L'inoltrarsi
della primordiale vocazione per la guerra nella modernità oltre a
condurre ad armi più rapide, più strazianti, più incontrollabili,
ha prodotto anche maggiori tutele e protocolli più urgenti destinati
a salvare le vite dei soldati, o di quello che ne resta. Il paradosso
è implicito ed esplicito nei graffianti racconti di Phil Klay ed è
che, in realtà, a casa non torna più nessuno. Non ci sono reduci,
veterani, o eroi. Solo sopravvissuti. Le “storie di guerra” e le
“robe da civile” (per dire quello che succede senza una divisa
addosso) sono uno straziante rosario che Phil Klay snocciola con una
scrittura
schematica, limitata, grezza. Un linguaggio che procede
iperrealistico a raffiche di parole, e di acronimi, tutte le sigle di
un vocabolario inutile e incomprensibile (tradotte in modo molto
opportuno in un apposito glossario) che corrisponde all'anonimato
imposto dagli eserciti. Gli episodi sono differenti e rappresentati
da brevi fotogrammi, che si inanellano uno nell'altro per piccoli
dettagli, agganci e ricordi che sono sempre gli stessi, le esplosioni
sulla strada, le sparatorie, l'azione e le ferite, gli amici e le
vittime. Le tessere del mosaico si incastrano e raccontano alla
perfezione gli effetti delle guerre moderne (in particolare Il
denaro come sistema di armamento),
anche se di moderno non c'è più nulla e tutto tende a diventare
molto primitivo, perché “la percezione è la realtà. In guerra,
a volte la cosa più importante non è quello che sta succedendo, ma
quello che la gente crede che stia succedendo”. L'errore, più
del'orrore: l'Iraq resta un buco nero, un'apoteosi della guerra dove
non c'è più distinzione tra militari e civili, carnefici e vittime,
alleato e nemico. Fine
missione,
come l'hanno spiegato la storia e le cronache, non è più sinonimo
(se mai lo è stato) di “missione compiuta”, ma soltanto di Un
terribile amore per la guerra,
proprio come il titolo del saggio in cui James
Hillman scriveva: “Se anche queste pagine grondano morte è perché
la pagina scritta è il luogo dove la memoria è sottratta al campo
di sepoltura e riportata in vita. Poiché i morti sono muti e i
reduci ammutoliti”. Fine
missione
è un libro difficile, duro, doloroso e necessario, con pochi punti
di riferimento, nonostante le testimonianze della devastazione delle
guerre in Iraq (e in Afghanistan) siano sempre più frequenti e
puntuali. Bisogna tornare all'inizio di tutto, al peccato del
fallimento originale perché il
parente più prossimo per la forma e per il tono di Fine
missione,
è Nel
mosaico del faraone
di Tobias Wolff a cui Phil Klay rimanda quando racconta che In
Vietnam avevano le puttane,
giusto per spiegare che aria tira. Almeno laggiù l'elementare
concretezza di una sconfitta conclamata un qualche effetto l'aveva
sortito. Una riflessione, una frattura. In Fine
missione,
Phil Klay è drastico: “Niente storie. Cose. Corpi. Le persone
mentono. I ricordi mentono”. Adesso le guerre non finiscono mai,
neanche quando si torna a casa tutti interi, salvi (forse), ma non
sani, non più umani.
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