importa sul serio del risultato finale, devi svolgere un lavoro estremamente duro. Reggere uno stile di vita stressante. Non è per tutti. Devi essere completamente votato alla missione e disposto a rinunciare a ogni tipo di vita reale. Perché a nessuno fregherà mai della tua musica come a te, e dovrai combattere tutti i giorni. Una guerra dura, solitaria. E per me la guerra non finisce mai”. Anche se la scrittura è schematica, collezionata in frasi brevi e spicciole (anche meccaniche) e senza alcuna pretesa stilistica, E riesce a coinvolgere proprio per quella capacità di mettersi in gioco, di mostrarsi, di spogliarsi che è la premessa fondamentale dell'esistenza di ogni singolo artista. Le guerre che ha dovuto combattere sono tante: E passa in rassegna i drammi della sua adolescenza, le ferite aperte dai lutti famigliari (il padre che gli muore tra le braccia, il suicidio della sorella) e poi l'ostinazione e quindi le sofferenza nell'assiduità dei tentativi di esprimersi, e vivere, attraverso la musica e gli Eels, in sintesi quello che chiama “lo strano universo parallelo della mia esistenza: nasconditi dentro te stesso nella vita reale, altrimenti riceverai soltanto offese e umiliazioni, ma sali sul palco ed esibisciti con passione e sentimento, figlio di puttana”. Il collegamento con gli eroi dell'adolescenza, omaggiati ancora anche nel recente (e bellissimo) show riportato in Royal Albert Hall riprende quello spontaneo processo di identificazione da una prospettiva più matura, come già raccontava lo stesso E: “John Lennon ed Elvis Presley mi piacciono un sacco perché erano uomini insicuri. E per me è proprio quell'insicurezza a renderli artisti del tutto umani. Potevano anche cantare da dio, ma ti lasciavano sempre l'impressione di essere reali, umani. Mettete su un qualsiasi disco di Elvis, persino uno dei peggiori. Anzi, soprattutto uno di quelli peggiori, e sentirete la sua vulnerabilità trasudare dai solchi di quel disco”. Il resto del tempo va e viene ed E ha trovato una sorta di compromesso con i suoi demoni e con le sviste dell'esistenza, concludendo le sciocchezze che i nipotini dovrebbero sapere con una postilla molto semplice: “Ho imparato ad apprezzare i tiri a effetto che la vita mi lancia contro, e voglio provare a fidarmi di quest'ultimo colpo. Esco e vado in una sala da biliardo per farmi una partita e bermi una birra con il gruppo”. Di solito, funziona: curioso, divergente, atipico, proprio come gli Eels.

lunedì 22 giugno 2015

Jenny Offill

Marito e moglie (lo stato civile definisce anche i nomi dei protagonisti) vivono nel matrimonio la difficoltà di comunicare, con se stessi, e con gli altri. Sono giovani, colti, titubanti, sempre collegati, sempre pensierosi. Il marito è pratico, limitato, evanescente. Sogna il pianoforte, si accontenta di mantenere la famiglia che ben presto si allarga con l'arrivo di una figlia di particolare vivacità. La moglie è una ragazza che convive con con un tantino di problemi irrisolti. E' convinta che “amore è la parola che usano gli uomini per indorare la pillola” ed è tormentata dalla sua costante crisi di identità. Vorrebbe essere un mostro di artista, vorrebbe essere felice, ma come dice uno dei suoi poeti preferiti, Rainer Maria Rilke: “Le opere d'arte sono sempre il frutto dell'essere stati in pericolo, dell'aver vissuto un'esperienza sino a un punto oltre il quale non si poteva andare”. Lei si ritrova a insegnare e a scrivere un libro sui voli spaziali per un eccentrico magnate e nel frattempo è incastrata nel matrimonio, dalla maternità e dagli angusti confini della città. E' sicura soltanto che “un uomo va in giro per il mondo in cerca di posti dove si possa stare immobili e in assoluto silenzio. Pensa che sia impossibile trovare la calma in città perché non si possono sentire gli uccelli cantare. Le nostre orecchie si sono evolute per farci da sistemi di allarme. Dove non ci sono uccelli che cantano, siamo in grande allerta. Vivere in città significa stare sempre sul chi vive”. L'equilibrio è fragile, le parole che non si sommano ai pensieri (e viceversa): la moglie diventa sempre più insofferente, il marito, con una deviazione che pare inevitabile, la tradisce con un'altra “più alta? Più magra? Più tranquilla? Più facile, dice lui”. L'atmosfera è quella plumbea e malinconica delle canzoni dei National, compreso l'esodo dalla città, da quella particolare porzione che è Brooklyn, e nelle coincidenze c'è l'imbarazzo della scelta tra Afraid of Everyone, Terrible Love, Baby, We'll Be Fine e persino Looking for Astronauts. Il suggerimento dell'ipotetica colonna sonora vale anche come omaggio all'arte della citazione sfoggiata da Jenny Offill che dissemina Sembrava una felicità di una lunga teoria di motti, versi, aforismi che mettono la lettrice un passo avanti rispetto alla scrittrice. La sua scelta, per l'occasione, è fatta di un tono essenziale, persino algido a tratti, compresso in schegge taglienti, brevi paragrafi composti da una proposizione (o due), a volte da una sola riga. Quest'attitudine, insieme pop e poetica, si risolve in una scrittura che pur apparendo frammentaria e caleidoscopica nel suo svolgersi ha un'attenzione maniacale alle emozioni dei suoi personaggi, tanto che la moglie, già all'inizio di Sembrava una felicità, quasi intuendo le future orbite esistenziali, dice: “Ricordati di quel cartello, di quell'albero, di quella strada dissestata. Ricordati che ci si può sentire così”. Non si capisce se è l'ennesima epigrafe (a quel punto, e siamo solo nelle prime pagine, sono già apparsi, tra gli altri, Socrate e Nabokov) o se Jenny Offill e va bene così perché il gioco tra lettrice e lettore continua fino alla fine. Originale.

martedì 16 giugno 2015

Phil Klay

L'inoltrarsi della primordiale vocazione per la guerra nella modernità oltre a condurre ad armi più rapide, più strazianti, più incontrollabili, ha prodotto anche maggiori tutele e protocolli più urgenti destinati a salvare le vite dei soldati, o di quello che ne resta. Il paradosso è implicito ed esplicito nei graffianti racconti di Phil Klay ed è che, in realtà, a casa non torna più nessuno. Non ci sono reduci, veterani, o eroi. Solo sopravvissuti. Le “storie di guerra” e le “robe da civile” (per dire quello che succede senza una divisa addosso) sono uno straziante rosario che Phil Klay snocciola con una scrittura schematica, limitata, grezza. Un linguaggio che procede iperrealistico a raffiche di parole, e di acronimi, tutte le sigle di un vocabolario inutile e incomprensibile (tradotte in modo molto opportuno in un apposito glossario) che corrisponde all'anonimato imposto dagli eserciti. Gli episodi sono differenti e rappresentati da brevi fotogrammi, che si inanellano uno nell'altro per piccoli dettagli, agganci e ricordi che sono sempre gli stessi, le esplosioni sulla strada, le sparatorie, l'azione e le ferite, gli amici e le vittime. Le tessere del mosaico si incastrano e raccontano alla perfezione gli effetti delle guerre moderne (in particolare Il denaro come sistema di armamento), anche se di moderno non c'è più nulla e tutto tende a diventare molto primitivo, perché “la percezione è la realtà. In guerra, a volte la cosa più importante non è quello che sta succedendo, ma quello che la gente crede che stia succedendo”. L'errore, più del'orrore: l'Iraq resta un buco nero, un'apoteosi della guerra dove non c'è più distinzione tra militari e civili, carnefici e vittime, alleato e nemico. Fine missione, come l'hanno spiegato la storia e le cronache, non è più sinonimo (se mai lo è stato) di “missione compiuta”, ma soltanto di Un terribile amore per la guerra, proprio come il titolo del saggio in cui James Hillman scriveva: “Se anche queste pagine grondano morte è perché la pagina scritta è il luogo dove la memoria è sottratta al campo di sepoltura e riportata in vita. Poiché i morti sono muti e i reduci ammutoliti”. Fine missione è un libro difficile, duro, doloroso e necessario, con pochi punti di riferimento, nonostante le testimonianze della devastazione delle guerre in Iraq (e in Afghanistan) siano sempre più frequenti e puntuali. Bisogna tornare all'inizio di tutto, al peccato del fallimento originale perché il parente più prossimo per la forma e per il tono di Fine missione, è Nel mosaico del faraone di Tobias Wolff a cui Phil Klay rimanda quando racconta che In Vietnam avevano le puttane, giusto per spiegare che aria tira. Almeno laggiù l'elementare concretezza di una sconfitta conclamata un qualche effetto l'aveva sortito. Una riflessione, una frattura. In Fine missione, Phil Klay è drastico: “Niente storie. Cose. Corpi. Le persone mentono. I ricordi mentono”. Adesso le guerre non finiscono mai, neanche quando si torna a casa tutti interi, salvi (forse), ma non sani, non più umani. 

lunedì 15 giugno 2015

Richard Ford

Con l'età, Frank Bascombe è diventato “un incidente ambulante in attesa di verificarsi” e, alla ben nota, disincantata saggezza, ha aggiunto un tono più pungente. Sarà l'elettricità lasciata nell'aria dall'apocalittico passaggio di Sandy (ed è curioso che l'uragano che ha devastato il New Jersey abbia preso il nome da una delle più tortuose canzoni dell'epopea springsteeniana), ma non qui c'è nulla di crepuscolare e/o consolatorio. Anzi, il clima dopo la tempesta è più conflittuale che mai, anche se l'amplomb di Frank Bascombe, in evidente collaborazione con Richard Ford, fa di tutto per dissimularla perché “ci vuole del genio per rendere interessante la realtà”. Se l'incipit appare una logica conseguenza di Lo stato delle cose, la vista delle rovine dove l'oceano ha ripreso il suo spazio (“Sono qui”) è già un segnale inequivocabile di un passo più lungo perché riporta “l'atmosfera di un disastro senza limiti”, dove il ripristino imposto dagli eventi naturali si sovrappone alla desertificazione artificiale, il landscape trasformato in manscape, senza speranze e con buona pace dei mistici del New England, tanto che Frank Bascombe dice che “è un mistero come ne usciremo prima che l'ultimo metro edificabile sia coperto di cemento e non resti più un posto dove andare, se non lontano di qui e a fondo”. E' chiaro che Frank Bascombe si sente al capolinea con tutte le caratteristiche peculiari del momento e in questo Richard Ford si associa alla lunga sequenza degli “animali morenti” di Philip Roth, solo che c'è una sorta di osmosi con il suo personaggio. Non è proprio un alter ego, anche se Richard Ford e Frank Bascombe hanno moltissimo in comune, più di tutto il fatto la consapevolezza che “il mondo diventa più piccolo e più concentrato quanto più a lungo vi restiamo”. E' proprio l'attitudine a scovare l'invisibile e in questo senso a “essere disponibile per ciò che non è evidente”, e così è sistemato anche chi sostiene che qui non succede mai niente. Anche l'ultimo capitolo della collezione di Frank Bascombe non si smentisce e si snoda attravero una serie di incontri in cui si accorge che “noi abbiamo solo ciò che abbiamo fatto ieri, ciò che facciamo oggi e ciò che potremmo fare ancora. Più quello che pensiamo di tutto ciò. Ma nient'altro: niente di duro o che somigli a un nocciolo. Non ho mai visto la prova che esista qualcosa di diverso. Anzi, ho visto il contrario, una vita altrettanto feconda e imperscrutabile, seguita dalla fine”. La differenza viene a galla a questo punto e Richard Ford sa usare il suo tatto, sapendo che “le parole possono anche essere gli emissari più deboli dei nostri sentimenti” per affrontare l'unica certezza. Lo dice persino con garbo: “La morte. Il dolore. La salvezza. Che sballo, quando ci pensi bene” lascia filtrare attraverso Frank Bascombe, un personaggio per cui è impossibile non provare simpatia, soprattutto perché, per ironia della sorte, nel suo declino diventa a tutti gli effetti Richard Ford. Nella sfumatura finale infatti torna a ricordare il suo tentativo di diventare uno scrittore, all'inizio di tutto, all'epoca di Sportswriter. Richard Ford l'aveva lasciato fallire e adesso Frank Bascombe sembra rimproverarglielo. Un gioco di specchi che si può permettere soltanto un grande scrittore perché siamo circondati soltanto da noi stessi e distinguere i riflessi, spesso gli abbagli, è ciò che separa la letteratura dall'intrattenimento.

martedì 9 giugno 2015

Allan Gurganus

Quando Jerry, che non ha ancora vent'anni dopo la seconda guerra mondiale, scende nei quartieri dall'altra parte della ferrovia di Falls, North Carolina a vendere improbabili polizze sa soltanto quello che gli ha detto il suo principale, Sam: Sam il principale: “Se solo sentono la puzza di un cuore che batte nel tuo petto, hai chiuso”. Beata rassicurazione, il primo dei tre racconti assemblati in Piccoli eroi, potrebbe finire lì, perché Allan Gurganus ha il pregio di conoscere il gergo, lo slang, il linguaggio e la rara abilità di costringerlo a rispondere alle esigenze e ai limiti della scrittura. Affrontando persino con una certa leggerezza, e comunque sempre con disinvolta eleganza anche i punti di domanda più ostici. Il dilemma di Jerry, che si pagherà l'università andando a scovare gli altrui risparmi nascosti nei pertugi più segreti, mantiene la tensione altissima, mentre Beata rassicurazione si avvita come una spirale, togliendo il respiro, anche allo stesso protagonista: “La strada si faceva sempre più stretta e più gialla quando parcheggiai in aperta campagna. Un'allodola stava in equilibrio su una canna di fiume andata in semenza. E all'improvviso ricordai come respirare. La gratitudine. Rimasi in macchina annaspando come un tuffatore che abbia appena ritrovato, per caso, la superficie, la vita”. Dietro la curva c'è l'altro aspetto del lavoro di Jerry perché, a saldo della sua ambivalenza, Allan Gurganus sottolinea come “tutti si aspettano alcune cose certe, una piccola, beata rassicurazione. Ti vuoi sentire coperto”. Verissimo: in Beata rassicurazione, Allan Gurganus scrive qualcosa che va oltre le dimensioni del racconto. E' proprio un piccolo e breve romanzo (sono ottanta pagine in tutto) che da solo reggerebbe il peso di un libro. La storia, con i suoi fragili e complessi risvolti psicologici, è autosufficiente e concreta nel suo rivelarsi Un apologo morale, concentrato, in fondo, sul paradigma che “quando ci sono di mezzo i soldi, siamo tutti primitivi”. Basterebbe quello, in effetti, a dare un senso ai Piccoli eroi. L'empatia per la povertà e la miseria di Beata rassicurazione si trasmette quasi per osmosi al protagonista di Uno di quelli, vittima (come è chiaro fin dal titolo) di un'altra forma di emarginazione, quella sessuale ed esplicitamente omofoba. Uno di quelli è una storia dolente che si muove su una linea altalenante, disseminando molti dubbi sull'humus di ipocrisia e di indifferenza (e di provincialismo) in cui maturano le discriminazioni più subdole e Allan Gurganus sceglie un punto di vista particolare, sciogliendo molti nodi con grazia ed equilibrio. La coda finale del trittico è il racconto dedicato al padre, un reduce ammutolito dalle sue missioni, nell'assidua e infruttuosa ricerca di un dialogo. Eroismo minore (qualcosa su mio padre), è poco più di un frammento che, oltre a sottolineare i risvolti drammatici dell'incomunicabilità, uno dei temi ricorrenti nella narrativa di Allan Gurganus, ha l'onore, non indifferente, di chiudere Piccoli eroi con una dedica a William Maxwell, così come l'aveva cominciato con quella a Grace Paley.

domenica 7 giugno 2015

Theodore Dreiser

Frutto di un'interessante estrapolazione dall'autobiografia di Theodore Dreiser (che merita di essere riletta per intero), Meravigliosa Chicago è composto da tre diversi momenti a cavallo della fine del diciannovesimo secolo. L'assemblaggio ha tutta una sua accuratezza perché asseconda la radicale trasformazione della città e la relativa percezione. Nella fase iniziale, quella di Ho visto nascere la meravigliosa Chicago, Theodore Dreiser è travolto da una “strana illusione di speranze e felicità” che coincide con l'evoluzione urbana. All'inizio Chicago, “una città nuova e grande, totalmente elettrizzante e che traboccava di opportunità”, è una scoperta piena di meraviglie, l'incarnazione stessa di terre promesse e ambizioni e miraggi che l'acerbo Theodore Dreiser si ritrova incantato ad ammirare dalla sua finestra sul nuovo mondo: “Affascinato, restavo per ore a guardare il teatro dall'altra parte della vita, il parco nella strada vicina oppure, sporgendomi da una delle nostre finestre, il panorama dietro la nostra casa. Tutto era così diverso da quanto avessi mai visto o conosciuto in precedenza”. Theodore Dreiser scopre in Chicago “una combinazione di speranza e gioia di vivere, intensa speranza e intensa gioia. Le città, come gli individui, possono essere illuminate dalla grande luce della speranza. Possiedono quel miracolo, quel carattere, che come succede per le persone, è sempre così affascinante da lasciare a bocca aperta”. La consapevolezza che la vita cittadina influenzi e determini quella degli uomini, è maturata attraverso le vicende famigliari prima, tra tutte, la figura tormentata del padre, al punto che Theodore Dreiser già intuisce che “la città della quale ora sto per scrivere, non è mai esistita su terra o mare; se ogni tanto potrà sembrare avere i contorni della realtà, non saranno altro che le ombre proiettate da una gloria che allora era tutta nella mia testa”. Quando verrà il momento del Ritorno a Chicago, la città è già trasformata. Theodore Dreiser è convinto di cantare “un paese nuovo, una vita nuova” mentre la città si è già deformata in una metropoli. Anni dopo, Sherwood Anderson scriverà nei Canti del Mid-America: “Siamo qui, qui fuori a Chicago. Pensi che non siamo umili? Sei un bugiardo. Siamo come la fognatura della nostra città, spazzati a monte della corrente con un certo trionfo meccanico, questo è ciò che siamo”. Theodore Dreiser lo comprende già nell'ultima parte, Lavorando come venditore ambulante a Chicago, dove delinea senza esitazioni il lato oscuro della città: “Credo davvero che il peggio dei bassifondi del mondo fosse lì. Inoltre, la città era stata in origine costruita in modo talmente sommario che le vaste aree occupate da logore case di legno erano già, dopo soli pochi anni, cadute nella più completa rovina”. La conclusione di Meravigliosa Chicago, per quanto moraleggiante, è l'amara constatazione che “la vita è un gioco di chi mangia per primo e, quando non vi sia una forza che le si opponga dall'interno, appare guidata da un proposito di rendere il mondo una specie di giungla”. La metafora tropicale non è un caso: sarebbe poi diventata il titolo del grande romanzo di Upton Sinclair, testimonianza ineludibile di una Chicago che ormai non era più così meravigliosa.

mercoledì 3 giugno 2015

Edward Abbey

Un tuffo nella wilderness diviso tra il rigore scientifico e una passione straripante, quasi mistica nel suo esprimersi: quando Edward Abbey accetta di lavorare nel deserto dello Utah in qualità di ranger è spinto, più che dall'impiego in sé, dalla vocazione per la vita all'aria aperta, per il gusto della scoperta, e per l'essenza “vera, tangibile, dogmaticamente reale” della natura. La carica e lo stipendio sono quello sono, ma “gli extra non hanno prezzo: aria pulita (una volta passate le tempeste di sabbia primaverili); tranquillità, solitudine e spazio; una vista che ogni giorno e ogni notte può allargarsi senza ostacoli su sole, cielo, stelle, nuvole, montagne, luna, pareti rocciose e canyon; una percezione del tempo che permette ai pensieri e alle sensazioni di vagare da qui alla fine del mondo e ritorno; la scoperta di qualcosa di intimo, sebbene indefinibile, nel remoto”. Il rapporto con l'ambiente è per Edward Abbey motivo di un confronto continuo, assiduo con se stesso e con il deserto che offre prospettive inedite, per niente aride o desolate, come i luoghi comuni vorrebbero ed è molto scrupoloso quando spiega che “nel registrare le mie impressioni sull'ambiente naturale ho avuto come ambizione principale l'accuratezza, poiché credo che ci sia una specie di poesia, se non di verità, nella realtà in sé”. I primi poeti che chiama a raccolta, Robert Frost, H. D. Thoreau, Walt Whitman, sono già segnali nitidi, a indicare l'orizzonte ideale a cui tende Edward Abbey: “Ho provato a creare un mondo di parole in cui il deserto è più un mezzo che il contenuto. Ho avuto come obiettivo l'evocazione, non l'imitazione”. Anche se la sua percezione politica ha ormai qualcosa di profetico, contando che Desert Solitaire risale al 1968, le parti, i passaggi in cui si immerge nella natura e in particolare nel deserto sono uniche. Un esempio, su tutte le descrizioni di flora, fauna, paesaggi e meteorologia è il racconto dell'avvoltoio o la storia di Occhio di Luna, il cavallo “indipendente” che sembra ricordare chi in fondo ai canyon è arrivato prima di Cormac McCarthy. L'ottica è comunque quella: la magia del confronto tra uomo e wilderness, quando ognuno se ne sta al proprio posto, perché “là fuori esiste un mondo diverso, molto più antico e profondo del nostro, un mondo che abbraccia e sostiene quello limitato degli uomini come il mare e il cielo abbracciano e sostengono su una nave. Lo shock del reale. Per un attimo torniamo bambini, riusciamo a vedere di nuovo un mondo di meraviglie”. Le parti polemiche sono le più deboli, e non tanto per la caratteristica in sé, visto che Edward Abbey ha ragioni da vendere (eccome), quanto per il tono delle generalizzazioni che contrasta con quello più arguto dei dettagli, sempre inciso parola per parola, quasi a ricordare che “a modo suo ogni cosa è bella quando è fedele a se stessa”. Dopo tutti questi anni, Desert Solitaire è un monito ancora più attuale ed Edward Abbey una voce sincera, accorata, convincente nel dire che “si può amare e difendere la natura anche senza avere mai lasciato confini di asfalto, linee elettriche e superfici ad angolo retto. Abbiamo bisogno della natura, che ci abbiamo messo piede oppure no. Abbiamo bisogno di un rifugio, anche se potremmo non andarci mai”. Una lettura doverosa.