martedì 23 agosto 2016

Bret Harte

Le Storie del West rappresentano una fetta di di “una civiltà che nel diciassettesimo secolo sarebbe stata chiamata eroica, e già nel diciannovesimo era diventata semplicemente spericolata”. La definizione è caratteristica dello stile irriverente di Bret Harte che conosce a fondo ed è molto abile nel destreggiarsi nella terra di nessuno tra la leggenda e la realtà. Nelle Storie del West non manca di evidenziare storture o deviazioni o persino luoghi comuni come i duellanti pronti a “spararsi a vista”, ma tocca e collega tra loro molti elementi conflittuali: lo sfruttamento del territorio (e degli esseri umani), la dissoluzione di intere fortune nell’oppio, nel gioco d’azzardo, nella prostituzione, e infine il rapporto incompiuto con la wilderness e con l’imprevedibilità degli elementi (le alluvioni, le eruzioni, i terremoti) che sottolineano i passaggi e le svolte più importanti dei racconti. Non di meno, le Storie del West partono e si concludono attorno ai personaggi e ai loro nomi. La strana anagrafe, dovuta al fatto che “il vero nome di un uomo, a quei tempi, si basava solamente sulla propria dichiarazione non confermata”, fornisce già una catena di suggestioni che definisce La fortuna di Roaring Camp. In un’enclave nell’impervio West, con una popolazione tutta maschile, non educatissima, l’unica donna muore partorendo un bimbo che diventa così l’oggetto di attenzioni goffe e generose. Il racconto procede spedito, Bret Harte ha il senso dell’ironia, data la situazione, ma mantiene la barra in perfetto equilibrio in una cornice originale e complessa che ha per protagonisti proprio quegli “uomini si erano improvvisamente risvegliati alla bellezza e all’importanza di queste piccole cose, che avevano così a lungo calpestato senza cura. Una scaglia di mica luccicante, un frammento di quarzo screziato, un ciottolo brillante presi dal letto del ruscello, e quindi ripuliti e tonificati, si dimostravano ora belli ai loro occhi e venivano così invariabilmente messi da parte”. Il carattere circoscritto di Roaring Camp (con un finale tutto da scoprire) così come, più avanti, della cittadina di Sandy Bar svela quel senso di ambiguità che attraversa le frontiere del West perché “in certe comunità, le azioni buone e cattive sono contagiose”. Ecco allora apparire ai viandanti, dentro gli ostacoli insuperabili dell’oscurità e della pioggia battente, la figura di Miggles, che vive con gli orsi, ma la cui nobile ospitalità riscatta un passato turbolento. Contrasti ancora più evidenti in L’Iliade di Sandy Bar, una faida epocale, in parte ispirata alla vera diatriba tra con Mark Twain, che di Bret Harte diceva: “E’ un bugiardo, ladro, truffatore, snob, ubriacone, scroccone, bugiardo”. I racconti hanno una loro leggerezza e L’Iliade di Sandy Bar è rappresentativa perché Bret Harte non lesina particolari nella contesa tra le figure di York e Scott. Come dice il colonnello Starbottle era “una faccenda che dei gentiluomini avrebbero potuto risolvere in dieci minuti davanti a un bicchiere, se volevano parlare d’affari; o in dieci secondi con un revolver, se volevano divertirsi”. Le Storie del West sono fatte proprio così, compresa La leggenda del monte del Diablo, che incrocia missioni spirituali e i incontri mefistofelici o i Giorni di bohéme a San Francisco, dove la corsa all’oro e la trasformazione di una città vengono raccontate con un formato “conciso e stringato, e al contempo evocativo”, ma anche “deliziosamente stravagante o un miracolo di semplicità” proprio come Bret Harte ha voluto queste Storie del West.

domenica 21 agosto 2016

Allen Ginsberg

I Primi blues nascono con l’intenzione di interpretare e trasformare le “canzoni dell’innocenza” di William Blake: un desiderio che Allen Ginsberg matura raccogliendo la sfida della lingua “spontanea” di Jack Kerouac, dell’irruenza di Gregory Corso e delle “catene di immagini lampeggianti” di Dylan, più di tutti. Il processo è più empirico che poetico e nei Primi blues confluiscono quei rag, quei mantra e quelle ballate dove le parole, non meno della musica, nascono sull’onda dell’improvvisazione, un po’ flusso di coscienza, un po’ cronaca impressionistica di quella che, in contemporanea, Allen Ginsberg chiamerà La caduta dell’America. Prima di essere raccolti in un libro, i Primi blues vengono assemblati nel corso di alcune session prodotte da Jack Douglas a New York nell’autunno 1971, con Allen Ginsberg coadiuvato da un variopinto gruppo di “amici”. L’intento è dichiarato: “La musica porta a emettere vocali senza senso, che si potrebbero correggere ma, per rimanere fedele allo spirito di questa arte, ho preferito lasciare la maggior parte degli abbozzi e delle improvvisazioni nella loro dicitura originale, il che è utile a me e agli altri per vedere come canta effettivamente la mente inesperta”. Se William Blake è la fonte principale a cui attingere, il modello di riferimento, il capostipite dei sognatori e dei visionari, le altre sfumature sono garantite da un’ampia gamma, colorita e cosmopolita, di voci, dai bardi irlandesi e scozzesi ai bluesman americani. Anche se i Primi blues sono dedicati a Dylan, in virtù di un’attrazione a tutto tondo, l’ispirazione è frutto della libertà d’espressione, condivisa con Phil Ochs, Happy Traum, Harry Smith, David Amram che potrebbero essere radunati in Mc Dougal Street Blues, a celebrare una delle strade fondamentali e uno dei luoghi dove Allen Ginsberg può dire: “le chitarre suonano tutto intorno. So fare solo tre accordi, posso cantare la mia vita sotterranea”. E’ quella che coincide con il tormento di quegli anni: i Primi blues arrivano quando la lunghissima stagione della Beat Generation sta vivendo un intenso e movimentato crepuscolo. L’elegia, a modo suo, è esplicita nei confronti di Neal Cassady e Jack Kerouac, ed è quasi un epitaffio nei versi conclusivi di Molti amori: “Molti amori sono sottoterra, molti amori non fanno più rumore, molti amori sono andati in cielo, molti amori hanno detto addio”. Allen Ginsberg riporta con naturalezza la poesia dentro l’alveo primordiale della musica e senza timori nel maneggiare il linguaggio, le parole, la storia stessa e per un’ironica legge del contrappasso di quell’America che ormai ha un sapore “metallico”e in un “oceano azzurro” che dovrebbe rappresentare il paradiso, “passano i nostri bombardieri”. Sono i momenti lancinanti in cui la guerra del Vietnam sembra non finire più e se Allen Ginsberg ancora non si sottrae all’esortazione (“Abbiamo bisogno di inginocchiarci e di seminare con la mano la terra su cui stiamo, la terra che abbiamo bombardato”), d’altro canto si chiede “cosa fa il pubblico se non bere birra in lattina”. Domanda retorica, perché recepiva l’onda lunga della disillusione, della sconfitta, della malinconia che avrebbe inondato e pervaso l’America, e non solo. E’ evidente che da William Blake, Allen Ginsberg ha tratto il carattere profetico delle “canzoni”, e l’annunciazione alla gioventù cosmopolita di New York, datata 20 dicembre 1971, finisce con un presagio perché dice: “Questo secolo finirà in zolfo o con le vostre tenere lacrime”. Non si sbagliava.

mercoledì 17 agosto 2016

Raymond Carver

Raymond Carver è il suo mondo e allora cosa si può trovare nelle fotografie di Bob Adelman che non c’è nelle sue storie? Da Yakima a Port Angeles, Carver Country è tutto un paesaggio d’acqua: i fiumi, le dighe, i ruscelli, i laghi sono una presenza costante, insistente tanto che nella corrispondenza con Bob Adelman, Raymond Carver scrive: “Sarei in grado di mettere una didascalia o di scrivere qualche riga su ogni punto di quel fiume che tu volessi fotografare”. In realtà le indicazioni di Raymond Carver a Bob Adelman sono tutt’altro che precise, visto che deve frugare nella memoria in cerca di luoghi e tormenti che si è lasciato alle spalle e la sua immagine da bambino con canna e lenza, all'inizio di Carver Country riporta a quello che diceva Thomas McGuane: “La pesca è una situazione in cui le valenze emotive sono immediatamente dipendenti dal loro contesto”. Con tanta di quell’acqua a due passi da casa (e qui parafrasando un titolo da Di cosa parliamo quando parliamo d’amore) la vicinanza non ha nulla di mistico, metafisico o ecologico, ma deriva da un legame intimo e delicato, a cui in effetti risponde Carver Country perché per Raymond Carver vale ancora la precisazione di Thomas McGuane: “La pesca mi ha innanzitutto insegnato a osservare i fiumi. Ora mi sta insegnando a osservare le persone, me compreso”. L’acqua è l’elemento determinante degli anni felici di Raymond Carver e Carver Country riesce a raccontare un crepuscolo intenso e fortunato, che forse soltanto le immagini potevano mostrare. Un mondo semplificato e concentrato su pochi amici sorridenti (Richard Ford, Ann Beattie e Jay McInerney tra gli altri), una gamma selezionatissima di interessi, l’essenza della scrittura che, tra “un po’ di autobiografia e un sacco di immaginazione”, trova e mostra in Carver Country quei “punti di riferimento nel mondo reale” che Bob Adelman identifica in una cassetta della posta, nelle mani nere di uno spazzacamino, nell’impronta dentale di Tess Gallagher, in un’insegna, in un dipinto di Alfredo Arreguin, nella sua macchina da scrivere (da tutte le prospettive), in uno o due taccuini, nella neve, nella musica creata dai torrenti, nei volti. La luce, il bianco e nero, le geometri nitide dimostrano che Bob Adelman ha capito quello che Raymond Carver diceva in Il mestiere di scrivere: “In una poesia o in un racconto si possono descrivere cose e oggetti comuni usando un linguaggio comune ma preciso e dotare questi oggetti, una sedia, le tendine di una finestra, la forchetta, un sasso, un orecchino, di un potere immenso, addirittura sbalorditivo”. E’ per quello che, anche se Carver Country funziona come una spicciola antologia con frammenti editi e inediti, la sensazione, fotografia dopo fotografia è, come diceva Tobias Wolff in La nostra storia comincia, quella di sentire “il rumore di qualcuno che si muove per la casa, un estraneo”. Bob Adelman si è introdotto proprio così nel Carver Country, con la discrezione di un’ombra al tramonto, con lo scrupolo di un topografo e con la percezione precisa e insieme sfuggente del dettaglio di un songwriter, concentrando sulla pellicola quella definizione dei racconti di Raymond Carver che, secondo Marylinne Robinson, “creano significato per tramite della forma”. L’intensità dello sguardo di Raymond Carver, dietro la sigaretta, dice tutto. Il viaggio è negli occhi, lo è sempre stato. 

sabato 13 agosto 2016

Henry Miller

Big Sur e le arance di Hieronymus Bosch è introdotto dalla pittura, un’arte sensibile, istintiva e complicata perché “la cosa più esasperante è l’impossibilità di catturare la luce che permea il mondo della natura. La luce è l’unica cosa che non possiamo rubare, imitare, o anche contraffare”. A capirlo, Henry Miller ci arriva proprio a Big Sur dove, dopo anni selvaggi e turbolenti, trova una routine beata e battuta, semplice e dura, una rete di anime che lo sostiene ed è meno distratto dalle evenienze cittadine, con la consapevolezza, già allora, che non si può vivere dentro “un sistema difettoso”, e non lo si può cambiare. Se Parigi era caotica e imprevedibile, Big Sur è un’alternativa più naturale: “Ha un suo clima e una personalità tutta sua. E’ una regione dove gli estremi si toccano dove si ha sempre un senso di stagione, di spazio, di grandiosità, di eloquente silenzio”. Il piccolo ossimoro svela il genius loci di Big Sur che nei consigli di Henry Miller diventa la casa ideale quando sostiene che tutto quello “che occorre all’artista nascente è il privilegio di affrontare i suoi problemi in solitudine: e ogni tanto un sostanzioso pezzo di carne”. La parte più sostanziosa Big Sur e le arance di Hieronymus Bosch è chiamata dallo stesso Henry Miller un “potpourri” e comprende parti del diario e delle impressioni sulla vita quotidiana a Big Sur, dove “se non sempre si parte dalla natura certo vi si arriva nell’ora del bisogno”. E’ anche un po’ un’antologia, un po’ autobiografia e un po’ vademecum per quell’aspirante artista che “deve impegnare una perpetua lotta per la sua libertà. Trovare, cioè, scampo all’insensata routine che quotidianamente minaccia di annientare ogni incentivo”. Consiglio da prendere alla lettera, anche senza particolari velleità intellettuali. Big Sur e le arance di Hieronymus Bosch è, infine, l’omaggio agli esploratori che si sono spinti “a ovest, terra nuova, nuove figure di terra. Sognatori, fuorilegge, precursori. Che avanzano verso l’altro mondo, lontano nello spazio e nel tempo, il mondo di ieri e di domani. Il mondo nel mondo”. Questo si capisce perché per Henry Miller Big Sur non è il buen retiro anche se la sua collocazione topografica lascia intravedere la forma di un capolinea all’estremità dell’America o il terminale di un’epopea perché l’attività è febbrile. I tormenti della corrispondenza, delle visite quotidiane e delle conversazioni si sommano all’osservazione sempre attenta a ribadire che “un piccolo errore è lo stesso che un grande errore. Al di qua del paradiso e al di là del paradiso. Una cosa vale l’altra. Vigile e disteso; vuoto e perfettamente sveglio. Al passo, ma non in divisa. Con la pistola sempre a portata di mano, ma caricata a salve. Un occhio meteorologico attento alle erbacce, i cardi, le lappole, le ortiche e i rovi”. A Big Sur anche la filosofia è frugale, e basta poco, perché “la vita è essere, il che comprende fare e non fare. L’arte è fare. Essere un poeta della vita, benché di rado gli artisti se ne rendano conto, è il summum. Espirare più di quanto si ispira. Fare tre miglia a piedi quando ti si chiede di farne due”. Si pensa molto in cerca di risposte a quella che Henry Miller definisce “la propria fame abissale di sconfinata esperienza”. Nella percezione dell’arte (e della pittura, nello specifico) e della natura, la ricchezza e la confusione nei temi e negli argomenti regna sovrana, ma la lucidità non viene mai a mancare. L’imperativo è sempre “scrivere, scrivere, scrivere” e il luogo in sé (nonostante l’isolamento, o forse proprio per quello) è uno stimolo continuo dato che “ogni creatura, ogni oggetto, ogni luogo ha il proprio ambiente. Il nostro stesso mondo possiede un ambiente che è unico. Ma mondi, oggetti, creature, luoghi, tutti hanno questo in comune: sono sempre in uno stato di trasmutazione. La gioia suprema del sogno giace in questo potere trasformativo”. Con quello, lo stile è sempre fluido, brillante, all’altezza della situazione, sia che debba spiegare i limiti logistici di Big Sur sia che s’imbarchi in voli pindarici sull’essenza stessa dell’arte e dell’esistenza, del colore dell’oceano all’alba o delle colline al tramonto. Con Big Sur e le arance di Hieronymus Bosch vive in simbiosi Paradiso perduto, che però è un capitolo a parte, essendo dedicato a un protagonista delle avventure parigine (Conrad Moricand), e nell’epilogo si dilunga a spiegare che “chiunque usa creativamente lo spirito che è in lui è un artista. Fare un’arte della stessa vita, ecco il traguardo”. Big Sur e le arance di Hieronymus Bosch è “un’iniziazione a un nuovo modo di vita”, e l’invito (che per un po’ è stato anche un ottimo sottotitolo) resta sempre valido.

martedì 9 agosto 2016

Charles Willeford

Mentre il sergente della omicidi di Miami, Hoke Moseley cerca di sfuggire al lavoro che l’ha consumato, Troy Louden è un delinquente che non riesce a evitare la follia deviante e violentissima che lo anima. Il suo ritratto autobiografico nelle prime pagine di Tiro mancino è perentorio: “Sono un criminale professionista, quello che gli strizzacervelli chiamano uno psicopatico con tendenze criminali. Vorrebbe dire che sono in grado di distinguere tra il bene e il male, ma che non me ne frega un beato cazzo. Questa è la versione ufficiale. Quasi tutti quelli che stanno in galera sono psicopatici proprio come me, e certe volte, quando non ce ne frega il suddetto beato cazzo, ci comportiamo in base all’impulso. Di solito, però, non sono un tipo impulsivo, perché prima di mettermi a fare un lavoro ci penso e ci ripenso con estrema attenzione”. Ciò non toglie che ci sia una folle lucidità in quello che fa, scegliendosi compagni di sventura improbabili, ma pur sempre sacrificabili. Appena uscito di prigione, progetta una rapina in un supermercato con un trio di complici che sembrano un’armata Brancaleone. La rapina finisce in un bagno di sangue, poi Troy Louden cercherà di fuggire fino a quando, inevitabilmente, troverà sulla sua strada l'eroe di Charles Willeford. Provato da anni sulla strada, Hoke Moseley in teoria avrebbe anche mollato il suo vecchio lavoro (per dedicarsi ad una modestissima attività alberghiera, ma soprattutto per salvarsi la vita), ma un’articolata serie di coincidenze lo porta proprio nel centro del gorgo oscuro della mente di Troy Louden. Tiro mancino diventa così, all’improvviso, un romanzo sorprendente perché per tre quarti si destreggia in una sorta di amara commedia esistenziale, con Hoke Moseley a confrontarsi con un inedito tran tran famigliare, per poi confluire in un finale, la rapina e tutto ciò che ne consegue, dove la violenza esplode brutale, a bruciapelo, senza preavviso. Charles Willeford non deve aggiungere molto di più, con due personaggi così: gli basta lasciarli liberi e sono capaci di trovarsi da soli la loro storia. Troy Louden, in tutta la sua devastante subcultura criminale, resta il vero, incontrastato, feroce protagonista di Tiro mancino. Un vero e proprio principe delle tenebre, che non distingue i confini morali delle proprie azioni: “La differenza tra il bene e il male la so distinguere, ma non mi fa né caldo né freddo. Se vedo la cosa giusta e mi va di farla, la faccio; se invece vedo quella sbagliata, e mi va di farla lo stesso, faccio anche quella”. Hoke Moseley, in quest’occasione più che in altre, viene un passo dopo. E funziona (benissimo) per contrasto. In Tiro mancino è un personaggio più disincantato, quasi dolente, come se dall’alto della sua esperienza e della sua faticosissima lotta per la sopravvivenza, abbia semplicemente accompagnato gli altri personaggi verso il loro tragico destino. E’ proprio questo suo ruolo, marginale al cuore nero della storia, ma per niente secondario, a rendere speciale Tiro mancino, come se Hoke Moseley fosse una specie di Virgilio che accompagna Troy Louden e i suoi accoliti nella loro discesa agli inferi.

venerdì 5 agosto 2016

Marlon James

In una notte del dicembre 1976 Bob Marley, la moglie, il manager, i Wailers vengono assaliti e feriti a colpi di armi automatiche. L’attentato matura nelle circostanze tragiche e conflittuali dove la strategia della tensione e degli interessi e delle perversioni della guerra fredda hanno trasformato la Giamaica in un campo di battaglia. Dall’antefatto storico, Marlon James dipana la Breve storia di sette omicidi seguendo le voci del ghetto secondo le quali nella selva giustizia e vendetta collimano e tutti i sette attentatori sono spariti nel nulla. L’idea ha senso e non solo per Bob Marley e la Giamaica perché, come ha giustamente notato Irvine Welsh, il ritornello insistente che attraversa la Breve storia di sette omicidi parla del potere e di conseguenza della corruzione, della falsità, della sua innata e irrinunciabile vocazione alla violenza. Forse quello di Marlon James è l’unico modo per raccontarlo perché fa sprofondare il lettore nella Breve storia di sette omicidi, senza spiegazioni, senza indicazioni, senza metafore, senza traduzioni. La struttura che ha sviluppato è allettante: il sovrapporsi di differenti modulazioni, con l’incedere della lingua compressa tra il gergo, lo slang, il patois, l’inglese, lo spagnolo, il dialetto, un po’ di tutto, ma anche le diverse intonazioni dei personaggi, compresa una variegata selezione di versi di Bob Marley infilati tra le pieghe del discorso, è molto efficace nel ricreare un’atmosfera di incertezza e di insensata ferocia. Il ritmo è vorticoso e martellante, ma l’aderenza linguistica non spiega, è dura, ostica, proprio come la disperazione nelle notti della Giamaica. La capacità di Marlon James di cogliere la dimensione della Breve storia di sette omicidi non è in discussione, solo che spesso la narrazione si arrotola su se stessa e se non c’è alcun dubbio che sappia districarsi nei meandri degli idiomi e dei fatti caraibici, non c’è nemmeno su una congrua quota di narcisismo. Questo incide in modo particolare nella fase finale ambientata a New York: dovrebbe concludere e circoscrivere, e invece è fine a se stessa, molto lontana (e non solo dal punto di vista geografico) dal resto del romanzo. Torbido e convulso, Breve storia di sette omicidi si porta dietro un bel po’ di confusione, che è anche parte integrante del gioco di Marlon James, con le voci dei personaggi che s’incastrano una nell’altra e la narrazione, già abbastanza contorta, che si fa cacofonica. Inevitabile che qualche dettaglio non si incastri. Su tutti, uno dei personaggi principali nelle prime battute di Breve storia di sette omicidi, Papa-Lo, sostiene che è appena arrivato un carico di Glock e M9. Nel 1976 le Glock non esistevano e M9 è la designazione data nel 1980 dall’esercito americano alla pistola (italiana) Beretta 92 FS. La questione non è perniciosa. Potrebbe essere un anacronismo, piuttosto delicato da interpretare visto che Breve storia di sette omicidi è imperniato su una sparatoria in particolare e su più scontri con armi da fuoco in generale. Potrebbe essere un lapsus o un improbabile déja vu, dato che la Breve storia di sette omicidi si conclude nel 1991 quando quelle armi, sì, godevano di una certa popolarità. Il dettaglio resta in sospeso, l’ambiguità rimane. Estremo, eccessivo, a tratti ridondante, per Breve storia di sette omicidi la sintesi migliore è quella del proverbio giamaicano citato in epigrafe: “Se non è andata così, ci è andata vicino”. Né più, né meno.

martedì 2 agosto 2016

James Ellroy

L’America all’alba di Pearl Harbour, l’America di oggi, trovate le differenze. Adesso come allora, “gli appetiti sono nell’aria” e l’ambivalenza della guerra, che “dà agli uomini qualcosa da fare, in modo puro e semplice”, si manifesta a più livelli: consolida lo status quo (“Non è il momento adatto per la sovversione”), celebra le nuove opportunità, e sfodera una prospettiva non del tutto inedita, ma sempre efficace visto che “la gente sembrava condividere un nuovo senso di lealtà. Tutto era nuovo. Molti sembravano la personificazione della sorpresa. Alcuni la personificazione della rivelazione”. E’ così che nel dicembre 1941 l’illusione del melting pot viene marchiata a fuoco dall’inizio delle ostilità nel Pacifico. L’isteria razziale e razzista parte dai giapponesi e coinvolge tutti: cinesi (soprattutto), tedeschi, russi nell’immediato futuro, italiani, messicani, americani. E’ un nervo malato che James Ellroy lascia scoperto con somma disinvoltura ed è l’energia crudele che governa l’atmosfera di quella Los Angeles che “andava avanti a insonnia, sigarette e liquori”. Al parziale elenco di vizi e disturbi (pubblici e privati, nessuna distinzione) vanno aggiunti additivi chimici e naturali, aborti clandestini e morali cattoliche, rastrellamenti e confische, tangenti e protezioni, intrighi e quinte colonne e, last but not least, una lunga teoria di omicidi. Le “confluenze”, come le chiama James Ellroy portano sempre verso “lo stato di polizia” del dipartimento di Los Angeles, dove William Parker e Dudley Smith sono i due poli uguali e opposti di un magnete ubriaco che attira legioni ed emana ambiguità. Sono tutti “complici nella calunnia del sangue”, sospesi tra l’autodistruzione e la sopravvivenza e nessuno è portato alle confessioni. A Hollywood, dove chiunque finge di essere qualcos’altro e l’imperativo è trasformare tutto in un film, la verità resta una chimera. Ben presto, in Perfidia le connessioni storiche e i riferimenti geopolitici, per quanto espliciti e coerenti, hanno un peso relativo nelle singole parabole e nella storia nel suo complesso, dato che “i collegamenti circostanziali e le paranoie” vanno a sovrapporsi. James Ellroy è spietato con i suoi personaggi che, a quanto pare, ricambiano e sono puntualissimi a farsi trovare sulla soglia, in fallo, in pericolo, sull’orlo del baratro e (anche) più in là. Gli uomini quanto le donne (e spesso più le donne degli uomini) sono incontrollabili, vagano impazziti inseguendo ambizioni, pulsioni, deduzioni, visioni e intuizioni. Nonostante gli sforzi, il loro destino è segnato visto che “la merda ha tendenza a schizzare in giro, soprattutto quando si mescolano i soldi e l’ideologia”, ed è proprio quello che succede dall’inizio alla fine di Perfidia. James Ellroy è micidiale a spiegare come “come parole e pensieri avvelenano lo spirito umano con un intento criminale sistematico” e il finale pirotecnico è anche cupissimo perché poi la guerra comincia davvero, gli uomini se ne vanno e il flusso inalterato del racconto fissa soltanto “quel breve caos che si porta via vite inutili e lascia i sognatori spietati liberi di ricominciare da capo”. Qui, più che mai, il meccanismo delle reiterazioni di James Ellroy segue una sequenza matematica, è esponenziale e ipnotico e ossessionato dal ritmo, e il ritmo è randagio e swing con Paul Robeson, Gene Krupa, Count Basie, Jimmie Lunceford, George Gershwin e Glenn Miller (a cui deve il titolo). “Il tempo è un juke-box” e Perfidia è una monumentale, devastante valanga di ottocento pagine che rende benissimo l’idea che “il mondo è un posto strano e incasinato”. Nel dettaglio, la tempesta americana si nutre di benzedrina, idrato di terpina, oppio, morfina e alcol come se piovesse per placare una sete tragica, ma l’unica, vera droga resta il potere.