Un
tuffo nella wilderness diviso tra il rigore scientifico e una
passione straripante, quasi mistica nel suo esprimersi: quando Edward
Abbey accetta di lavorare nel deserto dello Utah in qualità di
ranger è spinto, più che dall'impiego in sé, dalla vocazione per
la vita all'aria aperta, per il gusto della scoperta, e per l'essenza
“vera, tangibile, dogmaticamente reale” della natura. La carica e
lo stipendio sono quello sono, ma “gli extra non hanno prezzo: aria
pulita (una volta passate le tempeste di sabbia primaverili);
tranquillità, solitudine e spazio; una vista che ogni giorno e ogni
notte può allargarsi senza ostacoli su sole, cielo, stelle, nuvole,
montagne, luna, pareti rocciose e canyon; una percezione del tempo
che permette ai pensieri e alle sensazioni di vagare da qui alla fine
del mondo e ritorno; la scoperta di qualcosa di intimo, sebbene
indefinibile, nel remoto”. Il rapporto con l'ambiente è per Edward
Abbey motivo di un confronto continuo, assiduo con se stesso e con il
deserto che offre prospettive inedite, per niente aride o desolate,
come i luoghi comuni vorrebbero ed è molto scrupoloso quando spiega
che “nel registrare le mie impressioni sull'ambiente naturale ho
avuto come ambizione principale l'accuratezza, poiché credo che ci
sia una specie di poesia, se non di verità, nella realtà in sé”.
I primi poeti che chiama a raccolta, Robert Frost, H. D. Thoreau,
Walt Whitman, sono già segnali nitidi, a indicare l'orizzonte
ideale a cui tende Edward Abbey: “Ho provato a creare un mondo di
parole in cui il deserto è più un mezzo che il contenuto. Ho avuto
come obiettivo l'evocazione, non l'imitazione”. Anche se la sua
percezione politica ha ormai qualcosa di profetico, contando che
Desert Solitaire risale al 1968, le parti, i passaggi in cui
si immerge nella natura e in particolare nel deserto sono uniche. Un
esempio, su tutte le descrizioni di flora, fauna, paesaggi e
meteorologia è il racconto dell'avvoltoio o la storia di Occhio di
Luna, il cavallo “indipendente” che sembra ricordare chi in
fondo ai canyon è arrivato prima di Cormac McCarthy. L'ottica è
comunque quella: la magia del confronto tra uomo e wilderness, quando
ognuno se ne sta al proprio posto, perché “là fuori esiste
un mondo diverso, molto più antico e profondo del nostro, un mondo
che abbraccia e sostiene quello limitato degli uomini come il mare e
il cielo abbracciano e sostengono su una nave. Lo shock del reale.
Per un attimo torniamo bambini, riusciamo a vedere di nuovo un mondo
di meraviglie”. Le parti polemiche sono le più deboli, e non tanto
per la caratteristica in sé, visto che Edward Abbey ha ragioni da
vendere (eccome), quanto per il tono delle generalizzazioni che
contrasta con quello più arguto dei dettagli, sempre inciso parola
per parola, quasi a ricordare che “a modo suo ogni cosa è bella
quando è fedele a se stessa”. Dopo tutti questi anni, Desert
Solitaire è un monito ancora più attuale ed Edward Abbey una
voce sincera, accorata, convincente nel dire che “si può amare e
difendere la natura anche senza avere mai lasciato confini di
asfalto, linee elettriche e superfici ad angolo retto. Abbiamo
bisogno della natura, che ci abbiamo messo piede oppure no. Abbiamo
bisogno di un rifugio, anche se potremmo non andarci mai”. Una
lettura doverosa.
E' un piacere leggere la tua recensione, e sapere anche che è stato rieditato, io lo lessi anni fa nell'edizione di Franco Muzzio, e mi è venuta voglia di rileggerlo...
RispondiEliminainvece ho scoperto tramite tue precedenti recensioni Kent Haruf, e capito qualcosa di più di L'angelo Esmeralda, libro che mi ha lasciata completamente perplessa e di cui mi è rimasto pochissimo..a buon leggerti!
Grazie Maria, come sempre.
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