venerdì 5 agosto 2016

Marlon James

In una notte del dicembre 1976 Bob Marley, la moglie, il manager, i Wailers vengono assaliti e feriti a colpi di armi automatiche. L’attentato matura nelle circostanze tragiche e conflittuali dove la strategia della tensione e degli interessi e delle perversioni della guerra fredda hanno trasformato la Giamaica in un campo di battaglia. Dall’antefatto storico, Marlon James dipana la Breve storia di sette omicidi seguendo le voci del ghetto secondo le quali nella selva giustizia e vendetta collimano e tutti i sette attentatori sono spariti nel nulla. L’idea ha senso e non solo per Bob Marley e la Giamaica perché, come ha giustamente notato Irvine Welsh, il ritornello insistente che attraversa la Breve storia di sette omicidi parla del potere e di conseguenza della corruzione, della falsità, della sua innata e irrinunciabile vocazione alla violenza. Forse quello di Marlon James è l’unico modo per raccontarlo perché fa sprofondare il lettore nella Breve storia di sette omicidi, senza spiegazioni, senza indicazioni, senza metafore, senza traduzioni. La struttura che ha sviluppato è allettante: il sovrapporsi di differenti modulazioni, con l’incedere della lingua compressa tra il gergo, lo slang, il patois, l’inglese, lo spagnolo, il dialetto, un po’ di tutto, ma anche le diverse intonazioni dei personaggi, compresa una variegata selezione di versi di Bob Marley infilati tra le pieghe del discorso, è molto efficace nel ricreare un’atmosfera di incertezza e di insensata ferocia. Il ritmo è vorticoso e martellante, ma l’aderenza linguistica non spiega, è dura, ostica, proprio come la disperazione nelle notti della Giamaica. La capacità di Marlon James di cogliere la dimensione della Breve storia di sette omicidi non è in discussione, solo che spesso la narrazione si arrotola su se stessa e se non c’è alcun dubbio che sappia districarsi nei meandri degli idiomi e dei fatti caraibici, non c’è nemmeno su una congrua quota di narcisismo. Questo incide in modo particolare nella fase finale ambientata a New York: dovrebbe concludere e circoscrivere, e invece è fine a se stessa, molto lontana (e non solo dal punto di vista geografico) dal resto del romanzo. Torbido e convulso, Breve storia di sette omicidi si porta dietro un bel po’ di confusione, che è anche parte integrante del gioco di Marlon James, con le voci dei personaggi che s’incastrano una nell’altra e la narrazione, già abbastanza contorta, che si fa cacofonica. Inevitabile che qualche dettaglio non si incastri. Su tutti, uno dei personaggi principali nelle prime battute di Breve storia di sette omicidi, Papa-Lo, sostiene che è appena arrivato un carico di Glock e M9. Nel 1976 le Glock non esistevano e M9 è la designazione data nel 1980 dall’esercito americano alla pistola (italiana) Beretta 92 FS. La questione non è perniciosa. Potrebbe essere un anacronismo, piuttosto delicato da interpretare visto che Breve storia di sette omicidi è imperniato su una sparatoria in particolare e su più scontri con armi da fuoco in generale. Potrebbe essere un lapsus o un improbabile déja vu, dato che la Breve storia di sette omicidi si conclude nel 1991 quando quelle armi, sì, godevano di una certa popolarità. Il dettaglio resta in sospeso, l’ambiguità rimane. Estremo, eccessivo, a tratti ridondante, per Breve storia di sette omicidi la sintesi migliore è quella del proverbio giamaicano citato in epigrafe: “Se non è andata così, ci è andata vicino”. Né più, né meno.

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