In
una notte del dicembre 1976 Bob Marley, la moglie, il manager, i
Wailers vengono assaliti e feriti a colpi di armi automatiche.
L’attentato matura nelle circostanze tragiche e conflittuali dove
la strategia della tensione e degli interessi e delle perversioni
della guerra fredda hanno trasformato la Giamaica in un campo di
battaglia. Dall’antefatto storico, Marlon James dipana la Breve
storia di sette omicidi seguendo le voci del ghetto secondo le
quali nella selva giustizia e vendetta collimano e tutti i sette
attentatori sono spariti nel nulla. L’idea ha senso e non solo per
Bob Marley e la Giamaica perché, come ha giustamente notato Irvine
Welsh, il ritornello insistente che attraversa la Breve storia di
sette omicidi parla del potere e di conseguenza della corruzione,
della falsità, della sua innata e irrinunciabile vocazione alla
violenza. Forse quello di Marlon James è l’unico modo per
raccontarlo perché fa sprofondare il lettore nella Breve storia
di sette omicidi, senza spiegazioni, senza indicazioni, senza
metafore, senza traduzioni. La struttura che ha sviluppato è
allettante: il sovrapporsi di differenti modulazioni, con l’incedere
della lingua compressa tra il gergo, lo slang, il patois, l’inglese,
lo spagnolo, il dialetto, un po’ di tutto, ma anche le diverse
intonazioni dei personaggi, compresa una variegata selezione di versi
di Bob Marley infilati tra le pieghe del discorso, è molto efficace
nel ricreare un’atmosfera di incertezza e di insensata ferocia. Il
ritmo è vorticoso e martellante, ma l’aderenza linguistica non
spiega, è dura, ostica, proprio come la disperazione nelle notti
della Giamaica. La capacità di Marlon James di cogliere la
dimensione della Breve storia di sette omicidi non è in
discussione, solo che spesso la narrazione si arrotola su se stessa e
se non c’è alcun dubbio che sappia districarsi nei meandri degli
idiomi e dei fatti caraibici, non c’è nemmeno su una congrua quota
di narcisismo. Questo incide in modo particolare nella fase finale
ambientata a New York: dovrebbe concludere e circoscrivere, e invece
è fine a se stessa, molto lontana (e non solo dal punto di vista
geografico) dal resto del romanzo. Torbido e convulso, Breve
storia di sette omicidi si porta dietro un bel po’ di
confusione, che è anche parte integrante del gioco di Marlon James,
con le voci dei personaggi che s’incastrano una nell’altra e la
narrazione, già abbastanza contorta, che si fa cacofonica.
Inevitabile che qualche dettaglio non si incastri. Su tutti, uno dei
personaggi principali nelle prime battute di Breve storia di sette
omicidi, Papa-Lo, sostiene che è appena arrivato un carico di
Glock e M9. Nel 1976 le Glock non esistevano e M9 è la designazione
data nel 1980 dall’esercito americano alla pistola (italiana)
Beretta 92 FS. La questione non è perniciosa. Potrebbe essere un
anacronismo, piuttosto delicato da interpretare visto che Breve
storia di sette omicidi è imperniato su una sparatoria in
particolare e su più scontri con armi da fuoco in generale. Potrebbe
essere un lapsus o un improbabile déja vu, dato che la Breve storia
di sette omicidi si conclude nel 1991 quando quelle armi, sì,
godevano di una certa popolarità. Il dettaglio resta in sospeso,
l’ambiguità rimane. Estremo, eccessivo, a tratti ridondante, per
Breve storia di sette omicidi la sintesi migliore è quella
del proverbio giamaicano citato in epigrafe: “Se non è andata
così, ci è andata vicino”. Né più, né meno.
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